
Nel vangelo di Matteo, in cinque occorrenze (6,30; 8,26; 14,31; 16,8; 17,20) compare l' espressione "poca o piccola fede". È una particolarità di questo vangelo che si applica, di fatto, ai discepoli: in una sequenza del discorso della montagna (6,25-34), durante la tempesta (8,23-27), nel cammino di Pietro sulle acque (14,22-23), durante la discussione dei lieviti (16,5-12) e, infine nel caso della mancata guarigione del ragazzo epilettico (17,14-20). Il presente studio si propone di analizzare i cinque brani con un'attenzione particolare allo sviluppo del tema della "poca fede" nello svolgimento del vangelo; a questi testi, inoltre, sarà accostato anche l'episodio conclusivo dell'opera di Matteo (28,16-20) che ci consegna l'ultima azione dei discepoli (28,17) in bilico tra adorazione dubbio-esperienza, questa, che richiama implicitamente la "poca fede". una veloce sintesi finale raccoglierà i dati più significati emersi dal commento. La ricerca si presenta, dunque, come una sorta di "affondo" sia nella più vasta e articolata tematica del discepolato che nella tematica della fede tout-court. I cinque testi sulla "poca fede", come luminosi punti prospettici, uniti all'accenno del finale (28,17), sono in grado di offrirci un suggestive ritratto - per un verso da completare con altri dati sparsi nel vangelo, e per un altro verso sufficientemente compatto - di colui che liberamente e chiamato ad accogliere il dio-con-noi nella persona di Gesù (1,23, 28,20).
Dio è più grande del nostro cuore e conosce tutto (1 Gv 3,20): Dio come giudice severo, oppure come "mare di misericordia"? Qual' è il significato di questo testo giovanneo cosi oscuro? A queste domande risponde il presente studio che si concentra non solo sulla "crux exegetum" in 1 Gv 3,19-20, ma esamina la relativa unità testuale 3,18-22. la spiegazione proposta per 3,19-20 e in parte nuova (quindi "contro corrente"), in parte "classica" in quanto si riallaccia a interpretazioni di "autori classici": Dio non è né giudice severo né "mare di misericordia", ma semplicemente colui che conosce "tutto". questa sua conoscenza (dei peccati, ma soprattutto degli atti di carità dell'uomo) è paradossalmente motivo di conforto per il credente afflitto dalle accuse della coscienza. Lo studio si articola nei seguenti singoli passi: nella prima fase è proposta una visione globale e panoramica del brano (critica testuale, contesto, delimitazione, analisi sintattica e semantica globale del testo), seguita, nella seconda fase, dall'analisi dettagliata. In questa seconda fase, seguendo la divisione in tre micro unità (3,18; 3,19-20; 3,21-22), viene presentata per ogni singola micro unità la storia dell'interpretazione (parte storica che include un' esame critico delle varie interpretazioni) e successivamente l'interpretazione dell'autore (parte esegetica).
Dt 28,69-30,20 è l'unico luogo della Bibbia ebraica in cui si fa menzione di un'alleanza stipulata da Mosè a Moab, prima di entrare nella terra, "oltre l'alleanza stretta all'Oreb". I due capitoli sono studiati da un punto di vista sincronico, tenendo conto della loro forma finale. Tale prospettiva consente di valorizzare il testo nel suo insieme, dando ragione delle apparenti tensioni, interpretate come elementi significativi di una penetrante visione teologica. Dopo una prima parte, nella quale, in particolare, viene presentato il confronto tra il formulario classico di alleanza e Dt 29-30, per far emergere le peculiarità del patto di Moab, la seconda sezione più ampia e consistente si occupa dell' analisi esegetica dei due capitoli. Gli elementi emersi sono posti a servizio della sintesi teologica (terza parte). Attraverso la sottolineatura delle caratteristiche proprie dell'alleanza di Moab, l'analisi permette di evidenziare che essa va interpretata nel suo insieme come la risposta deuteronomistica alla crisi costituita dall'esilio e collocata all'interno del contesto degli annunci profetici di una nuova alleanza. In questa luce l'alleanza di Moab acquista il significato di compimento dell'intenzione divina g1a rivelata all'oreb, in grado di superare il peccato e la disobbedienza di Israele.
Quali differenze intercorrono, in termini stilistici e ideologici, tra la narrazione sacerdotale e l'attività redazionale post-sacerdotale (post P) all'interno del ciclo di Giacobbe (Gn 25,19-35,29)? A confronto con la rilettura riservata dalla tradizione P alla figura e alla vicenda di Giacobbe sono posti una serie di interventi redazionali non P (Gn 28,13ab-15.20-22; 31,3.10-13; 32,10-13), eterogenei rispetto allo sviluppo dell'intreccio e interessati a condizionare la comprensione dell'itinerario del patriarca.Le differenze rilevabili tra le due prospettive a proposito della formulazione delle promesse divine, della menzione della triade patriarcale e di tratti specifici dell'itinerario considerato consentono di riconoscere il carattere post P dei testi non P. Inoltre, la percezione dell'articolazione diacronica di queste due riletture dell'itinerario di Giacobbe permette di riconoscere le principali metamorfosi cui andò soggetta l'antica figura dell'antecessore eponimo nel post-esilio.La duplice rilettura dell'itinerario del patriarca, infatti, riflette due periodi successivi dell'epoca post-esilica. La tradizione P esprime il tentativo delle prime ondate di rimpatriati di coinvolgere quanti erano rimasti nella terra in una nuova fondazione dell'identità di Israele.
L'esegesi recente sui Profeti Minori si è concentrata nello studio del loro processo compositivo in quanto collezione di opere distinte e interconnesse. In sintonia con questa prospettiva di lavoro la tesi intende accostare le similitudini a livello linguistico, espressivo, strutturale e tematico fra i libri di Gioele e Amos con particolare attenzione per le sezioni introduttorie e conclusive. La dissertazione studia le predette "somiglianze" per comprovare la loro origine redazionale e comprenderne le motivazioni. Si rileva in questo modo l'esistenza di un'ampia opera di redazione, orientata alla connessione degli scritti e alla sinergia delle rispettive predicazioni. La tesi approccia poi i libri in prospettiva tematica, accertando su quali fronti di contenuto si costruisca tale sinergia. Vengono ravvisate due tematiche (il Giorno di JHWH, il rapporto Israele-nazioni), in relazione alle quali gli scritti precisamente entrano "in dialogo". La connessione redazionale delle opere conduce così all'"integrazione" delle rispettive teologie. Il .dialogo. emergente consente in ultima istanza di evidenziare la differente attitudine di Israele in relazione alla predicazione di ciascun profeta. Mostrando le modalità antitetiche, secondo cui la libertà può disporsi di fronte al progetto di Dio, questa sezione della collezione illustra le possibilità straordinarie e terribili, insite nel libero disporsi dell'uomo.
Il nesso fra la liturgia e l'ultimo libro della Bibbia è un dato ormai diffusamente accolto nell'ambiente degli studi neotestamentari. La presente ricerca muove dall'assunto che l'Apocalisse, chiedendo di essere letta ad alta voce in pubblico (cfr Ap 1,3), trovi la sua fruizione originaria in un'assemblea liturgica cristiana. Un'introduzione raccoglie i diversi e consistenti segni che, considerati alla luce dell'ambiente storico, rivelano questo dato di partenza. L'esegesi di quattro passi, commentati nei loro contesti, mostra la fecondità anche euristica che emerge dall'attenzione alla vocazione originaria dell'opera. Lo studio dell'Apocalisse nel suo ascolto in liturgia cristiana, quando quest'ultima venga compresa con le coordinate che essa pare avere alla sua nascita e comunque in buona parte dell'era patristica, permette di cogliere nel testo una logica interna e un potere trasformante di immeditezza e concretezza particolari. Il libro che chiude la Bibbia, così denso di riferimenti sia agli altri libri della Scrittura sia all'esistenza della comunità che lo ascolti, mira a incarnare nella vita, fin dal suo semplice ascolto, la rivelazione di Gesù Cristo che consegna. Apre così un modo con il quale accostare ed ascoltare anche tutti i libri che nel Canone lo precedono. Non appare allora casuale che tanta iconografia degli edifici ecclesiastici dei primi secoli abbia attinto al suo ricco immaginario.