
Quella di Giovanni Morone è una storia paradossale. Legato papale sia nella prima fallita convocazione del concilio di Trento negli anni 1542-43 sia nell'ultima del 1562-63, quando il maggior storico moderno di quel sinodo, Hubert Jedin, gli attribuí il merito di averlo salvato dal fallimento cui sembrava ormai essere destinato. Tra quelle due convocazioni, tuttavia, egli fu oggetto di gravi accuse di eresia, sfociate nel processo inquisitoriale preparato per anni in segreto da Gian Pietro Carafa e formalizzato nel giugno del '55, all'indomani della sua elezione papale. Un processo reso pubblico due anni dopo con il clamoroso arresto di «cosí gran cardinale, [] in voce certa di esser papa», come ebbe a dire Enrico II di Francia. Solo la morte del pontefice inquisitore consentí al Morone di sfuggire alla condanna. E solo l'appoggio del re di Spagna Filippo II gli permise di uscire da Castel Sant'Angelo dopo 27 mesi di prigionia e di partecipare al conclave di Pio IV, suo amico e concittadino, che poche settimane dopo, ai primi di marzo del 1560, ne pronunciò l'assoluzione. Il paradosso di quel porporato illustre, il cui profilo storico e storiografico trascolora di volta in volta nell'immagine dell'eretico o del «baluardo della fede cattolica», sarebbe durato anche negli anni seguenti, come dimostra la ripresa del processo preparata (anche se mai attuata) da un altro papa inquisitore quale Pio V. Questo libro ricostruisce finalmente un profilo chiaro e coerente di una figura storica di straordinario spessore.
Dalla polemica contro le credenze, le pratiche devozionali e i culti superstiziosi al rifiuto radicale di ogni iconografia religiosa, fino ai fenomeni di iconoclastia che ne scaturirono anche al di qua delle Alpi. Dall'uso di immagini come strumenti di lotta antipapale, propaganda e proselitismo ai casi di pittori processati dall'Inquisizione. Sono molti i temi presi in considerazione in questo libro. Ma l'attenzione è soprattutto puntata su opere e artisti variamente segnati da matrici e sensibilità difformi dall'ortodossia cattolica, di volta in volta inseriti negli specifici contesti politici e religiosi di città come Napoli, Firenze, Roma, Venezia, Ferrara, Mantova, durante i decisivi decenni tra il sacco di Roma del 1527 e la conclusione del concilio di Trento nel 1563. Ne emerge una trama di immagini capaci di sottrarsi ai vincoli della tradizione iconografica, della committenza, della sorveglianza inquisitoriale per esprimere orientamenti dottrinali, inquietudini religiose, speranze di rinnovamento, appartenenze identitarie non più compatibili con l'ortodossia cattolica. A esserne coinvolti furono pittori e scultori minori e minimi, così come grandi maestri del tardo Rinascimento, da Lorenzo Lotto a Iacopo Pontormo, da Sebastiano del Piombo a Baccio Bandinelli, fino ai sommi Michelangelo e Tiziano. Il che contribuisce a spiegare perché la questione del controllo delle immagini diventasse cruciale per i padri tridentini e la Chiesa della Controriforma.
Questo libro affronta per la prima volta la storia complessiva del "Beneficio di Cristo", unanimemente considerato il testo capitale della Riforma italiana, menzionato in moltissimi processi per eresia dal Veneto alla Sicilia e oggetto di una caccia spietata da parte del Sant'Ufficio romano, al punto che solo a metà Ottocento si scoprì l'unica copia superstite della prima edizione. Oltre a coglierne le molteplici assonanze con numerosi filoni eterodossi della cultura europea del primo Cinquecento, la ricerca contestualizza la redazione e ricezione del testo in un ampio quadro politico europeo, tra speranze di riforma della Chiesa, illusioni di pacificazione religiosa e di accordo con i protestanti, continui conflitti tra papa Paolo III Farnese e l'imperatore Carlo V. Lo studio di Firpo e Alonge affronta, sulla base di una documentazione nuova, il controverso problema di chi fu l'autore di quelle pagine e ne colloca la redazione sul crinale di eventi decisivi della storia religiosa e politica degli anni che fecero da sfondo alle prime convocazioni del concilio di Trento. Ne emergono i caratteri peculiari dell'eresia italiana, la sua originalità e le sue contraddizioni, nonché gli aspri conflitti che divisero i vertici della Chiesa su come affrontare la drammatica crisi scaturita dalla protesta di Lutero e sulle sue diramazioni anche al di qua delle Alpi.
Nell'Italia del Cinquecento, divisa tra lo splendore delle corti e delle arti e la tragedia delle guerre e delle pestilenze, nuove dottrine religiose diffondono gli umori inquietanti del dubbio e della ribellione, insieme con le speranze di un profondo rinnovamento. Il fervore del dissenso e della libera critica percorre strati sociali d'ogni condizione, tocca il vertice e la base ecclesiale della cattolicità, investendo tanto le dottrine teologiche quanto le pratiche religiose quotidiane.
I primi anni Cinquanta del Cinquecento vedono uno scontro durissimo tra il Sant'Ufficio e papa Giulio III, sempre più in conflitto con gli inquisitori che di fatto non riconoscono la sua autorità, ma troppo debole e screditato per proporre una linea alternativa. La battaglia si apre con il lungo e drammatico conclave del 1549-50, quando Gian Pietro Carafa (il futuro Paolo IV) non esita a formulare esplicite accuse di eresia contro alcuni dei più autorevoli esponenti del sacro collegio. Forte del suo ruolo istituzionale di supremo difensore della fede, il Sant'Ufficio riesce a imporre il primato dell'ortodossia teologica su ogni altra considerazione di natura politica e pastorale, ergendosi cosi al rango di supremo tutore e garante della Chiesa e del suo magistero. A dispetto degli ordini del pontefice, l'Inquisizione continua ad accumulare prove e documenti processuali per eliminare i propri avversari anche avvalendosi delle denunce di persone screditate o di documenti falsi. Massimo Firpo tratteggia un quadro inatteso delle origini della Controriforma, colte negli aspri conflitti ai vertici della Chiesa di Roma, con esiti destinati a lasciare un segno profondo e duraturo sulla sua identità storica, teologica e pastorale.
Nel corso del XVI secolo le dottrine scaturite dalla protesta di Lutero si diffusero largamente anche in Italia, assumendo connotazioni peculiari e intrecciandosi con altri movimenti religiosi e specifiche eredità culturali. Massimo Firpo ne ricostruisce le origini e la storia mettendo in luce il ruolo decisivo esercitato dall'esule spagnolo Juan de Valdés negli anni che fecero da sfondo al concilio di Trento. Irriducibile alla Riforma protestante, il suo magistero spiritualistico seppe infatti orientare inquietudini e istanze di rinnovamento diffuse tanto a livello popolare quanto ai vertici delle gerarchie sociali, tra letterati e aristocratici, vescovi e cardinali.
Nell'Italia del Cinquecento, divisa tra lo splendore delle corti e delle arti e la tragedia delle guerre e delle pestilenze, nuove dottrine religiose diffondono gli umori inquietanti del dubbio e della ribellione, insieme con le speranze di un profondo rinnovamento. Il fervore del dissenso e della libera critica percorre strati sociali di ogni condizione, tocca il vertice e la base ecclesiale della cattolicità, investendo tanto le dottrine teologiche quanto le pratiche religiose quotidiane. Massimo Firpo delinea una densa sintesi della diffusione in Italia di dottrine eterodosse scaturite dalla Riforma protestante ma con tratti di peculiare originalità. Pressoché cancellate dalla repressione controriformistica, esse furono tuttavia capaci di alimentare importanti filoni del radicalismo religioso europeo.
I saggi qui raccolti si soffermano sulla vita religiosa del '500 italiano. Il problema storico che essi indagano è anzitutto quello della forme peculiari assunte al di qua delle Alpi da alcuni dei molteplici fermenti di dissenso ereticale manifestatisi nei decenni che videro il dilagare della Riforma protestante in tutta Europa. Il rinnovamento della fede e della Chiesa da essa promossa sulla base di una profonda revisione (o restaurazione) dei principi essenziali della dottrina cristiana non tardò infatti ad assumere connotazioni diverse nei diversi contesti politici e sociali, a differenziarsi anche dal punto di vista teologico e, nelle regioni in cui ebbe successo e poté radicarsi stabilmente, a dar vita a nuove strutture ecclesiastiche e confessionali, in precoce conflitto tra loro, che segnarono la definitiva frattura dell'unità religiosa dell'Occidente.
Quali furono i caratteri salienti della reazione messa in campo dalla Chiesa cattolica nel '500 per reagire alla drammatica crisi della Riforma protestante? E quali categorie storiche meglio ne definiscono la natura? Con varia fortuna si è parlato di Restaurazione cattolica, Riforma cattolica, Controriforma, ora contrapponendo l'una all'altra ora tentandone una difficile sintesi. Il libro ricostruisce tale discussione, per concentrarsi poi sulle aporie della cosiddetta Riforma cattolica e sulla stentata e talora inesistente applicazione dei decreti emanati dal concilio di Trento anche un secolo dopo la sua fine, il che non impedì tuttavia la creazione di un mito del Tridentino quale momento genetico di un profondo e capillare rinnovamento religioso che trovò invece a Roma più ostacoli che sostegno. Di qui la persistente validità del concetto di Controriforma che occorre piuttosto declinare come costante opposizione dei vertici della gerarchia ecclesiastica a ogni autentica Riforma cattolica.
Il volume si prefigge di approfondire le vicende, le relazioni, gli orientamenti del cardinale Giovanni Morone, uno dei protagonisti della storia della Chiesa e della vita religiosa del Cinquecento, di cui simboleggia e riassume le contraddizioni. Diplomatico di statura europea, processato e imprigionato per eresia sotto Paolo IV, liberato alla morte di questi e legato pontificio all'ultima fase del concilio di Trento, il personaggio acquista dalle ricerche che vengono qui presentate una ricchezza ulteriore, anche nel confronto con altre figure altamente significative della Chiesa dell'età tridentina con cui fu in rapporto: dal papa Pio IV a Carlo Borromeo al cardinal Madruzzo a esponenti del mondo degli "spirituali". Nello stesso tempo, dal volume emergono con chiarezza i problemi e le difficili scelte di quegli anni, le prospettive di riforma che il concilio parve aprire ma che andarono in parte deluse e il significato storico dell'ascesa al trono papale del sommo inquisitore Michele Ghislieri, con la fine definitiva di una stagione della vita della Chiesa.
I preti operai sono stati coloro a cui è toccato interpretare il Vangelo nella vita quotidiana degli operai e dei lavoratori, dentro la società capitalistica, in decenni che hanno visto una progressiva perdita di valore del lavoro. La loro scelta si colloca come parabola evangelica di un ministero vissuto in un tempo segnato dalla fine della "cristianità" e con l'impulso decisivo alla figura di Chiesa fatta balenare da Giovanni XXIII: la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri. La narrazione si snoda attraverso la biografia di un prete che ha lavorato per 30 anni come infermiere nel Servizio Sanitario Nazionale, pienamente inserito nell'organizzazione leggera dei preti operai italiani. Nel racconto compaiono volti che in tanti anni di lavoro e di compagnia legata al posto di produzione di beni e servizi hanno incorporato l'odore delle pecore, come dice papa Francesco, diventato ormai come una seconda pelle.