
A distanza di 140 anni dalle prime partenze organizzate dall'Italia e dai primi arrivi nel Rio Grande do Sul, il volume ripercorre i percorsi dei migranti indagando quei comportamenti e quelle strategie che hanno portato alla creazione in terra brasiliana di nuovi territori caratterizzati da elementi visibili e invisibili di italianità. Ponendo al centro del discorso la valorizzazione delle tradizionali tecniche vitivinicole, riproposte e riadattate al contesto brasiliano dai migranti, Flavia Cristaldi ripercorre attraverso questo studio l'azione dei contadini e delle loro famiglie nella costruzione di quei paesaggi segnati dall'uva e dal vino che ancora oggi raccontano delle origini degli abitanti. L'appartenenza all'Italia e alla sua discendenza modella così il territorio, lo caratterizza nei segni e nei valori culturali, ne determina le forme e l'uso, raccontando al mondo il piacere di poter bere un bicchiere di vino, quello stesso vino le cui gocce fanno esplodere nella memoria e nell'inconscio l'epopea dei migranti italiani e delle loro conquiste.
Chissà se è vero che dietro ogni grand'uomo ci sia una grande donna. È vero che spesso dietro una grande donna non c'è che lei. Quando Cristina di Belgiojoso dirigeva in Francia la "Gazzetta italiana", Terenzio Mamiani protestò che "un giornale politico, primo di tal fatta per l'Italia, fosse diretto da una donna". Poveri uomini: anche i più grandi. Alessandro Manzoni, per esempio, turbato dalla "manìa di quella signora di diffondere l'istruzione ne' suoi contadini". Cristina ebbe una vita straordinaria: "bambola da salotto, topo di biblioteca e strega, principessa rivoluzionaria e infermiera, zingara e pellegrina'". Il poeta Heine la descrisse come "una bellezza assetata di verità". Al centro della sua personalità, dei suoi amori e delle sue peregrinazioni stette la passione politica. Aspettò lungamente la stagione che si chiamò primavera dei popoli (nome tornato improvvisamente vivo ai giorni nostri), la preparò e vi si preparò. Gli scritti qui raccolti su Milano e Venezia uscirono alla fine di quel 1848 a Parigi. "La libertà individuale puramente politica," pensava allora, "non è favorevole che alla liberazione effettiva di alcune classi privilegiate... Il principio realmente popolare, il principio democratico ed evangelico è il principio dell'uguaglianza. "Corsa poi a condividere la "democrazia pura" della Repubblica romana del '49, pur annotando le "minchionerie molte e varie" dei triumviri, Cristina fu a capo del soccorso ai feriti.
Il nome di Marco Giunio Bruto riecheggia nella storia quale sinonimo di tradimento e irriconoscenza, oppure di fedeltà ai propri ideali. Osannato e al contempo dispregiato dai posteri, che videro in lui talvolta l'assassino, talaltra il paladino della Repubblica, legò la sua vita a uno degli eventi più noti della storia universale: la congiura che portò alla morte di Giulio Cesare. Nato nel bel mezzo delle guerre civili fra Silla e i seguaci di Mario, Bruto si formò sotto l'influsso dello zio Catone. Per l'elevata considerazione di cui godeva venne attratto nella trama del cesaricidio dal cognato Cassio, destinato a formare con lui, nella memoria collettiva, una specie di binomio; al disegno tirannicida, Bruto impresse realismo, con lo scopo di riaprire la competizione politica dopo che un singolo uomo si era librato ad un'altezza inusitata, non più compatibile con quell'ascesa verso una porzione di potere autentico che i maggiorenti dell'epoca chiamavano «libertà». L'orologio della storia scandiva inesorabilmente il percorso di Roma verso una forma di potere accentrata che avrebbe preso il nome di principato, e il tentativo di Bruto e di Cassio di fermare il tempo si infranse in Macedonia, a Filippi: entrambi sarebbero morti sconfitti e suicidi nella guerra contro Antonio e Ottaviano, a distanza di qualche settimana. Secondo la leggenda, il demone di colui che avevano ucciso avrebbe inquietantemente spinto le loro vite verso il crepuscolo, che era anche quello della repubblica.
La storia della conquista del Cervino è una vicenda romanzesca che da 150 anni continua a suscitare passioni e controversie. I protagonisti sono la guida valdostana Jean Antoine Carrel il Bersagliere, l'illustratore vittoriano Edward Whymper, lo statista alpinista Quintino Sella e il suo braccio destro Felice Giordano, l'anticonformista abbé Gorret. Cruciali gli interrogativi mai chiariti: perché Carrel, bloccato a 250 metri dalla vetta, per tre anni non avanza di un passo sulla "sua" cresta del Breuil? E perché Whymper - miracolato da una corda spezzata costata la vita a quattro compagni - da superstite diventa il trionfatore del Cervino, mentre l'impresa degli italiani - che subito dopo espugnano la ciclopica piramide senza farsi un graffio resta nell'ombra? Pietro Crivellaro conduce una vera e propria inchiesta per chiarire una delle vicende più appassionanti dell'alpinismo. A guidarlo sono documenti autentici, pressoché sconosciuti, che svelano nuovi intrecci e retroscena. Il duello Whymper-Carrel si rivela così una vera e propria battaglia post-risorgimentale, con la regia di Quintino Sella, per contrastare l'invadenza degli inglesi sulle "nostre Alpi" e contribuire a "fare gli italiani".
Il volume raccoglie 47 testimonianze di esponenti del mondo cattolico che hanno partecipato in modo diverso all'esperienza resistenziale. L'opera intende offrire un contributo alla più recente produzione storiografica e all'articolato dibattito che ad essa si è accompagnato relativamente alla presenza, al ruolo e al significato della partecipazione cattolica alla Resistenza. Ai risultati finora acquisiti attraverso lo studio di una vasta gamma di fonti scritte, si è voluto affiancare l'apporto della storia orale quale proficuo strumento di integrazione e di verifica della documentazione e della letteratura sul tema.
«Così, dopo lunghe titubanze e una serie di soluzioni provvisorie, nel febbraio o marzo del 1893, meditando intensamente un giorno intero, alla sera abbozzai una memoria ... che fu come una rivelazione di me a me stesso» scrive Croce in "Contributo alla critica di me stesso". In effetti, a partire da questa «memoria» fervidamente antipositivistica ? volta a confutare le tesi di storici come Droysen e Bernheim ? Croce si libera dal suo passato, dalla «scrittura di erudizione» come lui stesso la definiva, e, nell'affrontare le complesse relazioni fra arte, scienza e storia, scopre la sua vera vocazione: l'interesse, prepotente, per le questioni teoriche e le indagini storiche di più ampio respiro. Leggendola, ritroveremo non solo «la facilità e il calore» con cui Croce la compose, ma tutta la forza dimostrativa di uno stile ineguagliabile.
"La storia come pensiero e come azione" esce presso Laterza nel 1938. La prima tiratura risulta rapidamente esaurita e viene subito preparata la seconda edizione. Un anno dopo esce la terza edizione, accresciuta di nuovi capitoli. Come scrive Luciano Canfora nella sua introduzione: «Questo libro, dal titolo mazziniano e goethiano al tempo stesso, è stato definito, non a torto, "il maggior libro della maturità crociana". Esso consiste, in primo luogo, in una appassionata difesa dello storicismo contro i suoi detrattori. Croce li chiama "avversari della storiografia". Essi denunciano, dello storicismo, la avalutatività; gli contrappongono l'illuminismo; a costoro, esso appare come la "maschera" che nasconde immobilismo, fatalismo, inerzia. È dunque un libro di battaglia culturale tanto quanto 'olimpico' era il remoto suo predecessore concepito e diffuso prima della 'grande guerra' (1912/1913) "Teoria e storia della storiografia". Ma è una battaglia su più fronti». Introduzione di Luciano Canfora.
Nel dicembre del 1909 l'editore tedesco Mohr chiese a Croce di scrivere una sorta di "manuale di Filosofia della storia". Commessa stravagante, se rivolta a un autore secondo il quale "un volume di Filosofia della storia non si può fare in niun modo; o almeno, non si può fare da me, che nego radicalmente la filosofia della storia". E singolare risultato, questo "Teoria e storia della storiografia", che richiede quasi otto anni di lavoro, e si legge oggi come il libro che più di ogni altro scandaglia, e illumina, la tesi forse più celebre di Croce: "Ogni vera storia è storia contemporanea".
Presentando questa sua opera, Croce scrisse, con estrema sobrietà, che si trattava dello «schizzo di una storia dell’Italia dopo la conseguita unità di stato», concepito come «tentativo di esporre gli avvenimenti nel loro nesso oggettivo e riportandoli alle loro fonti interiori». Ma, di fatto, scoprire il «nesso oggettivo» in quei «quarantacinque anni, di quelli che si chiamano “di pace”», fra il 1871 e il 1915 implicava di coglierne anche la relazione con gli anni del Risorgimento e di proiettare la storia italiana sulla scena dell’Europa moderna. Cosicché, proprio perché coinvolge l’identità stessa della nazione italiana, questa Storia d’Italia è diventata forse la più discussa fra le grandi opere storiche di Croce, quella che ha avuto la più lunga e la più vasta influenza sulla visione che generazioni di italiani si sono formati della propria storia. Ma occorre anche dire che Croce, in questo libro, mostra con il massimo vigore le sue qualità di storico-narratore, intrecciando ai conflitti delle idee quelli tra le forze politiche e sociali nonché quelli tra le varie personalità politiche dell’epoca. Sono pagine che ci offrono un quadro imprescindibile di come si sviluppò il nostro paese sino alla cesura drammatica della prima guerra mondiale. E la raffigurazione narrativa di questa Italia fine Ottocento e primo Novecento apparirà tuttora molto più efficace di quelle che la letteratura italiana del tempo invano tentò di dare.
Storia d’Italia dal 1871 al 1915 fu pubblicato per la prima volta nel 1928.