
Cronistoria di Piombino e del suo Principato. Il titolo di quest'opera e programmatico: Cronistoria di Piombino e del suo Stato". Esso significa che noi cercheremo di scandagliare l'esistenza di Piombino prima ancora che divenisse il centro di questo Stato Autonomo, che poi si disse "Principato di Piombino" spina dolente del Granducato di Toscana, in quanto soggetto al Regno di Spagna, quasi quanto l'infelice Stato dei presidi di Orbetello, Talamone ed Argentario. Va riconosciuta la grande maestria politica dei Signori Conti d'Appiano, dei principi Buoncompagni e loro successori che sfruttando le forze contrastanti di Firenze, Siena, Pisa, Genova, Impero, Francia, Spagna, Turchi e Napoli riuscirono a mantenere a questo loro Stato almeno una parvenza di liberta che va dall'anno 1399 al 1814, quando il Congresso di Vienna lo soppresse annettendolo alla Toscana, quale Granducato vassallo dell'Impero Austro-Ungarico... "
Ottobre-novembre 1917, dodicesima battaglia dell'Isonzo, disfatta di Caporetto. Di quel tragico momento sente l'eco il giovane ufficiale medico Filippo Petroselli, appena trasferito con il suo reparto a Bassano del Grappa. «Non dite - avverte - che il soldato italiano ha tradito.» E nelle sue memorie ammonisce: «Ricordatelo! La guerra non purifica. È una menzogna! La guerra è una melma che tutto copre e imputridisce». Già in Libia con gli alpini, Petroselli ama la «santa immagine della patria». Ma è intriso di spirito cristiano, e in lui amor di patria e pietà per il costo umano della Grande Guerra si confondono in una lettura critica degli eventi. Scritte nel 1920-21, le sue memorie antiretoriche, talvolta ironiche, talvolta cupe, sempre realistiche, aprono uno spaccato sul clima culturale italiano del travagliato secondo decennio del Novecento. Risorgimentale "riluttante", formatosi in un ambiente familiare e sociale clericale, il primo conflitto mondiale è stato per Petroselli l'«inutile strage» di Benedetto XV.
Ben prima dell'invenzione della stampa o della possibilità di leggere un quotidiano, la gente desiderava essere informata. Nell'era preindustriale le notizie venivano raccolte e diffuse attraverso le conversazioni e il gossip, le cerimonie civili e religiose, le prediche e gli annunci degli araldi. Con la stampa arrivarono i libelli, gli editti, le ballate, le pubblicazioni periodiche e i primi fogli di notizie: l'informazione passava dal ristretto ambito locale alla platea mondiale. Questo libro ne segue l'evoluzione, delineando la storia delle notizie in dieci paesi nel corso di quattro secoli. Ci rivela l'inaspettata varietà di modi grazie ai quali l'informazione veniva trasmessa, al pari dell'impatto avuto dalla diffusione dei media sugli eventi del tempo e sulle vite di un pubblico sempre più informato. Andrew Pettegree indaga su chi controllava le notizie e su chi le trasmetteva; sull'uso di esse come strumento di protesta politica e di riforma religiosa; su questioni di privacy e di stimolo dell'opinione pubblica; sulla continua ricerca di notizie fresche e di informatori affidabili; sul mutamento della percezione di sé delle persone affacciate a questa nuova finestra aperta sul mondo. Dalla fine del Settecento, conclude Pettegree, la trasmissione delle notizie divenne cosi efficiente e diffusa che i cittadini - ormai ragguagliati su guerre, rivoluzioni, crimini, disastri e scandali - si trovarono pronti per la prima volta a diventare protagonisti dei grandi eventi che li avrebbero coinvolti.
Le grandiose costruzioni templari, le migliaia di tavolette incise, i tesori delle tombe regali, i poemi epici ispirati a Gilgamesh: è l'eredità lasciata dal mondo sumerico agli archeologi che da oltre un secolo inseguono le vestigia di un popolo, affascinante e misterioso, di cui sono ancora ignote le origini e l'appartenenza etnica. Giovanni Pettinato compone una globale immagine che testimonia l'imponente incidenza culturale dei Sumeri, i quali costruirono con Uruk la prima città, inventarono la scrittura, istituirono l'insegnamento scolastico, il sistema bicamerale, lo Stato sovrano. L'opera è completata da ampie citazioni di testi mitologici.
Il Medioevo è un'età di grandi viaggi, e l'ospitalità ne è il presupposto fondamentale. Dai pellegrini in cammino verso Gerusalemme o verso Santiago de Compostela, dai mercanti in viaggio per le fiere francesi, fiamminghe e italiane, dai sovrani e dai potenti laici ed ecclesiastici itineranti per amministrare il potere e la giustizia sino alle folle di diseredati in cerca di fortuna per le strade d'Europa, ognuno poteva trovare una sistemazione e un pasto conforme al proprio rango, nel palazzo sontuoso o nella stalla sovraffollata e maleodorante.
Questo scritto fu pubblicato per la prima volta nel 1946 per conto del Consiglio Federale delle Chiese Cristiane Evangeliche d'Italia che ne aveva affidato la redazione a Giorgio Peyrot (1910-2005). Con esso si intendeva porre all'attenzione dei Costituenti la necessità di affermare una libertà religiosa eguale per tutti e senza discriminazioni, con il superamento delle disposizioni più illiberali. Ad esempio l'impedimento al ministro di una determinata confessione acattolica, sprovvisto di approvazione governativa, di esercitare liberamente gli atti conseguenti al proprio ministero in privato e in pubblico. Giorgio Peyrot è stato Docente di Diritto Ecclesiastico presso la Facoltà Valdese di Teologia e all'Università di Perugia. Fu personalita? di rilievo nel panorama degli studi giuridici e delle relazioni tra societa? civile e societa? religiosa e strenuo difensore delle minoranze religiose.
Durante la guerra di Algeria (1954-1962, un milione di morti, efferate torture e sistematiche violazioni dei diritti umani) la giovane recluta francese Jean Pezet, appena ventenne, decide di fare obiezione di coscienza ispirando la propria scelta nonviolenta direttamente al Vangelo e all'ordine tassativo del "tu non ucciderai". Per questo verrà tratto in arresto, processato due volte e condannato a tre anni di carcere. Su quella esperienza egli scrisse un diario nel quale sono raccontati sia gli scontri e i dialoghi serrati con alti ufficiali e cappellani militari, sia la progressiva maturazione di una scelta difficile pagata con l'alto prezzo della reclusione e dell'isolamento. Una testimonianza straordinaria che denuncia quella lunga guerra coloniale che peserà dolorosamente su una intera generazione di francesi.
A sessant'anni dalla nascita dello stato di Israele, e a cento dalla nascita del sionismo, l'autore ha deciso di interpretare il fenomeno attraverso le storie di coloro che, con la loro volontà di vivere in Israele, lo hanno personalmente realizzato. Il volume raccoglie le storie di una trentina di ebrei italiani che, dagli anni trenta ai novanta del secolo scorso, hanno fatto "aliyà", sono diventati israeliani. Il sionismo, una parola che a intervalli regolari corre il rischio di diventare una parolaccia, vive in queste pagine della sua vera luce. Il libro contiene un saggio storico di Vittorio Dan Segre.
Più di cento sopravvissuti raccontano la loro storia, componendo un grande racconto corale dell'ebraismo italiano. Dal mondo di prima, l'infanzia, la scuola, alle leggi antiebraiche e alla conseguente catena di umiliazioni. E poi l'occupazione tedesca, gli arresti, le detenzioni, la deportazione. Complessivamente nel 1943 venne deportato circa un quinto degli ebrei residenti sul territorio italiano: oltre 9000 persone. Nella quasi totalità dirette ad Auschwitz. Ma chi erano gli ebrei italiani? All'inizio degli anni Trenta erano circa 45 000 persone; le comunità più consistenti erano quelle di Roma (oltre 11 000), Milano, Trieste, Torino, Firenze, Venezia e Genova. Comunità, in generale, fortemente integrate nel tessuto sociale del Paese, a tal punto che dopo la liberazione solo un'esigua minoranza dei sopravvissuti scelse, a differenza degli ebrei di altre nazionalità, di vivere altrove. Un mosaico di testimonianze che ha sui lettori un effetto dirompente proprio grazie al fittissimo intreccio di ricordi, traumi, sogni, rabbia, smarrimento, sensi di colpa, e persino speranza, dopo il ritorno alla vita.
Più di cento sopravvissuti raccontano la loro storia, componendo un grande racconto corale dell'ebraismo italiano. Dal mondo di prima, l'infanzia, la scuola, alle leggi antiebraiche e alla conseguente catena di umiliazioni. E poi l'occupazione tedesca, gli arresti, le detenzioni, la deportazione. Complessivamente nel 1943 venne deportato circa un quinto degli ebrei residenti sul territorio italiano: oltre 9000 persone. Nella quasi totalità dirette ad Auschwitz. Ma chi erano gli ebrei italiani? All'inizio degli anni Trenta erano circa 45 000 persone; le comunità più consistenti erano quelle di Roma (oltre 11 000), Milano, Trieste, Torino, Firenze, Venezia e Genova. Comunità, in generale, fortemente integrate nel tessuto sociale del Paese, a tal punto che dopo la liberazione solo un'esigua minoranza dei sopravvissuti scelse, a differenza degli ebrei di altre nazionalità, di vivere altrove. Un mosaico di testimonianze che ha sui lettori un effetto dirompente proprio grazie al fittissimo intreccio di ricordi, traumi, sogni, rabbia, smarrimento, sensi di colpa, e persino speranza, dopo il ritorno alla vita.