
Questo breve saggio si propone di riflettere sui vari temi che fanno parte della tradizione sia filosofica che musicale: il tempo, l’eternità, il suono, il silenzio, il finito, l’infinito, la ragione e i sentimenti, il riso e il pianto…
Misurare il tempo sfuggevole, rendere un’ipostasi sonora dell’eterno, interrogare il suono intimo della voce o quello degli strumenti musicali, capire i significati del silenzio, proporre delle immagini sonore dell’infinito, investigare la ragione dei cieli o comprendere perché si piange ascoltando tale musica sono stati alcuni dei compiti della filosofia della musica nel corso della storia. Nella nostra memoria culturale, dall’Antichità al Rinascimento, la musica ha costituito una chiave per accedere ai misteri divini e un modo per ascoltare il mondo, l’universo e gli esseri. In parte in modo di dialogo, questo saggio offre alcune tracce di riflessione su questa eredità musico-filosofica.
Tutto cade dentro una fuga di sguardo. Quando guardiamo ci lasciamo prendere. E ciò che ci prende ci affascina. In qualche modo ci sentiamo attratti e come trascinati via. È così che nasce la fuga dello sguardo.
Si fissa un punto dal quale nascono come delle linee o fasci che legano la visione. Nell’arte si chiama prospettiva. In filosofia si chiama punto di vista. Nell’uno e nell’altro caso il risultato è un quadro, un disegno, una visione. Le cose che si vedono sono sempre le stesse, ma il modo nel quale le si vede cambia. La filosofia è un continuo esercizio prospettico mirando un punto di fuga. La fuga è il rifugio delle cose che si guardano: il mondo, la vita, l’Occidente e l’Oriente, la musica di Bach, la poesia e la sua logica di immagini, l’anima con la sua sensibilità e i suoi temperamenti. E guardare altrove mentre si vive il presente è un modo per viverlo integralmente. Lo si vede nell’intero, come in un quadro complessivo dove tutto è centrato prospetticamente. Anche Dio cade in questa fuga di sguardo.
Ma allora la filosofia è costretta a un capovolgimento: perché il punto di fuga è lo stesso sguardo di Dio nel quale ci accorgiamo di essere guardati e in cui noi guardiamo il nostro essere visti.
Dopo la caduta delle grandi ideologie è ulteriormente progredita la persuasione che il nichilismo costituisca il carattere dominante della nostra epoca, l'elemento spirituale onnipresente, che tocca in profondità la vita, il costume, l'azione. Ma che cosa è propriamente il nichilismo? Quali le sua più riposte origini? Queste le domande da cui l'Autore prende le mosse, in un serrato confronto con le forme di nichilismo che emergono in Nietzsche, Gentile, Habermas, Heidegger.
“Il solo scopo per il quale si può legittimamente esercitare un potere su qualche membro della comunità civilizzata contro la sua volontà è quello di impedirgli di nuocere ad altri…Su se stesso, sul suo corpo e la sua mente l’individuo è sovrano”.
È questo il nucleo di verità che il lettore troverà illustrato in maniera esemplare in questo saggio, scritto da John Stuart Mill nel 1859, e subito considerato uno dei classici del pensiero liberale, e cioè che la libertà è la sorgente della creatività umana in ogni campo, dalla scienza all’arte, dalla politica all’economia. Per questo ogni altro principio, quello dell’ordine, del governo popolare, della giustizia deve coniugarsi con quello della libertà. Diversamente, la società è condannata a scivolare lungo la china del dispotismo politico e del conformismo sociale, in fondo alla quale c’è solo la pietrificazione delle due forme di vita.
Che cos'è in gioco nella letteratura, qual è il "fuoco" che il "racconto" ha perduto e cerca a ogni costo di ritrovare? E che cos'è la pietra filosofale che gli scrittori, con altrettanto accanimento che gli alchimisti, si sforzano di produrre nella loro fornace di parole? E che cosa, in ogni atto di creazione, ostinatamente resiste alla creazione e conferisce in questo modo all'opera la sua forza e la sua grazia? E perché la parabola è il modello segreto di ogni narrazione? Come in "Profanazioni" e "Nudità", Giorgio Agamben ha raccolto qui in dieci saggi i motivi più urgenti e attuali della sua ricerca. Come sempre nei suoi scritti, l'ostinata interrogazione del "mistero" della letteratura, perseguita anche nei suoi aspetti più materiali (la trasformazione della lettura nel passaggio dal libro allo schermo), s'intreccia con una meditazione sull'altro, più oscuro, "mistero" della modernità, etico e politico, questa volta.
Il passare e il cambiare della vita; la non spiegabilità, nel fondo, delle cose che sono, di ciò che è possibile e di ciò che non lo è, dei traguardi che si raggiungono e di quelli che si falliscono, degli impegni e delle rinunce; il perdere, il ritrovare e la nostalgia.
Giovanni Cera insegna Filosofia teoretica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari. Ha studiato, fra l’altro, il pensiero francese contemporaneo, lo storicismo e la filosofia pratica. Negli ultimi anni ha pubblicato Il tempo e lo sguardo. Dell'esistenza (Bari 2005) e, per le Edizioni di Pagina, Identità e vita (Bari 2006), Il familiare e l'estraneo (2008) e L’ontologia imperfetta (Bari 2009).
Il dono e l'abbandono come eventi e forme della vita. E ancora: il fare e l'avere a che fare con gli oggetti, il vedere e il non vedere, la storia e le storie, il ricordare e il dimenticare. Un'analisi di alcuni non marginali aspetti e momenti dell'esistenza.
Natura delle forme, attesa e memoria, origine e senso della colpa, egoismo e fede, realtà e prospettiva. Un'analisi di motivi e problemi non secondari della filosofia a partire dall'idea del cominciare e del terminare, del succedersi e dell'alternarsi di condizioni, situazioni, emozioni.
"La conoscenza ha carattere donativo". Questo presupposto affettivo nel rapporto tra realtà ed essere umano sta alla base del testo Erkenntnis als Urphänomen, il quale espone la formulazione definitiva e matura della teoria della conoscenza di Hengstenberg, allora ottantaduenne. Il filosofo muove da una ontologia allargata che, nella sua applicazione antropologica, punta al superamento del dualismo tra atto e potenza attraverso una triade concettuale: spirito, corpo, principio di personalità. In particolare le applicazioni gnoseologiche risultano innovative, poiché vanno a riaffermare - in decisa controtendenza rispetto al filone postkantiano e in fruttuosa dialettica con le suggestioni heideggeriane - la fiducia nelle capacità della ragione umana di rapportarsi in maniera costruttiva e limpida con gli enti, primi fra tutti gli enti dal "volto umano".
Le parole vivono e fanno vivere ma non sono vita: la rappresentano soltanto.
Dipendenza e senso di sé; il mangiare, l'amare e il pensare nella costituzione e nella percezione della vita; gradimento e rifiuto delle cose in quanto misure emotive dell'essere al mondo; gli altri negli incontri e nelle relazioni; gli esclusi e i dimenticati, l'umanità offesa. Questi i temi principali affrontati nel volume in una prospettiva di analisi aperta ai diversi e contrastanti aspetti della realtà e rivolta, anche, a segnalare l'incidenza del caso nel divenire delle decisioni e delle azioni e il carattere incerto e mutevole della verità.
Tra le numerose ninfee dipinte da Claude Monet la migliore - secondo Charles Péguy (1873-1914) - non sarà l'ultima, frutto di un crescente apprendimento, bensì la prima, figlia dello stupore. Solo lo stupore, infatti, veramente conosce. Il resto è "sistema" rigido, è imporsi del "bell'e fatto", è invecchiamento prodromo della morte. Non è più avvenimento. Con questa rivoluzionaria impostazione Péguy ha guardato il "mondo moderno" denunciandone la forza avvilente, ha combattuto per la "città armoniosa", ha ritrovato la fede di quand'era bambino, ha vissuto da "cristiano della comune specie", ha cantato le meraviglie della "giovane speranza" e la grandiosa avventura di Eva/umanità. Ed è morto in battaglia, perché il rapporto con l'Eterno e con l'Infinito si gioca tutto nella brevità di un tempo e nella carnalità di uno spazio.