
Quasi duemila e cinquecento anni fa, Aristotele avviò la discussione sui diversi aspetti dell'organizzazione della polis definendo l'essere umano come "animale politico", l'unico vivente capace di dar forma a comunità politiche. Da allora, pensatori antichi, moderni e contemporanei si sono susseguiti nel dare una propria definizione di che cosa è la politica, ognuna delle quali derivata dalle vicende particolari e dalle idee che a questo termine risultano associate nei diversi momenti storici: dalla polis all'Impero, dallo Stato alla sua crisi nella globalizzazione, fino alla nascita delle Relazioni Internazionali. Attraversando più di due millenni di riflessioni si giunge a riconoscere come l'espressione aristotelica conservi ancora il suo valore e ci induca a individuare nella politica non soltanto un "mezzo" o un tipo particolare di potere con leggi perenni, bensì soprattutto la forma specifica delle relazioni sociali con cui gli esseri umani organizzano e sperimentano la vita associata, oscillando fra l'obbedienza all'autorità costituita e la ricerca di spazi di libertà.
«Perché tornare?» È la domanda che Enrico Letta si è sentito fare tante volte dai giovani italiani che studiano in Europa e che si è fatto anche lui, prima di riprendere la strada di casa per tornare alla politica attiva. La risposta è che ciascuno di noi ha il dovere di impegnarsi e ribellarsi, per riscrivere il futuro dell'Italia. Lo spiega in queste pagine appassionate e lucide, intense e ricche di storie, che intrecciano un percorso personale e le prospettive di un Paese da risollevare. Attraverso le ragioni civili e quelle del cuore, l'anima e il cacciavite, che vanno usati insieme per vincere le paure del XXI secolo e combattere ingiustizie, nazionalismi, populismo. L'anima - con l'appello all'«essere liberi», liberi fino in fondo - richiama all'ispirazione degli ideali, ai valori non negoziabili che vanno anteposti, sempre, agli interessi del momento e al timore di perdere consenso. Il cacciavite riporta alla concretezza e alla competenza necessarie per guarire una democrazia malata e attrezzarsi a una storica azione di ricostruzione dell'Italia, fondata sulla dignità del lavoro, sulla lotta alle vecchie e nuove disuguaglianze, sulla promozione di un'idea di progresso e benessere all'altezza delle sfide di questo tormentato passaggio d'epoca. Con la pandemia abbiamo sofferto tutti, ci stiamo rialzando, siamo cambiati. Deve cambiare anche la politica. Occorre passare dal partito del potere a quello dell'intelligenza collettiva, per aprirsi finalmente alla società accogliendo i tanti che credono nelle ragioni dell'impegno, ma che per anni hanno trovato le porte chiuse. Una comunità che scommette sull'istruzione, sui giovani, sulle donne. Che rilancia una norma di civiltà come lo ius soli. Che combatte con forza per l'ambiente e la sostenibilità. Che riafferma l'importanza di essere e sentirsi europei e, dunque, parte di un progetto più grande e ambizioso.
Giulio Andreotti nei primi anni Sessanta era stato avversario della formula di centrosinistra ed all'inizio dei Settanta era contrario ad ogni apertura al PCI. Ma a metà del decennio, per volontà di Aldo Moro, fu chiamato a guidare i governi che si avvalsero dell'astensione e poi del sostegno esterno del PCI. Fu scelto, in uno dei momenti più difficili della storia della Repubblica, come garante della «solidarietà nazionale» nei confronti degli alleati occidentali e verso il fronte interno più problematico, quello della Chiesa cattolica. Ed è su questo tema che, in prevalenza, le pagine di questo volume fermano la loro attenzione. L'interlocuzione a vari livelli con il mondo cattolico permette di comprendere meglio quale sia stato lo sforzo di Andreotti per garantire all'esperimento uno spazio di evoluzione che si giovasse del riserbo della Chiesa e permettesse di contrastare gli avversari della collaborazione con i comunisti. Illumina, inoltre, l'atteggiamento dell'uomo politico nei confronti del PCI nel periodo della «solidarietà». Andreotti sostenne la validità di quella politica anche davanti alla Santa Sede, convinto che, dato il quadro parlamentare e la forza elettorale del PCI, la collaborazione dovesse assumere un carattere strategico per far fronte al risanamento economico-finanziario e rispondere alla minaccia terroristica che contava su una consistente area di fiancheggiamento e di consenso.
Costituente, deputato, ministro, sette volte presidente del Consiglio, senatore a vita, Giulio Andreotti (1919-2013) ha attraversato tutta la storia dell'Italia repubblicana, nonostante accuse, scandali, processi. La sua straordinaria longevità politica ne ha fatto il simbolo non solo della Democrazia cristiana ma della stessa «Repubblica dei partiti» che ha retto per un cinquantennio il nostro Paese. Questo volume, partendo dalle carte del suo archivio personale, prova a storicizzarne la figura, ricostruendone la formazione nella Fuci con le iniziali simpatie «radicali», il rapporto con Alcide De Gasperi dalla Resistenza alla presidenza del Consiglio, l'adesione alla Dc e la lotta tra le sue correnti, l'azione da ministro (alle Finanze, alla Difesa, all'Industria), le relazioni con il Vaticano e le amministrazioni americane, sino alla contestazione del '68. Sostenitore di una Dc unita e perno del sistema politico, garante della collocazione occidentale ed europeista dell'Italia, Andreotti ha saputo ancorare l'opinione pubblica moderata al suo partito, sancendo, anche durante la «strategia della tensione», la sua imprescindibilità come rappresentante di una parte importante del Paese.
In un tempo in cui ci si accontenta sempre più del minimo e si cerca il facile, gli scritti di Paolo VI e di Andreotti suggeriscono un diverso stile, "il primato della qualità", come meta ideale le cose difficili. Non sono gli atti clamorosi, gli eroismi spettacolari a fare grande un uomo, ma l'umile e costante impegno nella vita di tutti i giorni.
Ad appena ventotto anni, Giulio Andreotti si trovò a gestire una serie di problemi delicati, con evidenti ricadute sia sul piano interno che internazionale. Nel 1947 era stato infatti nominato sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio e, fra le varie competenze affidategli da Alcide De Gasperi, vi era la responsabilità politica dell'Ufficio per le zone di confine, un organo istituzionale sorto per coordinare l'attività del governo nelle complesse situazioni di frontiera. L'Ufficio era alimentato da ingenti fondi riservati, che Andreotti decideva di volta in volta come utilizzare. Le carte inedite dell'Archivio Andreotti, e di altri archivi consultati per questa indagine, rivelano un giovane all'inizio della carriera, già dotato delle qualità che contribuiranno a renderlo uno fra i politici più rappresentativi della storia italiana del dopoguerra. Nell'affrontare, le principali sfide poste dal suo compito - la propaganda in difesa dell'italianità, la tutela delle minoranze linguistiche, l'attuazione dell'autonomia speciale), i rapporti spesso difficili con la classe dirigente locale - Andreotti si dimostra già uomo di Stato e di governo più che di partito, di grande pragmatismo e con rapporti privilegiati con il mondo ecclesiastico.
"Se vuoi correre veloce vai da solo, se vuoi andare lontano devi farlo insieme" recita un adagio africano. È a partire da questa suggestione essenziale, eppure così adatta a descrivere l'orizzonte che l'Italia e l'Europa hanno dinanzi a sé, che Enrico Letta torna a raccontarsi dopo oltre un anno di silenzio. Non una memoria dei suoi dieci mesi da presidente del Consiglio, né un espediente per cercare immediate rivincite personali. Ma una riflessione proiettata al futuro, che, anche passando attraverso quell'esperienza, si sofferma su un'idea di comunità molto distante, per contenuti e stile, dall'attuale conformismo. Per Letta non esiste un solo momento positivo della nostra storia unitaria che non sia stato figlio di un progetto condiviso. E oggi più che mai l'Italia, per sfruttare al meglio le condizioni esterne positive createsi nel 2015, grazie in particolare all'azione svolta dalla Banca centrale europea di Mario Draghi, deve coinvolgere le migliori energie di cui dispone in un grande sforzo collettivo. Per favorire una ripresa attesa ormai da troppo tempo e, soprattutto, per alleviare le ferite ancora aperte della crisi e aggredire il più grave dei mali della società italiana: la mancanza di lavoro, specie per i giovani. Nessuno può riuscire ad affrontare impegni di questa portata da solo e quello che il Paese deve concedersi è la chance di dimostrare al mondo di essere "nazione" e "comunità", la capacità di unire virtù democratica e consenso.
Da oltre centocinquant'anni, gli anarchici si battono per ottenere libertà ed eguaglianza senza la mediazione di capi, politici e burocrati, iscrivendosi in una tradizione di pensiero, il socialismo libertario, che affonda le sue radici nell'Illuminismo. Da sempre, Noam Chomsky vi attinge per denunciare le manipolazioni mediatiche, gli orrori dell'imperialismo, lo sfruttamento e l'oppressione in tutte le sue forme. Questo libro, che abbraccia quarant'anni di impegno civile del più importante linguista della nostra epoca, smentisce il pregiudizio di chi associa l'anarchia al caos e alla distruzione all'incapacità di cogliere processi che caratterizzano il mondo contemporaneo. Al contrario, gli anarchici sono stati spesso protagonisti di eroici tentativi di sviluppare al massimo grado le potenzialità della civiltà industriale e della cooperazione fra gli uomini, testimoniando che cosa sono in grado di realizzare i lavoratori quando si organizzano per gestire i propri affari senza alcuna forma di coercizione e controllo. Una lettura fondamentale per i nostri giorni: nella speranza che presto non vi sia "più legittimazione per i commissari politici, i vertici aziendali e culturali, o per chiunque rivendichi il diritto di manipolarci e controllarci, in genere con argomenti pretestuosi".
Le sempre più frequenti criticità della politica internazionale contemporanea sono dovute in parte al superamento dei modelli politici tradizionali sovranità, legittimità, ingerenza - e in parte al declino dei principi di ordine politico che avevano dominato il Novecento. Grandi discontinuità come la fine del bipolarismo e l'attacco alle Torri gemelle dell'11 settembre 2001 ci hanno offerto l'occasione - che purtroppo la politica non ha saputo cogliere - per riflettere sulle trasformazioni in corso nel mondo, che superano le tradizionali logiche diplomatiche e che vertono piuttosto sull'individuazione del futuro prossimo della Terra. Nel libro si argomenta che l'anarchia che si sta sviluppando nel mondo potrà essere contrastata soltanto se in esso aumenterà la quantità di democrazia.
È probabile che sappiate qualcosa sugli anarchici e su quello che, si suppone, essi credano. Eppure quasi tutto ciò che avete sentito al riguardo è falso. Molti, per esempio, sembrano pensare che gli anarchici siano sostenitori della violenza, del caos e della distruzione contro ogni forma di ordine e di organizzazione. In realtà, niente potrebbe essere più lontano dal vero. L'anarchia non è caratterizzata dall'assenza di ordine e di morale, ma si basa sulla capacità di trovare l'ordine e la morale secondo i propri principi intellettuali che, se ben coltivati, conducono anche a una dimensione intersoggettiva di giustizia. A partire almeno dal G8 di Genova, abbiamo smarrito ogni potenziale sovversivo del pensiero, sostiene l'autore: "Gli ultimi anni hanno rivelato tutti i limiti dei sistemi di governance attuali, ma anche delle strutture intellettuali e filosofiche che dovevano farne da apparato critico". Non è vero però che non c'è più niente da fare: l'anarchia filosofica e le sue applicazioni alla vita concreta sono un'arma potentissima per difendersi da un modo sempre più atroce di interpretare la vita umana.
Il famoso linguista americano spiega il significato storico dell'anarchia e il cammino del movimento anarchico dalle origini ad oggi, soffermandosi sull'esperienza degli anarchici nella guerra civile spagnola e sulla critica anarchica allo statalismo di tipo sovietico. Il filo conduttore è il primato assoluto della libertà nella concezione anarchica e il suo valore irrinunciabile e incomprimibile. "Per questo", dice l'autore, "io mi sento e mi dichiaro anarchico."