
L'Tsis, la sigla dietro cui opera la nuova minaccia dei terrorismo internazionale, si è affermato in Siria e in Iraq ma attira migliaia e migliaia di combattenti perfino dall'Europa e dagli Stati Uniti. Il segreto di questo "successo" è nelle sue efficaci tecniche di propaganda, simili a quelle utilizzate dalle multinazionali dell'Occidente. Francesco Borgonovo racconta il mondo dell'Isis da una prospettiva inedita, smascherando il micidiale perfezionamento delle tecniche di comunicazione del terrore adottate dai suoi uomini. Un'indagine che si muove tra saggio, cronaca, trattato, intervista e romanzo per arrivare al cuore di una situazione che, lo si voglia o meno, riguarda tutti noi.
Un ormai famoso filmato d'epoca girato dai soldati sovietici nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, ha tramandato ai posteri l'immagine di Michael Bornstein bambino mentre, a soli quattro anni, viene portato fuori dal campo di Auschwitz tra le braccia della nonna. "Il più giovane prigioniero di Auschwitz" racconta la straordinaria storia dei Bornstein, ebrei originari di Zarki, in Polonia, e le incredibili traversie che permisero ad alcuni di loro di sopravvivere al campo di concentramento nazista più terribile e tristemente noto. Attraverso documenti personali e numerose interviste ai superstiti e ai parenti che hanno condiviso con i Bornstein l'orrore dell'Olocausto, Michael ha ricostruito, con l'aiuto della figlia Debbie Bornstein Holin-stat, la straziante esperienza vissuta in un inferno dal quale in pochi sono potuti tornare indietro. Un libro documentatissimo, ma soprattutto una narrazione diretta ed empatica che permette al lettore di ritrovarsi catapultato all'interno delle baracche di Auschwitz e capire come i Bornstein siano riusciti a sopravvivere e ad attraversare una delle più umilianti e terribili pagine della storia moderna.
Il 21 agosto 201 3 un attacco chimico alla periferia di Damasco ricorda al mondo l'esistenza della guerra in Siria, già in corso da due anni. L'intervento occidentale sembra imminente, decine di giornalisti accorrono alla frontiera per poi sparire delusi quando Obama decide di non bombardare. Lasciano dietro di sé 1 26.000 vittime accertate, 200.000 stimate, e oltre metà della popolazione sfollata o rifugiata nei paesi vicini: secondo le Nazioni Unite, la peggiore crisi umanitaria dai tempi della seconda guerra mondiale. Francesca Borri copre per mesi la battaglia di Aleppo da reporter freelance e capisce presto di trovarsi su un duplice fronte: quello di una guerra senza regole, dove non esiste alcuna distinzione tra civili e combattenti, ma anche il fronte quotidiano dei rapporti con i caporedattori e gli altri giornalisti, in cui dominano cinismo, competizione, superficialità. Un viaggio nella guerra, ma anche nei meccanismi a noi nascosti con cui viene costruito, e spesso distorto, il suo racconto. Un viaggio che investe come un colpo di mortaio tutto quello in cui crediamo, il lavoro, l'amicizia, le ambizioni, e ci costringe a non sprecare più niente della bellezza della vita.
Perché tante stragi e delitti in Italia rimangono impuniti? La ricerca della verità è un percorso a ostacoli e in troppi casi, prima ancora di cercare i colpevoli, si è messa in dubbio la credibilità di chi accusava. È accaduto a Giovanni Falcone quando si disse che la bomba dell'Addaura l'aveva piazzata lui stesso e a Paolo Borsellino la cui agenda rossa, misteriosamente scomparsa, sarebbe stata un «parasole». Don Diana? «Era un camorrista.» Peppino Impastato? «Un terrorista.» La lista dei nomi infangati per distrarre l'attenzione dai delitti è lunga. E la strategia ha un preciso nome in gergo, «mascariamento». Per comprenderne i drammatici effetti, Paolo Borrometi ci accompagna in un viaggio nella storia d'Italia in cui denuncia i traditori, i criminali che mirano a creare confusione nel Paese per raggiungere i propri interessi illegittimi. A discapito della verità. Un reportage giornalistico tra anomalie, depistaggi e buchi neri che parte dallo sbarco degli americani in Sicilia nel 1943 per arrivare ai giorni nostri, passando per le bombe degli anni Settanta e la strategia della tensione: da Portella della Ginestra a via Fani, dall'Italicus al Rapido 904, da Bologna a Capaci e Via d'Amelio, fino all'arresto del latitante Matteo Messina Denaro. Una storia, alternativa e potente, del lato oscuro del Paese.
Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.
L'impero coloniale italiano è crollato con la Seconda guerra mondiale, molto prima rispetto a quelli delle grandi potenze europee. Paradossalmente, proprio questa decolonizzazione 'precoce' ha consentito all'Italia un impegno, sul piano politico e diplomatico, in termini non più di soggezione ma di partenariato. La creazione dell'associazione euro-africana, prevista dai Trattati di Roma del 1957, è stata un'occasione per giocare un ruolo ponte e acquisire una fama inedita presso i paesi di nuova indipendenza. A interagire con queste prospettive fu anche la Chiesa cattolica. Le aperture del Concilio Vaticano II - cui partecipò per la prima volta una visibile rappresentanza africana - e le attenzioni manifestate da papa Paolo VI con i suoi viaggi in Africa, impressero una spinta decisiva alle proiezioni africane dell'Italia. In questo quadro entrarono in gioco nuovi soggetti della società civile, come l'associazionismo cattolico e laico e le reti missionarie, che contribuirono alla maturazione, nella società italiana, di una sensibilità e di un variegato slancio solidaristico. Tutto questo si esaurisce con il 1989: la fine del mondo bipolare e, sul piano interno, la dissoluzione di assetti politici e il crescente fenomeno immigratorio, aprono una stagione di forti spinte introspettive e 'afropessimiste'. Si incrina, così, quella proiezione unitiva che aveva animato visioni e strategie sul piano politico e a livello collettivo, isolando l'Italia e condizionando gli sviluppi di un'eredità storica di lungo periodo.
Acqua gelata sulle speranze riaccese negli iraniani dall’accordo sul nucleare del 2015: questo si rivela subito l’arrivo di Trump alla Casa Bianca. E la sua nuova politica verso l’Iran sembra voler riaprire quella stagione di ostili contrapposizioni che si pensava archiviata: «Trump sembrava Ahmadinejad e Rohani sembrava Obama», è il commento che dilaga su Twitter dopo i discorsi dei due presidenti in carica all’Assemblea generale dell’Onu del settembre 2017. Da quella data, e dai riti luttuosi dell’Ashura di pochi giorni dopo, parte il libro di Luciana Borsatti per raccontare il nuovo clima, raccogliendo tra gli iraniani voci e punti di vista diversi. Ma L’Iran al tempo di Trump racconta anche la vita e gli umori di una società in costante trasformazione – dalle donne come potente motore di cambiamento alla percezione interna del ruolo di Teheran nella guerra in Siria – cercando di allargare il campo rispetto alle strettoie in cui è imprigionata la rappresentazione di un Paese che poco si presta alle semplificazioni.
Mito politico e categoria pratica, "Monarchia universalis" costituisce uno dei concetti politici cardine dell'età moderna, declinando sì dopo la pace di Westfalia, ma scomparendo solo nel Settecento. Fino ad allora le maggiori potenze avevano cercato di rappresentarsi come la monarchia universale per legittimare una propria superiorità sulle altre e un proprio specifico diritto a definire il buon ordine collettivo europeo. Lungi dall'essere un'affermazione retorica, la pretesa di poter agire come monarchia universale da parte di Spagna, Francia, Impero (e pure Inghilterra) aveva una rilevanza effettuale di grande peso e proprio per questo su di essa si appuntò a lungo l'attenzione dei teorici politici e dei polemisti, sia per definirne meglio le caratteristiche, sia per negarle alle potenze concorrenti. Il libro ricostruisce tale intricato e affascinante dibattito, mettendo in luce altresì la specificità della politica d'antico regime rispetto a quella della modernità per il suo strutturale legame teorico con l'etica - poiché essere "Monarchia universale" significa farsi carico non dell'ordine ma del buon ordine - e permette di ripensare il sistema delle 'relazioni internazionali' del tempo e insieme la genealogia della nostra cultura storica e politica da una prospettiva fino ad ora ingiustamente trascurata.
Il 16 giugno 1940, mentre la Francia stava per soccombere all'avanzata travolgente della Germania nazista, Jean Monnet ispirò a Churchill la straordinaria proposta di una "unione indissolubile" tra la Gran Bretagna e la Francia, con comuni organi legislativi, esecutivi e giudiziari. Nonostante le grandi difficoltà da superare in quella che, a ragione, si può definire oggi la prima azione sovrannazionale della storia contemporanea, in molti videro "il ponte verso un mondo nuovo, i primi rudimenti di una federazione europea o magari mondiale". Quando Churchill, non senza scetticismo, presentò al Gabinetto di guerra britannico il documento redatto da Monnet, rimase sorpreso dagli ampi consensi ricevuti: Attlee, Bevin e Sinclair si erano già dichiarati a favore di una federazione anglo-francese e altri membri del Gabinetto erano stati persuasi da Lothian, Curtis e Beveridge della necessità di realizzare una federazione delle democrazie nel corso della guerra. La conversione al federalismo europeo di una parte rilevante della cultura, della pubblica opinione, della Chiesa anglicana e del mondo politico britannico fu opera di Federal Union, il primo movimento federalista europeo organizzato su base popolare. Con Federal Union aveva preso l'avvio un nuovo comportamento politico, per cui il fine della lotta politica non era più la conquista del potere nazionale, ma la costruzione di un'istituzione sovrannazionale, la federazione europea.