
Fra Tre e Cinquecento il Mezzogiorno d'Italia diviene il teatro dello scontro tra le dinastie che si disputano il possesso del Regno, e con esso del Mediterraneo centrale: prima le case regnanti angioina ed aragonese, poi le nascenti monarchie nazionali di Francia e Spagna, ma anche i poteri locali, ostili ad ogni forma di centralizzazione, diedero vita ad una lunga serie di battaglie: più di trenta studiosi provenienti da varie nazioni e di diversi ambiti scientifici (storici, filologi classici e umanistici, italianisti, storici della lingua italiana, dell'arte, dell'architettura e della miniatura) hanno indagato la vasta documentazione letteraria ed artistica prodotta intorno a questi eventi bellici. Descritte in miniature, in affreschi, negli arazzi, nel bronzo o nel marmo, nel latino forbito degli umanisti o nel volgare schietto degli ambasciatori, nei capolavori di Machiavelli o di Guicciardini, le battaglie forniscono un'interessante chiave di lettura per una più approfondita conoscenza del Rinascimento meridionale. Al centro dell'indagine non sono tanto le battaglie in sé, pur qui ricostruite, quanto le loro differenti narrazioni, dove lo svolgimento reale dell'evento bellico finisce spesso per essere dissimulato attraverso un progressivo spostamento dal factus al fictus.
Il nome di Giovanni Orcel non figura nei libri di storia della Sicilia più noti e diffusi. Eppure fu un dirigente sindacale (segretario dei metalmeccanici di Palermo) e politico di primo piano, impegnato nello scontro interno al movimento operaio con opportunisti e pseudosocialisti, aperto al dibattito che porterà alla nascita del partito comunista (1921), protagonista dell'azione di affrancamento dei lavoratori e degli strati popolari dal dominio mafioso e attore di esperienze unitarie tra città e campagna, condotte assieme a Nicolò Alongi, altro dirigente dimenticato, e come lui caduto per mano mafiosa nel 1920, quando già si profilava la minaccia fascista. Il libro delinea il contesto socio-politico e ricostruisce la vicenda umana e politica di Orcel con una documentazione inedita, basata sulla stampa dell'epoca e su atti d'archivio che ci offrono un'immagine sconvolgente ma prevedibile dell'inchiesta sull'assassinio, più intesa ad assicurare l'impunità agli assassini che a svelarne e perseguirne le responsabilità, con un armamentario già collaudato e destinato a replicarsi, all'insegna delle omissioni colpevoli e del despistaggio garantito. Come scrive Umberto Santino nel saggio introduttivo, questo lavoro si inserisce pienamente nel quadro dell'attività trentennale del Centro Impastato di Palermo, volta a dare un'immagine adeguata della realtà siciliana, ancora oggi mortificata da rappresentazioni dominate da generalizzazioni e stereotipi.
“Ma quei mille chi erano? Di loro fu subito detto che erano eroi favolosi, pazzi sublimi, ed altre simili iperboli. Erano un popolo misto di tutte le età e di tutti i ceti, di tutte le parti e di tutte le opinioni, di tutte le ombre e di tutti gli splendori, di tutte le miserie e di tutte le virtù.”
La Storia dei Mille narrata ai giovinetti, pubblicata per la prima volta nel 1904, è forse l’opera di Giuseppe Cesare Abba che nei decenni successivi ha riscosso il maggior interesse di pubblico. Il testo, composto con toni celebrativi ed enfatici, ripercorre l’avventura di Garibaldi e dei suoi uomini analizzando il contesto culturale e politico in cui si formò la spedizione. Cavour, Mazzini, il desiderio dell’Unità d’Italia, e poi la Sicilia, la regione dove si poteva affermare il grande sogno risorgimentale di un popolo finalmente unito, sono gli elementi attorno ai quali Abba costruisce la sua partecipata narrazione. Narrazione di un viaggio, di una traversata, di un sogno che si realizza e che centocinquant’anni dopo è quanto mai utile far riascoltare ai ragazzi.
Dopo l'edizione dei 'Diari' di Cesare Guasti, vengono presentati i testi delle conferenze che si sono tenute negli anni 2006 e 2007 e che, come sempre, analizzano aspetti interessanti, e spesso poco conosciuti, della vita e dell'attività culturale di Cesare Guasti.
Il seicento barocco e contraddittorio, la Cagliari dell’epoca, le missioni gesuite in Paraguay delineano la scenografia ideata da Francesco Abate e Claudio Melis per l’avvincente romanzo storico “Il corregidor”. Dom Jorge Baxu ha attraversato l’intera Spagna a causa del suo lavoro. Lui è un corregidor de hidalgos, ovverosia un magistrato dedito a giudicare, e molto spesso ad assolvere, i nobili. Le terre sarde e precisamente la città di Cagliari richiedono ora i suoi servigi. Un funzionario, preoccupato per la morte prematura e violenta di molti giovani nobili, ha chiesto, infatti, il suo aiuto. Baxu, appena arrivato, dovrà fare i conti con l’omicidio dello stesso funzionario e la consapevolezza di avere di fronte, un caso difficile e urgente da risolvere. «Bambino, libro, fuoco» è la frase pronunciata da una delle ultime vittime poco prima di spirare e l’unico indizio in possesso del corregidor. Nel frattempo, Maria Pilar, nata nelle foreste circondati una missione gesuita in Paraguay e dotata di uno straordinario intuito, percepisce l’arrivo di una novità nella missione. Portato da un generale della Corona, il cambiamento avvertito da Maria è rappresentato da un bambino da nascondere al costo della vita. Due protagonisti e un unico nemico si intrecciano in questo intenso e ricco romanzo storico.
La Strenna dei Romanisti, il cui primo volume uscì nel 1940, trae origine dalla spontanea iniziativa di un gruppo di persone diversissime per formazione, cultura e attività professionale, ma saldamente unite dalla condivisa curiosità di indagare la storia di Roma nelle sue pieghe più recondite e sconosciute, e insieme dall’intento di rendere testimonianza di un passato personalmente vissuto e altrimenti destinato a scomparire: questo impegno, volontariamente assunto e svolto con il crisma della più assoluta gratuità, costituisce la caratteristica comune dei contributi riuniti nella Strenna, che perciò assume, come cifra irrinunciabile della propria identità, quella di risultato estemporaneo e casuale, che non lascia mai trasparire il rigore scientifico da cui necessariamente deriva quando si tratti di ricerche relative a un passato più o meno remoto. Così le pagine della Strenna si accordano uniformemente attraverso gli anni sul tono leggero e svagato di una conversazione condotta inter pocula fra amici capaci di intendersi nel linguaggio espresso da una comune cultura, al pari di quelli delle antiche brigate tre-cinquecentesche; risultato raggiungibile soltanto da penne agili e soprattutto espertissime, capaci di evitare con pari abilità ogni pesantezza erudita e ogni autobiografismo banale. Il passato remoto e quello prossimo assumono così una luce uguale di realtà minore e quotidiana, riportata in luce o sottratta a un’inevitabile scomparsa,insieme al ricordo di personaggi minimi, ma al tempo loro circondati da una certa fama anche soltanto rionale; fatti ed eventi legati più alla cronaca che alla storia, minuscole schegge di vita in grado comunque di illuminare aspetti sconosciuti e spiegare risvolti altrimenti incomprensibili di eventi storici di ben più ampia portata. La Strenna non nasce quindi come una raccolta di contributi accademici. Al contrario, secondo un processo spontaneo e del tutto estraneo alle intenzioni dei suoi autori, essa si è andata configurando come una enciclopedia unica e originalissima, repertorio di informazioni inedite e rare, comunque irreperibili altrove, su fatti e personaggi a volte famosi, ma spesso noti soltanto come nomi senza storia, incappati marginalmente in vicende più grandi di loro, di ogni tempo e a qualunque titolo legati a Roma, e affiorati per caso nel corso di ricerche volte a tutt’altro fine, o affidati alla memoria dei singoli, che sulle pagine della Strenna garantiscono la sopravvivenza del loro ricordo. Il materiale che ogni anno vi è pubblicato è un documento prezioso per le generazioni future e uno strumento per diffondere la conoscenza del tema «Roma», e l’amore per la città è la cifra distintiva di tutti i contributi.
La "Storia della Shoah", nata sotto la direzione di un collettivo di studiosi italiani coadiuvati da un comitato scientifico comprendente alcuni tra i maggiori specialisti internazionalmente riconosciuti, analizza il genocidio degli ebrei non soltanto come un evento geograficamente e cronologicamente circoscritto ma, più in generale, come un nodo problematico della storia del Novecento. L'evento, con la sua singolarità e la sua estrema condensazione temporale durante la guerra, è inevitabilmente posto al centro dell'opera, che ne ricostruisce il processo, le strutture, le forme, le tappe e gli attori. Ma la Shoah è studiata anche come un problema storico nel senso più ampio del termine, cercando di sondarne l'impatto sulla cultura del mondo occidentale.
La caduta di Costantinopoli è uno degli eventi leggendari della storia universale : come l'assedio di Troia, la servitù babilonese, l'incendio di Gerusalemme, la conquista di Città del Messico. In un ristretto spazio di terra, abbiamo di fronte due eroi: il giovanissimo Maometto II, ora violento e avido di potere, ora consapevole della vanità di ogni gloria umana; e l'ultimo imperatore di Bisanzio, Costantino XII, malinconico e solitario, conscio che il suo destino e il destino della sua città sono ormai segnati. Intorno a loro, echeggia un fittissimo coro : il coro dei greci che stanno per perdere la loro patria, dei turchi che vanno all'assalto accompagnati da una musica furiosa di tamburi e trombe, dei mercanti europei che vedono minacciati i loro privilegi commerciali, e dei prelati cattolici che temono l'Islam ma continuano a scorgere nella Chiesa Ortodossa l'antica rivale.
La raccolta in due volumi, curata da Agostino Pertusi, non ha paralleli in alcun paese del mondo. Essa comprende racconti in ogni lingua e di ogni specie: i diari dei mercanti veneziani e genovesi, le epistole del cardinale Isidoro di Kiev, le memorie dei greci sopravvissuti alla catastrofe, dei giannizzeri serbi, del patriarca di Costantinopoli, il testamento di papa Nicolò V, le lettere degli umanisti occidentali che vedono in pericolo la rinata religione delle lettere cristiane. Tra tutti i testi emergono i racconti di tre scrittori grandissimi : Nestore Iskinder, il fosco e apocalittico storico russo, che considera la sua patria come l'erede di Bisanzio; Tursun Beg, lo scrittore turco che trasforma gli orrori della conquista in una colorata favola da "Mille e una notte", e Ducas, il greco che piange sulla città caduta, sull'imperatore scomparso, sui giovani morti, sulle donne violate, su santa Sofia profanata.
Quando chiudiamo il grande libro di Pertusi e tutte le testimonianze discordanti si combinano nella nostra me- o moria, abbiamo un'impressione indimenticabile. Crediamo di aver partecipato anche noi all'assedio: con tale minuzioso amore erudito il commento di Pertusi ricostruisce ogni particolare e ogni istante delle giornate terribili ; e tutti i difensori della città sembrano ancora fermi al loro posto, dietro le porte o sopra le mura, nei loro inutili gesti di eroi condannati.
Indice - Sommario
Introduzione
Nota bibliografica
Cronologia
Parte prima - I TESTIMONI DELLA CADUTA DI COSTANTINOPOLI
NICOLÒ BARBARO, Giornale dell'assedio di Costantinopoli
ANGELO GIOVANNI LOMELLINO, Lettera sulla distruzione di Costantinopoli
ISIDORO DI KIEV, lettere a Nicolò V, al cardinal Bessarione, ai fedeli di Cristo, al doge di Venezia, a Filippo di Borgogna
"FAMILIARIS" DI ISIDORO DI KIEV, Lettera al cardinal Capranica
LEONARDO DI CHIO, Lettera sulla presa di Costantinopoli
JACOPO TEDALDI, Informazioni sulla conquista di Costantinopoli
GIACOMO CAMPORA, Orazione al re Ladislao d'Ungheria
UBERTINO PUSCULO, Costantinopoli
GIORGIO SPHRANTZÈS, Memorie
SAMILE, Lettera a Osvaldo, borgomastro di Hermannstadt
TOMMASO EPARCHOS E GIOSUÈ DIPLOVATATZES (?), Relazione sulla presa di Costantinopoli
GENNADIO SCOLARIO, Lettera pastorale sulla presa di Costantinopoli
COSTANTINO DI OSTROVICA, Memorie di un giannizzero
NESTORE ISKINDER, Racconto di Costantinopoli
AQ SEMS ED-DIN, Lettera a Mehmed II
TURSUN BEG E IBN KEMÂL, Storia del signore della conquista
Cartine
COMMENTO
- Elenco delle abbreviazioni usate nel Commento
- Nicolo Barbaro
- Angelo Giovanni Lomellino
- Isidoro di Kiev
- "Familiaris" di Isidoro
- Leonardo di Chio
- Jacopo Tedaldi
- Giacomo Camperà
- Libertino Pusculo
- Giorgio Sphrantzès
- Samile
- Eparchos
- Gennadio Scolano
- Costantino di Ostrovica
- Nestore Iskinder
- Aq Sems ed-Din
- Tursun Beg
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. La grande paura del mondo
I turchi erano una vecchia conoscenza, sia dei bizantini sia degli occidentali, ma soprattutto dei bizantini. Dai tempi della prima espansione dei Seldjukidi in Asia Minore (c. 1065) alla grave sconfitta subita dai bizantini a Mantzikert (1071) e alla costituzione del Sultanato di Rûm (1080), fino e oltre i tempi delle crociate, le conquiste turche costituirono una fonte di grave preoccupazione per l'impero bizantino e per gli occidentali. Ma il problema si fece quanto mai pressante quando la forte dinastia degli Osmani si impossessò del potere. L'avanzata di Urkhan verso le regioni europee avvenne in poco più di un trentennio: 1331, assedio e caduta di Nicea; 1336-7, assedio e caduta di Nicomedia e di Pergamo; 1340, arrivo sulle coste del Bosforo; 1344-6, battuta d'arresto: alleanza di Urkhan con l'imperatore Giovanni VI Cantacuzeno, fidanzamento e matrimonio di Teodora, figlia di Giovanni VI, con lo stesso Urkhan; 1346-8, bande turche in Tracia e in Macedonia; 1352, nuova alleanza di Giovanni VI con Urkhan, il figlio del quale mette in fuga Giovanni V Paleologo ; 1352-4, i turchi saccheggiano la Tracia, si impossessano della fortezza di Tzimpé e poi, approfittando di un terremoto, conquistano Gallipoli, che domina lo stretto; 1358, Giovanni V Paleologo, fallita una dimostrazione navale davanti a Focea, è costretto a riconoscere al sultano osmano le città della Tracia da lui conquistate; 1359, i turchi giungono fin sotto le mura di Costantinopoli; 1361, occupano Tchorlu, Didimoteichos, Kir Kilisse, vincono la battaglia di Lulle Burgas, conquistano Andrinopoli; 1364-5, la capitale turca è trasportata da Brussa, in Asia Minore, a Didimoteichos e poi ad Andrinopoli (Edirne). L'impero bizantino - o meglio, quello che rimaneva ancora dell'impero bizantino - era ormai chiuso in una morsa di ferro. Demetrio Cidone, ministro di Giovanni V (dal 1356 al 1358), vede già a quell'epoca con molta chiarezza la situazione. Egli non riesce a comprendere l'atteggiamento degli occidentali, sordi all'appello del papa Urbano V. Scrivendo all'amico Simone Atumano nel 1364, lo ragguaglia sulle opinioni che corrono negli ambienti di Costantinopoli: nessuno spera nell'aiuto occidentale; le promesse del papa sono considerate parole vane; gli stessi turchi chiedono, facendosi beffe dei bizantini, se hanno qualche notizia della crociata; anche lui, Cidone, teme di doversi associare all'opinione generale. È profondamente angosciato, e con grande lungimiranza politica scrive:
"Sappi comunque che, se essi non pongono in atto ora le loro minacce contro gli infedeli e tutto l'anno se ne va in risoluzioni e in preparativi, la capitale sarà presa: questo insegnano i fatti, come se fossero dotati di parola. E una volta che la [nostra] città sarà presa, essi saranno costretti a fare la guerra contro i barbari [= i turchi in Italia e sul Reno, e non soltanto contro di questi, ma anche contro coloro che abitano la Meotide [= Mar d'Azov], il Bosforo [Cimmerio = stretto di Kertch] e tutta quanta l'Asia. Quando infatti l'impero [bizantino] sarà scomparso, tutti questi popoli diventeranno gli schiavi dei vincitori, e questi [= gli asiatici] non saranno contenti se, caduto l'Oriente in schiavitù, vedranno gli altri popoli che stanno in Occidente vivere felicemente; si vendicheranno assieme ai barbari contro coloro che, pur avendo avuto la possibilità, non vollero impedire la sciagura, e faranno di tutto perché anch'essi siano fatti schiavi assieme a loro..."
Le idee che Cidone esprime all'amico, perché se ne faccia interprete presso i latini, sono da lui largamente sostenute in patria contro le diffidenze dei suoi connazionali, sia nella "Esortazione ai bizantini" nell'autunno del 1366, alla vigilia della inconcludente spedizione di Amedeo VI di Savoia, sia nella "Esortazione a non restituire Gallipoli", nel 1371. Quando infine, tornato da Venezia, trova sul trono Manuele II, successo alla morte del padre (1391), Cidone è sempre più allarmato della situazione politica e sociale, e scrivendo a Teodoro Paleologo, despoto di Morea, dice:
"Tutto qui è sconvolto e difficilmente si troverebbe quaggiù in terra un esempio simile di caos: i barbari [= turchi] si sono impadroniti di tutto, fuorché le mura della città, sono per sé stessi la causa della sua miseria, impongono tributi così gravi che le entrate tutte insieme non sarebbero sufficienti a pagarle, per cui occorrerà colpire di tasse anche la povera gente, se vorremo soddisfare, almeno in parte, l'ingordigia dei nostri nemici. Tutti però pensano che ciò sia impossibile e che non riusciremo mai a porre un freno alla loro cupidigia; guardano ormai alla schiavitù come all'unica cosa che sia in grado di liberarli dai mali interni... Inoltre continua ad infierire l'antico male che tutto ha distrutto: la lotta tra gli imperatori per questo spettro di potere, e la necessità, per loro, proprio a causa di tale lotta, di porsi a servizio del barbaro, perché solo così hanno la possibilità di sopravvivere..."
In questi anni anche il rappresentante di Venezia a Costantinopoli informa il suo governo sulla possibilità che l'impero passi in mano turca e sul generale malcontento della popolazione della città che desidererebbe un aiuto concreto da parte dell'Occidente. In effetti, i tentativi di parte turca di impossessarsi della capitale bizantina non mancarono, sia nel 1397-9, quando Bajezid Ilderim, dopo la vittoria di Nicopoli, pose il blocco a Costantinopoli - e lo storico Ducas ci informa che la popolazione presa nella morsa della fame desiderava che la città fosse conquistata -, per fortuna senza gravi conseguenze; sia più tardi, nel 1422, quando Murad II, per vendicarsi dell'appoggio dato da Manuele II al pretendente Mustâfa, pose l'assedio attorno a Costantinopoli e cercò di impossessarsene dando l'assalto alle mura, con un esercito, per buona sorte dei bizantini, troppo esiguo. Un testimone oculare di quest'ultimo tentativo, Giovanni Canano, così descrive - dopo la vittoria - l'arrivo di Murad II davanti alle mura:
"Venne furibondo, selvaggio, smargiasso, superbo, altero, orgoglioso; sollevando sprezzantemente al cielo il sopracciglio, egli riteneva di stare al di sopra di tutti, presumeva che ogni cosa dipendesse da lui e che l'universo intero fosse soggetto al suo comando..."