
Non è certamente un caso, se oggi la Libia è, insieme alla Siria, il Paese più violento e caotico del Mediterraneo. Nella "Quarta sponda", Sergio Romano ne ripercorre la storia e ce ne illustra i tanti volti. Il primo è quello delle due province ottomane, alla periferia dell'Impero, quando l'Italia ne decise la conquista: piccole società ebraiche ed europee nelle due città maggiori, modesti traffici con il Mediterraneo e con l'Africa, tribù combattenti e gelose della loro indipendenza che daranno molto filo da torcere all'amministrazione coloniale italiana. Il secondo è quello della colonia degli anni Venti e Trenta. Nacque allora, soprattutto durante il governatorato di Balbo, una Libia italiana di cui esistono ancora parecchie tracce. Il terzo è quello della Libia post-coloniale, dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la proclamazione dell'indipendenza: un piccolo regno, una nuova ricchezza rappresentata dal petrolio e dal gas, un'importante comunità italiana e buone relazioni con la vecchia potenza coloniale. Il quarto è quello di Gheddafi, ufficiale nazionalista, spregiudicato, tirannico, divorato da insaziabili ambizioni. Il quinto e ultimo volto è quello incompleto di un Paese che non è ancora riuscito, dopo le rivolte arabe, a trovare un nuovo equilibrio ed è tuttora sconvolto da una sanguinosa guerra civile. Ma è sempre lì, di fronte alle coste italiane, con le sue ricchezze, le sue minacce e il suo carico d'immigrati che riversa sulle nostre spiagge: una buona ragione per conoscere meglio la sua storia.
L'uomo che ha vinto le elezioni presidenziali americane dello scorso novembre è più vecchio di tutti i suoi predecessori. Ma è anche un presidente post-moderno, capace di usare con grande destrezza le tecniche di un mondo digitale, le seduzioni della televisione e tutti gli strumenti più raffinati della finanza moderna. Trump è stato un industriale, ma ha creato soprattutto lusso e svago. Pochi uomini politici sono stati altrettanto detestati dall'opinione pubblica liberale e democratica del suo Paese. Ma pochi uomini sono stati altrettanto osannati dalle folle deliranti dei sostenitori. Ha fatto una campagna elettorale piena di minacce e promesse, ma ha spesso rovesciato da un giorno all'altro le sue posizioni. Può un tale uomo dimenticare i suoi personali interessi per consacrarsi a quelli della nazione? Può guidare una grande potenza mondiale e preservare la sua autorità nel mondo? O è destinato ad accelerarne il declino?
Nell’ultimo decennio si è assistito alla nascita di numerosi movimenti populisti confluiti tutti nella definizione di «sovranismo» e viene da chiedersi perché così tante società nazionali siano convinte di avere perduto la propria sovranità e vogliano riconquistarla.
Le motivazioni e lo stile di tale rivendicazione cambiano da un Paese all’altro. I due maggiori partiti sovranisti italiani, per esempio, hanno priorità diverse e tratti diversi da quelli dei Paesi scandinavi. Il sovranismo americano, soprattutto dopo l’elezione di Donald Trump, non è quello ungherese di Viktor Orbán o quello francese di Marine Le Pen. Ma tutti rappresentano società che hanno accumulato insoddisfazione e malumore contro le formule politiche e i principi economici che sono stati per molti anni le colonne portanti della loro esistenza. Tutti hanno un nemico a cui attribuire la propria infelicità, vera o presunta.
Sergio Romano indaga a fondo le origini, i rischi e le conseguenze delle nuove ondate di sovranismo. Attraverso numerosi esempi, spiega in che modo l’epidemia sia stata favorita da altri fenomeni. E offre nuovi e interessanti spunti su quelli che potrebbero essere i rimedi per curare un male che pare in inarrestabile crescita. Un punto di vista inatteso che mette in discussione l’Europa così come è stata pensata fino a oggi.
Col Trattato di Versailles, al termine della Grande guerra, la Germania è condannata a pagare in trent'anni 132 miliardi di marchi d'oro. Le conseguenze della miopia dei vincitori emergono presto: una Germania frustrata e indignata diventa il vivaio ideale per la nascita del nazismo. Dopo la Seconda guerra mondiale tutto cambia: il Piano Marshall finanzia la ricostruzione europea e, più tardi, nella conferenza di Londra del '53, i Paesi creditori decidono di cancellare metà del debito tedesco. Ma non esistono solo i debiti di guerra, ci sono anche quelli contratti in tempo di pace. L'Europa degli anni più recenti ha affrontato la questione senza riuscire a dimostrare unità. Il caso del debito greco esplode nel 2009, seguito da una crisi di rapporti greco-tedeschi: la Grecia accusa la Germania di non aver onorato i debiti contratti con la guerra, mentre i tedeschi accusano la Grecia di aver truccato i conti. L'Unione vacilla sotto il peso della crisi. Oggi, per capire le polarizzazioni e i contrasti sulle politiche dell'austerità è fondamentale isolare gli snodi storici che hanno definito i rapporti tra creditori e debitori in Europa. È quello che fa Sergio Romano attraverso gli ultimi centocinquant'anni, sottolineando come la fiducia reciproca tra i popoli abbia svolto una funzione fondamentale per superare i momenti di difficoltà e avviare la ripresa.
Salvare l'Europa significa ben più che vincere una tornata elettorale. Vuol dire preservare un umanesimo, una civiltà, un patrimonio senza i quali il mondo sarebbe molto più povero. Il libro di Enzo Romeo, vaticanista del Tg2, svela il "segreto" che si cela nel cerchio a dodici stelle della bandiera europea, oggi lacerata dai venti del sovranismo populista. Da dove trae ispirazione il vessillo azzurro che sventola sugli edifici pubblici e che è impresso sulle targhe delle nostre automobili? Quanto deve al simbolismo cristiano? È una lunga e affascinante storia che inizia nel cuore di Parigi, passa da Roma e ritorna in Francia, fino a Strasburgo, dove settant'anni fa alcuni grandi visionari - da Churchill a Schuman, da De Gasperi ad Adenauer - piantarono il seme di un'Europa unita.
Un continente dilaniato da due guerre mondiali ha così vissuto la più lunga era di pace della sua storia. Grazie anche a un'invisibile ma potente protezione materna. I discorsi in appendice di alcuni papi e del presidente della Cei, card. Bassetti, stimolano a valutare i benefici del cammino unitario dei popoli d'Europa.
È importante ragionare sul potere per comprenderne la natura, ma soprattutto per conoscerne la distribuzione nella società. Ecco perché questo libro non ha l'obiettivo di elaborare una teoria astratta del potere, ma di illustrarne i diversi aspetti per un uso politico, finalizzato alla realizzazione di riforme di struttura: un utilizzo trasformativo e non conservatore, volto al cambiamento e non alla difesa dell'esistente.
I testi raccolti in questo volume, a firma di tre grandi nomi dell'economia italiana, sono un contributo di valore alla riflessione, sempre attuale, sul riformismo e il socialismo liberale, punto di partenza obbligato per riproporre e sviluppare il pensiero di Paolo Sylos Labini nel campo politico e civile. Si tratta di tre relazioni pronunciate in occasione del primo convegno indetto dall'Associazione Paolo Sylos Labini, fondata nel 2006 a un anno dalla scomparsa del grande economista. Il primo saggio, di Massimo Salvadori, fornisce il quadro di base ripercorrendo la storia del socialismo liberale da Carlo Rosselli fino a Norberto Bobbio e illustrando in questo modo le caratteristiche centrali di questa concezione politica. Il secondo, di Alessandro Roncaglia, ripercorre il pensiero politico di Paolo Sylos Labini, nel collegamento con il suo pensiero economico, il suo rigore etico e la sua passione civile. Il terzo scritto, di Pietro Rossi, affronta un aspetto particolare ma vitale del pensiero socialista e liberale, la laicità, oggetto di tanti attacchi nel nostro Paese e spesso trascurata nella sua importanza dalle stesse forze politiche progressiste.
Alcide De Gasperi fu lo statista politico italiano che, profondamente legato alla fede cattolica, consacrò la sua vita politica all'affermazione della giustizia sociale, all'elevazione morale, culturale ed economica dei lavoratori, alla ricerca di una diffusa solidarietà fra classi sociali. Non è tuttavia possibile comprendere le ragioni profonde che lo spinsero a tale intensa azione senza fare un preciso riferimento alla religiosità e spiritualità che lo contraddistinsero e senza illustrare i grandi avvenimenti politico-economici che in quel periodo sconvolsero tutto il mondo e, in modo particolare, Stati Uniti ed Europa: la "Grande Guerra", le crisi economiche degli anni '20 e '29, il New Deal, il corporativismo, il secondo conflitto mondiale, la fine del fascismo, la ricostruzione italiana e la nascita dell'Unione europea.
L'ambito di ricerca del presente volume si incentra sul binomio democrazia-partecipazione. La resistenza del fascino della democrazia, dopo venticinque secoli da quando se ne coniò il termine, ne conferma uno dei caratteri essenziali: la possibilità di correggere se stessa, di modificare il proprio statuto e adattarlo all'evolvere dei luoghi e dei tempi, in modo coerente alla cultura dei popoli, ai loro principi e ai loro valori. La partecipazione è il denominatore comune che definisce tutti e quattro i cardini di una definizione minima di democrazia: il suffragio universale della popolazione adulta; elezioni libere, ricorrenti, corrette; un sistema plurale di partiti politici; diverse e alternative fonti di informazione. Potenziando le dinamiche partecipative, si presta maggiore attenzione alla dimensione della sussidiarietà, ai mutamenti della struttura sociale e ai suoi valori, ai caratteri specifici dei territori e agli elementi culturali, e favorendo la partecipazione dei cittadini si opera senza dubbio una scelta di intelligenza democratica. In questo quadro, partecipare è anzitutto espressione di una universale e incomprimibile attitudine a coinvolgersi, e concorrere al bene comune chiede azioni sensate e intelligenti, capaci di integrare anche nella decisione politica le modalità specifiche dell'agire umano, valorizzando e sostenendo anzitutto le capacità di tutti i soggetti coinvolti, nella ricerca costante di una democrazia «tuttora in corso di invenzione», scenario di continue sperimentazioni e, per questo, spazio aperto alla speranza di una convivenza autenticamente umana.
Ne "La crisi sociale del nostro tempo" (1942), accanto al nesso tra basi morali e società libera, Wilhelm Röpke evidenzia l'importanza delle istituzioni politiche e il ruolo rilevante dello Stato, all'interno di un'articolazione politica fortemente decentrata e in un contesto europeo di tipo federalista. L'Autore, alla ricerca di un assetto istituzionale di tipo plurarchico, delinea i contorni di «uno Stato che sa tracciare esattamente il limite tra l'agendum e il non agendum», tra ciò che è conforme alla libertà degli individui e ciò che non lo è. Un arbitro robusto, il cui compito non è né di prender parte al gioco né di prescrivere ai giocatori tutte le mosse, ma di garantire, con assoluta imparzialità e incorruttibilità, la più stretta osservanza delle regole del gioco e della correttezza. Un ruolo per lo Stato che sia forte ma non affaccendato.
Al centro della sua riflessione l'autore mette un problema di cultura politica: l'evoluzione del vecchio partito è stata rapida, ma le linee di fondo di una ricerca non sono state ancora chiarite a sufficienza. In una parola: l'identità della sinistra non è diventata più nitida. Il cuore della sinistra resta quell'insieme di partiti e di movimenti che fanno capo storicamente all'eredità della tradizione comunista italiana. Al tempo stesso questa eredità si confronta e si intreccia con le esigenze e le prospettive di una più complessiva "rivoluzione democratica italiana". Di quale natura saranno i processi politici destinati a governare l'Italia oltre la fine del millennio lo decideranno vicende e destino di comprimari di diversa origine.

