
Come si impara a essere cittadini, in Italia? Sono fondamentali la famiglia, la scuola; ma da millenni qualcos'altro ci educa a essere quello che siamo, ci lega al nostro passato e ci permette di costruire il nostro futuro: questa cosa si chiama "patrimonio culturale", ed è l'altra lingua degli italiani. Ne fanno parte il paesaggio, le opere d'arte, le biblioteche, gli archivi, i siti archeologici... Chi lo ritiene "il petrolio d'Italia", un magazzino di oggetti da affittare al magnate di turno o da svendere nell'ennesima mostra-evento, è un nostro nemico: ci sta togliendo un bene primario come l'aria, ci sta privando di un diritto fondamentale, come la salute o l'istruzione. Per questo, dopo aver denunciato i disastri della politica culturale italiana nelle "Pietre e il popolo", Tomaso Montanari scrive un libro sull'Italia possibile, su un progetto di comunità basato sulla cultura, su ciò che potrà essere la Repubblica italiana quando sapremo render finalmente concreto l'attualissimo disegno della Costituzione. "Istruzioni per l'uso del futuro" è un piccolo alfabeto civile: ventuno idee che ci mostrano come per trasformare un paese non bastano le nostalgie o le indignazioni ma servono responsabilità e conoscenza.
Lo studio si occupa della letteratura politica per il popolo chiarendone innanzitutto il profilo dal punto di vista della comunicazione sociale; poi ne descrive la tipologia, dagli avvisi alle lezioni alle massime, soffermandosi sui catechismi. Infine analizza i temi fondamentali presenti in questa letteratura.
Questo volume si rivolge non solo agli studenti universitari delle Facoltà di Economia, Scienze politiche, Giurisprudenza ma anche a tutti coloro che desiderano conoscere il funzionamento delle "Istituzioni economiche internazionali", i problemi da queste affrontati e le riforme poste in essere o proposte per renderle quanto più possibile in grado di affrontare le sfide dalla globalizzazione. Il processo di integrazione dell'economia e della finanza internazionale di questi anni e la crisi globale con cui ci stiamo confrontando hanno inciso fortemente sulla realtà nella quale queste organizzazioni si trovano ad operare rendendola notevolmente diversa da quella specifica del momento della loro istituzione. Ci si chiede, perciò, all'interno e all'esterno delle stesse istituzioni se esse possano considerarsi in grado di rispondere alla attuale domanda di beni pubblici globali (come la stabilità finanziaria internazionale) che proviene dalla collettività o se, a questo fine, esse debbano procedere ulteriormente nel processo di adeguamento della loro struttura e della loro governance.
Costituzionalisti e politologi si interrogano sulle vicende degli ultimi venti anni di vita politico-istituzionale italiana, con le sue aspettative in gran parte frustrate e i suoi miti spesso sfociati in esiti diversi da quelli auspicati, e sulle riforme necessarie. La Costituzione deve essere oggetto di una "manutenzione" che ne faccia salvo l'impianto di fondo o va radicalmente modificata? E la forma di governo più adeguata è quella parlamentare con le opportune razionalizzazioni o quella incentrata su un capo del potere esecutivo eletto direttamente dal popolo? In questo quadro il ruolo del Presidente della Repubblica è sfociato in un presidenzialismo di fatto o in una sovraesposizione politica che non ha travolto il modello costituzionale? Il sistema elettorale attualmente in discussione è innovativo o ripercorre strade discutibili volte a produrre maggioranze certe ma artificiali? Il populismo, che ha caratterizzato la realtà europea, è deperito in Italia con la crisi della cosiddetta "Seconda Repubblica" o ha trovato nuova linfa e nuovi interpreti, anche grazie alla trasformazione dei partiti in partiti personali al servizio di un leader? E quale può essere la via di uscita da questa situazione? Un assetto di tipo personalistico e decisionista o la ricostruzione di una politica rappresentativa delle esigenze sociali e fondata su nuove forme di partecipazione popolare?
Mai come oggi, nella crisi che ha colpito il mondo intero, le istituzioni nazionali e internazionali risultano necessarie a fronteggiare l'emergenza sanitaria, economica, sociale e politica. Eppure esse ci sono apparse più volte inadeguate, se non addirittura responsabili di quanto è accaduto. Perché? Una diffidenza che non nasce ora, ma è l'esito ultimo di un'interpretazione repressiva delle istituzioni, che ha trovato il suo culmine nella loro contrapposizione ai movimenti. Contro di essa una lettura nettamente diversa, originale e provocatoria, che valorizza il processo istituente come prassi innovativa, e che ci costringe a ripensare radicalmente la relazione costitutiva dell'istituzione con la politica e la vita.
Dalla sua nascita, nel 1948, lo Stato d'Israele è costantemente al centro dei conflitti nel Medio Oriente e della politica internazionale. Il confronto con la comunità palestinese, che continua a insanguinare questa terra, spinge moltissimi a schierarsi pro o contro, senza provare a comprendere le effettive ragioni di quanto sta avvenendo. Partiamo allora da alcuni passaggi nodali, nella demografia, nell'economia e nella geografia, per conoscere meglio la storia di un paese estremamente complesso, vivace e differenziato, attraverso le sue tante trasformazioni. Così facendo, questo libro identifica gli elementi più importanti dei cambiamenti d'Israele e fornisce al lettore le chiavi fondamentali per interpretarne le recenti evoluzioni.
Il conflitto israelo-palestinese, che infiamma il Medio Oriente dal 1948, riesplode periodicamente e si conferma come una delle principali cause di instabilità della regione. Dalla nascita dello stato di Israele lo scontro tra sionismo ebraico e nazionalismo arabo ha creato fratture ideologiche divenute via via sempre più profonde a causa di diversità culturali, ostilità religiose, disuguaglianze economiche. Come conciliare la ricerca degli ebrei di una patria sicura dopo secoli di persecuzioni culminate nell'orrore della Shoah con la rivendicazione di uno stato autonomo da parte del popolo palestinese? Tim Marshall, esperto di geopolitica internazionale, analizza le barriere non solo fisiche che ostacolano il dialogo fra i due popoli e mette in luce le radicali divisioni al loro interno che rendono al momento difficile, forse impossibile, una soluzione pacifica e duratura del conflitto.
«La guerra in corso tra Israele e Hamas va inquadrata in una cornice più vasta: dal Trattato di Sykes-Picot del 1916 alla nascita dello Stato di Israele nel 1948, alla guerra arabo-israeliana che ne è derivata e, soprattutto, alle prime espulsioni di chi abitava in quel momento il territorio conteso. Questi eventi hanno portato alla nascita della "questione palestinese"». Così Giovanni Sale nella prefazione a questo volume, che fornisce un'attendibile ricostruzione del contesto in cui vanno situati i drammatici fatti seguiti all'attacco da parte di Hamas del 7 ottobre 2023, e alla sproporzione della reazione militare posta in essere da Israele, con l'uccisione di oltre 35mila palestinesi, il ferimento di più di 79mila persone e la crisi umanitaria che ne è derivata. Solo comprendendo la storia nella quale questi eventi si situano, infatti, è possibile riflettere sulle soluzioni possibili e proporre ipotesi che vadano oltre i nazionalismi, unica strada per arrivare «a una risoluzione della crisi, in linea con le direttive della comunità internazionale, al fine di portare la pace in uno dei territori più importanti, dal punto di vista culturale, religioso e strategico, del pianeta».
In principio fu la Diaspora degli ebrei, cacciati dalla loro terra dai romani dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. E dispersi nel mondo per 17 secoli. Poi una serie infinita di dominazioni e di persecuzioni, fino alla fine dell'Ottocento e ai primi del Novecento, quando il Sionismo teorizza e organizza il ritorno a casa. Il resto lo fa la Shoah, lo sterminio di 6 milioni di ebrei per mano del nazismo. Nel 1947 l'Onu spartisce la Palestina transgiordana (più piccola del Piemonte sommato alla Valle d'Aosta) in due Stati: uno ebraico e uno arabo-palestinese. Ma nasce solo il primo. Le classi dirigenti arabe si giocano i palestinesi, vittime dei "fratelli" oltreché dei nemici israeliani, alla roulette russa delle guerre (quattro) e del terrorismo. E perdono sia le guerre sia i territori. Israele restituisce quelli occupati all'unico Paese arabo che nel 1978 accetta di riconoscerlo e fare la pace: l'Egitto. Poi nel 1993 lo fa anche l'Olp di Arafat col premier israeliano Rabin e si riaccende la speranza, subito frustrata dall'assassinio di Rabin da parte di un ebreo fanatico. Fra alti e bassi, violenze e attentati, massacri incrociati, torti e ragioni intrecciati, si arriva al ritiro israeliano da Gaza a opera del falco Sharon. Che però un ictus mette subito fuori gioco, inaugurando la lunga e buia era Netanyahu. Questi sabota il processo di pace con sempre nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania, appoggia addirittura Hamas per indebolire il moderato Abu Mazen e fa passare definitivamente Israele dalla parte del torto. In questo libro alla portata di tutti, che si legge d'un fiato come un romanzo, Marco Travaglio racconta con sintesi e chiarezza, lontano dalle opposte tifoseria da curva sud, la Guerra dei Cent'Anni israelo-palestinese. E risponde a tutte le domande e a tutti i dubbi suscitati dagli ultimi bagni di sangue.
Il capo dei capi della mafia Bernardo Provenzano viene catturato nell'aprile del 2006 in un casolare di campagna intorno a Corleone. A chi gli dà la caccia da più di 40 anni si presenta come un vecchio contadino tra ricotte, cicoria, mele, pesche e una macchina per scrivere che gli serviva per impartire ordini ai suoi uomini. Alle sue spalle, però, ha un impero finanziario. Lo chiamano "Binnu", "u' tratturi" o "il ragioniere" (anche se non è mai andato oltre la seconda elementare), perché ha un grande senso del business. Ma se è riuscito a trasformare la mafia militare in mafia degli affari, c'è chi lo ha aiutato a farlo.
Le cosiddette primavere arabe, con il loro sostanziale fallimento, hanno suscitato nel mondo occidentale una delusione che ha portato molti a concludere che il rapporto tra islam e democrazia sia impossibile. Questo libro affronta finalmente il problema nella prospettiva corretta, mettendo in luce i meccanismi attraverso i quali culture e storie politiche diverse finiscono per fraintendersi. La prima cosa da capire - ci dice Riccardo Redaelli, che da anni si occupa di geopolitica e storia del Medio Oriente - è che la religione islamica non è una realtà monolitica, bensì storicamente diversificata secondo le etnie, le culture e le regioni di quel mondo. Il secondo punto è che i concetti di democrazia e di Stato nazionale, affermatisi nei nostri sistemi occidentali e basati sul concetto di libertà individuale, risultano difficilmente applicabili nelle società islamiche perché estranei alle loro tradizioni. È invece la rivelazione coranica il fondamento dei loro sistemi politici e statuali, pur se in declinazioni molto diverse. Ma le esperienze di (teo)democrazia islamica sono state finora deludenti, come mostra qui Redaelli analizzando le più significative, e spesso hanno addirittura finito per dividere e polarizzare quelle società. A complicare la situazione, le visioni radicali e militanti hanno rinverdito il mito del califfato islamico da riportare in vita sulle ceneri degli Stati nazionali moderni.
Che cosa sta succedendo nel mondo arabo, e per quale ragione? Che origini ha la minaccia fondamentalista, e in che misura essa rappresenta la fede islamica? Dalla rivelazione coranica all’impero Ottomano, dal colonialismo alle rivoluzioni arabe e al terrore, una guida alla scoperta dell’Islam e delle sue istituzioni politiche.
Negli ultimi anni l’Islam, spesso con le minacciose sembianze del terrorismo fondamentalista, è tornato a bussare alla porta di ciascuno di noi. La terribile cesura dell’11 settembre 2001 sembra averci svelato i sentimenti ostili, figli di ferite mai sanate, che parte del mondo islamico nutre oggi nei confronti dell’Occidente. I risultati nefasti delle guerre in Afghanistan (2001) e Iraq (2003) hanno contribuito ad allargare il fossato tra chi ancora crede nel modello democratico occidentale e chi lo ritiene causa dell’attuale crisi. E se le rivoluzioni arabe sembrano aver condotto in più casi all’aggravarsi delle situazioni, l’avanzata dello Stato Islamico e la sua propaganda terrorizzano l’Occidente, oscurando agli occhi di molti la varietà di forme di opposizione all’autoproclamatosi “califfo” al-Baghdadi. Scopo di questo libro è ripercorrere dalle origini la storia dell’Islam, interrogandone i testi storici ed esaminandone le istituzioni classiche, cercando di capire quali riferimenti siano ancora validi oggi, cosa è stato frainteso o distorto, e cosa ha portato alla situazione attuale. Scopo di questo saggio è anche sollecitare una questione: come è possibile che la stessa fede musulmana sia capace di animare tanto il coraggio indomito della Nobel Malala Yousafazi che la ferocia di Osama Bin Laden e dei suoi accoliti? La storia dell’umanità è piena di violenza, e non solo tra i fedeli dell’Islam. Lo scopo della fede, ha detto Daisaku Ikeda, è rendere felici gli esseri umani: questo piccolo libro è dunque un tentativo di conoscere meglio una realtà complessa e articolata e di fugare gli equivoci, per aiutare noi stessi e gli altri a costruire una migliore comprensione reciproca evitando i facili e spesso comodi radicalismi.

