
Lucia Annunziata ci restituisce le atmosfere e i protagonisti del 1977 spesso gli stessi protagonisti dell'Italia di oggi immortalati nella loro giovinezza - intrecciando ricordo privato e indagine storico-giornalistica intorno a uno dei passaggi fondamentali della nostra storia recente. Perché nel 1977 l'Italia esplode in migliaia di piccoli e grandi scontri di piazza, drammi privati e collettivi, scaramucce politiche e intellettuali. Scivolando in un caos sempre più cupo e violento, che avvolge il paese in una cappa da cui nessuno riesce a sottrarsi. Mentre la sinistra si frantuma in mondi conflittuali, la persecuzione prende il posto della politica, i padri vengono ripudiati e uccisi. È l'anno in cui inizia a morire la Repubblica nata dalla Resistenza. Lo spartiacque dopo il quale l'Italia non sarebbe più stata la stessa.
Il dubbio sul Potere è forse il più rilevante che gli uomini possano coltivare. Capire i suoi meccanismi significa conoscere quali sono le logiche di selezione e promozione sociale di una nazione, qual è la sua identità. L'imminente fine di un ciclo, in cui coincidono il declino di una forma della politica, di una maggioranza di governo e di un modello economico impone un'indagine su chi comanda davvero oggi in Italia. Questo libro tenta un primo bilancio strutturale della Seconda Repubblica, dominata da Silvio Berlusconi ma non solo. Il risultato è meno scontato di quel che si potrebbe immaginare e conduce a un aggiornamento della mappa dei poteri. Con un testo di Armando Spataro.
Chi muove i fili della politica italiana? Quali scambi si fanno, ogni giorno, nei ministeri? Su quali soluzioni al limite della legge si fonda la ragion di Stato? Un capo di gabinetto svela dall'interno le regole non dette e i segreti inconfessati dei palazzi del potere. "Ogni tanto qualcuno mi chiede che mestiere faccio. Non ho ancora trovato una risposta. La verità è che una risposta non esiste. Io non faccio qualcosa. Io sono qualcosa. Io sono il volto invisibile del potere. Io sono il capo di gabinetto. So, vedo, dispongo, risolvo, accelero e freno, imbroglio e sbroglio. Frequento la penombra. Della politica, delle istituzioni e di tutti i pianeti orbitanti. Industria, finanza, Chiesa. Non esterno su Twitter, non pontifico sui giornali, non battibecco nei talk show. Compaio poche volte e sempre dove non ci sono occhi indiscreti. Non mi conosce nessuno, a parte chi mi riconosce. Dal presidente della Repubblica, che mi riceve riservatamente, all'usciere del ministero, che ogni mattina mi saluta con un deferente 'Buongiorno, signor capo di gabinetto'. Signore. Che nella Roma dei dotto' è il massimo della formalità e dell'ossequio. La misura della distinzione. Noi capi di gabinetto non siamo una classe. Siamo un clero. Una cinquantina di persone che tengono in piedi l'Italia, muovendone i fili dietro le quinte. I politici passano, noi restiamo. Siamo la continuità, lo scheletro sottile e resiliente di uno Stato fragile, flaccido, storpio fin dalla nascita. Chierici di un sapere iniziatico che non è solo dottrina, ma soprattutto prassi. Che non s'insegna alla Bocconi né a Harvard. Che non si codifica nei manuali. Che si trasmette come un flusso osmotico nei nostri santuari: TAR, Consiglio di Stato, Corte dei conti, Avvocatura dello Stato. Da dove andiamo e veniamo, facendo la spola con i ministeri. Perché capi di gabinetto un po' si nasce e un po' si diventa. La legittimazione del nostro potere non sono il sangue, i voti, i ricatti, il servilismo. È l'autorevolezza. Che ci rende detestati, ma anche indispensabili. Noi non siamo rottamabili. Chi ha provato a fare a meno di noi è durato poco. E s'è fatto male. Piccoli, velleitari, patetici leader politici. Credono che la storia cominci con loro".
La strada verso l'integrazione in Europa sembra, in questi anni, sempre meno percorribile e la sensazione è che questo paese, dotato di un'economia in forte crescita e sempre piú importante e attivo sul piano internazionale, si stia allontanando. C'è insomma, il rischio che l'Europa perda la Turchia: ma è solo colpa delle istituzioni e dei governi europei se ciò sta avvenendo? Non ci sono altrettante forze e spinte all'interno della nazione turca che cercano di allontanarsi dall'Occidente? Marco Ansaldo ha voluto, con questo libro, togliere il punto interrogativo alla domanda «Chi ha perso la Turchia?», «l'ipocrita punto di domanda sempre privo di risposte, e tentare un'individuazione del problema e l'incarnazione dei suoi responsabili. Qui si fanno i nomi. Di uno schieramento e dell'altro». Un viaggio nella storia, nella geografia e nella società di un paese cruciale, che forse l'Europa non può permettersi di tenere fuori dalla porta.
Coloro che avevano profetizzato la fine della storia e della geografia con la caduta del Muro di Berlino devono ripensare le loro teorie sulla base di una impressionante accelerazione delle dinamiche politiche, economiche e sociali che ha caratterizzato quest'ultimo ventennio. L'elemento territoriale, che gli analisti del villaggio globale volevano relegato agli atlanti del passato, torna ad affermarsi come discriminante nella competizione tra Stati. Una competizione per l'energia, il commercio, le nuove rotte di un mondo che ha fame di crescita e sete di petrolio. Chi sono gli attori di questa nuova competizione globale? Innanzitutto gli Stati Uniti d'America, ma negli ultimi anni la storia registra il ritorno ad una aggressività geostrategica della Russia, che nell'energia e nella proiezione politica trova due formidabili strumenti di affermazione. La Cina, campione di una crescita economica senza freni e di un dinamismo "geodemografico" senza precedenti, ben presto utilizzerà la capitalizzazione economica per alimentare le proprie ambizioni strategiche sull'Asia Maior, nuova frontiera delle relazioni internazionali. Ma a giocare un ruolo da protagonisti ci sono anche l'India, la più popolosa democrazia del mondo, laboratorio della nuova middle class globale, dell'innovazione tecnologica e dell'alta tecnologia.
Il volume raccoglie i contri­buti apparsi sull’inserto de L’Osservatore Romano dedi­cato all’Europa in vista del­le elezioni di maggio 2019. È stato realizzato con la col­laborazione di Dario Antiseri, professore ordinario emerito di Metodologia delle scienze sociali (Luiss), Enzo Di Nuo­scio, professore ordinario di Filosofia della scienza (Uni­versità del Molise), Flavio Felice, professore ordinario di Storia delle dottrine politi­che (Università del Molise) e Dario Velo, professore ordi­nario di economia (Universi­tà di Pavia). L’Introduzione di Fausta Speranza, curatrice dell’intera serie dello “Speciale Europa” apparsa ogni domenica sul quotidiano, regala un focus sull’obiettivo della rubrica “Europa Ieri Oggi Domani”: «Spalancare il cielo sull’Europa, ritrovare i tesori del passato, affacciarsi da protagonisti sul futuro» (pag. 7) riproponendo alcuni dei principali contributi intellettuali e statisti presenti alla base del progetto comunitario europeo. La postfazione è a firma di Andrea Monda, direttore de L’Osservatore Romano e approfondisce il significato delle riflessioni presenti da cui «emerge con evidenza la radice cristiana dei valori principali – pace e solidarietà – che hanno sostenuto l’impegno di tenere in unità i popoli europei rispettandone le diversità» (pag. 142). Completa il volume una appendice contenente i discorsi dei pontefici Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco indirizzati ai membri del Parlamento Europeo.
Una raccolta di saggi che affrontano il tema delle radici cristiane d'Europa. Cristianesimo ed Europa sono legati da una storia bimillenaria che rappresenta il nostro presente, il nostro passato e il nostro futuro. La fede è alla base dell'identità dell'Europa Cristiana e papa Francesco sin dall'inizio del suo pontificato ha posto il suo sguardo sul concetto di persona e di dignità alla luce delle politiche odierne incentrate sulla "cultura dello scarto".
È più solidale una società dove si divide in parti diseguali la ricchezza in un mondo di collaborazione e di pace, o si è più solidali laddove si divide in maniera comunque diseguale la miseria in un mondo di oppressione e di terrore, dove vige il principio per il quale "chi non ubbidisce non mangia"? Se il mercato è il meccanismo che, esigendo la pace e fondando la libertà politica, genera il maggiore e più diffuso benessere, è allora errato vederlo come uno dei mezzi che, per quanto imperfettamente, contribuisce a realizzare il comando evangelico dell'amore? Per tutto ciò, possono ancora i cattolici pensare al profitto come a un furto? L'autore nel testo propone risposte a queste a altre domande che ossessionano le coscienze di molti cattolici.
«Dovremmo tentare di occuparci di politica - afferma Popper - al di fuori della polarizzazione sinistra-destra». Ma, allora, che fare? «È un fatto, neppure molto strano - fa egli presente -, che non è particolarmente difficile mettersi d'accordo in una discussione sui mali più intollerabili della società e sulle riforme sociali più urgenti. Un tale accordo si può raggiungere molto più facilmente che non su particolari forme ideali di vita sociale. Quei mali, infatti, ci stanno di fronte qui ed ora. Si può averne esperienza, e li esperimentano ogni giorno molte persone immiserite e umiliate dalla povertà, dalla disoccupazione, dalle persecuzioni, dalla guerra e dalle malattie [...]. Possiamo imparare dando ascolto alle esigenze concrete, cercando pazientemente di valutarle nel modo più imparziale e considerando i modi per soddisfarle senza creare mali peggiori». Di conseguenza: «Non mirare a realizzare la felicità con mezzi politici. Tendi piuttosto ad eliminare le miserie concrete. O, in termini più pratici, lotta per l'eliminazione della povertà con mezzi diretti, assicurando che ciascuno abbia un reddito minimo. Oppure lotta contro le epidemie e le malattie erigendo ospedali e scuole di medicina. Combatti l'ignoranza al pari della criminalità [...]. Non permettere che i sogni di un mondo perfetto ti distolgano dalle rivendicazioni degli uomini che soffrono qui ed ora». Introdurre "ragione" e "ragionevolezza" nella teoria e nella pratica della politica: in questo è consistito l'impegno di Popper - impegno raramente compreso, e da più parti, come anche dimostra la recezione del suo pensiero in Italia: tra marxisti ostili, crociani diffidenti e cattolici indifferenti.
John Stuart Mill: «Le obiezioni che vengono giustamente mosse all’educazione di Stato, non si applicano alla proposta che lo Stato renda obbligatoria l’istruzione, ma che si prenda carico di dirigerla; che è una questione del tutto diversa».
Antonio Rosmini: «I padri di famiglia hanno dalla natura e non dalla legge civile il diritto di scegliere per maestri ed educatori della loro prole quelle persone, nelle quali ripongono un maggior confidenza».
Gaetano Salvemini: «Io non credo che la scuola pubblica avrebbe molto da guadagnare dalla scomparsa della scuola privata. Questa può essere un utile campo di esperimenti pedagogici, rappresentare sempre un pungiglione ai fianchi della scuola pubblica, e obbligarla a perfezionarsi, senza tregua, se non vuole essere vinta e sopraffatta».
Antonio Gramsci: «Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dal controllo dello Stato».
Don Luigi Sturzo: «Si parla tanto di libertà e di difesa della libertà; ma si è addirittura soffocati dallo spirito vincolistico di ogni attività associata dove mette mano lo Stato; dalla economia che precipita nel dirigi¬smo, alla politica che marcia verso la partitocrazia, alla scuola che è monopolizzata dallo Stato e di conseguenza burocratizzata».
Luigi Einaudi: «Senza concorrenza fra istituti statali e istituti privati, non v’ha sicurezza che l’insegnamento sia l’ottimo […]. Il monopolio statale dell’istruzione, con danno palese per la cosa pubblica, non dissimile dal danno recato da ogni altra specie di monopolio».
Don Lorenzo Milani: «Né preti né laici potranno mai fare nulla di perfettamente puro e sarà dunque meglio lasciare che si perfezionino quanto possono gli uni e gli altri possibilmente senza difficoltà economiche in libera e realmente pari concorrenza».
Un confronto sul destino del cristianesimo, sui rapporti tra religione e libertà, tra morale e scienza, tra diritti e doveri. In gioco è cosa si intende per liberalismo, se la democrazia liberale abbia un fondamento relativistico e pluralistico (Antiseri) o presupponga un'etica comune con valori assoluti della tradizione cristiana (Pera). Questioni che nella contemporaneità segnata dalla secolarizzazione, con la religione relegata per lo più a fenomeno privato ed estraneo al dibattito pubblico e soccombente al dominio della scienza, assumono particolare importanza. Il vecchio continente sta affrontando un complesso processo di integrazione economica e normativa, ma sembra dimenticare le sue radici cristiane, fondamentali - lo ricorda Agostino nella Città di Dio - per costruire le basi stesse di una convivenza sociale. Ma può esistere un'Europa senza cristianesimo?
L'epoca in cui viviamo si definisce post-ideologica. È il tempo della post-politica e della post-verità. Ovvero (cambiando l'ordine degli addendi, la somma non cambia) politica e verità da post. Parole e slogan virali che fanno il giro della rete propagandando spesso opinioni su fatti mai esistiti. Quello a cui ci si riferisce con questa sfilza di post è, in realtà, un pensiero prepolitico. E la lingua che lo veicola, più che una neolingua, è una veterolingua che invece di mirare al progresso vorrebbe farci regredire, riportandoci agli istinti e alle pulsioni primarie. Indietro, o popolo! Dal «Votami perché parlo meglio (e dunque ne so più) di te» si è passati al «Votami perché parlo (male) come te». Come la pubblicità, come la televisione, anche la politica alimenta il narcisismo dei destinatari, i quali - lusingati - preferiscono riflettersi che riflettere. Il meccanismo del ricalco espressivo innesca una continua corsa al ribasso. Un circolo vizioso che toglie al discorso politico qualunque forza propulsiva, qualunque dinamismo. Non una risposta ai bisogni degli italiani, ma pura ecolalia: ripetizione ridondante. Così le parole stanno paralizzando la politica.