
Descrizione
María Novo propone in questo libro una serie di idee e strategie per riappropriarsi del proprio tempo e liberarsi dalla schiavitù della produttività. Scorrendo senza fretta le pagine, rifletterete sulle cause dell’accelerazione responsabile dello stress che affligge la società moderna. Scoprirete strade alternative per continuare a produrre, pur conducendo una vita più serena e soddisfacente. L’autrice ci racconta le sue personali vicissitudini nel «caos organizzato» di Roma; ci parla di progetti innovativi collegati a una nuova cultura del tempo, come quelli avviati a Ferrara, la Città delle biciclette, o a Fano, la Città dei bambini; ci descrive le esperienze concrete di individui singoli, gruppi, città o organizzazioni (come Slow Food, Città Slow e le Banche del Tempo) che hanno cominciato a cambiare, rallentando i ritmi e riducendo la velocità. Una riflessione sul tema dello sperpero di tempo, che rientra in una problematica più ampia: la ricerca di un benessere collettivo, fondato sull’equilibrio ecologico e l’uguaglianza sociale.
Destinatari
Chi ha cominciato a preoccuparsi dell’impatto dei comportamenti quotidiani sull’ambiente naturale. Chi vuole sottrarsi alla folle corsa a produrre e consumare senza limiti imposta dal mercato. Chi è stanco di lasciarsi dominare da irraggiungibili traguardi di produttività e competitività, perdendo di vista la capacità di gioire di ciascun istante e di assecondare i ritmi personali.
Il Novecento - secolo dei totalitarismi, ma anche delle più rivoluzionarie scoperte della scienza, dalla relatività di Einstein alla doppia elica del DNA - ha avuto il suo filosofo più provocatorio in un Topo che, per spregiudicatezza nell'attraversare i confini delle discipline e mettere in discussione la costellazione delle certezze stabilite, non ha nulla da invidiare a Russell, Popper o Heidegger. Mickey Mouse (Topolino per noi) ha vissuto le più bizzarre avventure e affrontato quesiti come la terribile libertà del "quarto potere", gli ambigui prodigi della scienza asservita alla guerra, l'impossibilità della giustizia e la difficoltà di trattare con le culture "altre", per non dire delle sfumate regioni del mito o dell'aldilà. Altro che Topolino tutto legge e ordine, aiutante della polizia! È invece un ribelle capace di battersi contro ogni forma di prevaricazione, anche se l'esito non è sempre la vittoria. Quello che Walt Disney e i suoi collaboratori ci consegnano alla fine di ogni episodio è un Topo sempre più dubbioso sulla natura dell'universo e il complesso mondo di "uomini e topi". Ma proprio per questo continua ad affascinare, perché la ricerca, come l'avventura, non ha fine.
Il dialogo è la forma specifica del divenire della vita. Le relazioni umane, la speranza in un futuro di pace e la stessa soggettività umana dipendono da esso. La sua necessità, però, fa da contrappeso a un’ignoranza diffusa su quali siano i suoi fondamenti, il suo senso, le sue applicazioni e il suo metodo. La dialogicità rappresenta una realtà complessa e articolata della quale qui si analizzano tre grandi declinazioni: filosofica, interculturale e interreligiosa, tenendo conto del concetto di verità.
Paolo TRIANNI ha un dottorato in filosofia e uno in teologia. Insegna presso l’Università Urbaniana, il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. Tra le sue pubblicazioni una quindicina di curatele e i volumi: Il diritto alla libertà religiosa. Alle fonti di Dignitatis Humanae (2014); Nostra Aetate. Alle radici del dialogo interreligioso (2016); Per un vegetarianesimo cristiano (2017); Teilhard de Chardin. Una rivoluzione teologica (2018). Fa parte di Religions for peace, ed è nella redazione della rivista internazionale «Dilatato Corde» del Dialogo interreligioso monastico.
Saggio breve. L'autore si interroga sulla necessità di riformulare tematiche filosofiche riguardanti l'identità, la forma, lo spazio interiore, la centralità, il diritto alla città.
Hanno pagato «il prezzo più alto» non solo a causa della pandemia, ma anche di una cultura della produttività che li considera troppo spesso un peso. Ma gli anziani, secondo il papa, sono invece «una benedizione per la società». Con diciotto catechesi qui raccolte per la prima volta Francesco ha sviluppato un nuovo importante percorso di riflessione interamente dedicato al senso e al valore della vecchiaia attraverso la parola di Dio, da Genesi ai Vangeli, per spiegarne la ricchezza e trasmettere «saggezza all'umanità». Quello del pontefice è un autentico appello alla riscoperta dell'arte di invecchiare. Perché non può essere solo una questione di «piani di assistenza», ma di «progetti di esistenza» per un'età della pienezza e dell'apporto gioioso. Al centro di queste «lezioni» è il rapporto intergenerazionale, una questione di primo piano in quest'epoca segnata dal calo demografico. Gli anziani sono «un vero e proprio nuovo popolo», osserva il papa, «mai siamo stati così numerosi nella storia umana», eppure «il rischio di essere scartati è ancora più frequente». Ma non ci si può limitare al cambiamento quantitativo, è in gioco «l'unità delle età della vita», ossia «il reale punto di riferimento per la comprensione e l'apprezzamento della vita umana nella sua interezza». Il nuovo libro del pontefice è accompagnato dai suoi più rilevanti interventi sul tema e presentato da Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, che delinea un vero e proprio itinerario storico e culturale nel valore della vecchiaia.
È ragionevole credere nell'aldilà? Non solo non è una questione oziosa, ma c'è anzi un'illustre tradizione filosofica in proposito. Kant si chiedeva «in che cosa possiamo ragionevolmente sperare?» e sosteneva che la vita eterna è una faccenda che riguarda la filosofia prima ancora che la religione. Jaspers parlava della necessità di una «fede filosofica» in grado di fare un po' di luce sulla questione del nulla e anche di quelle potenze oscure che abitano le profondità dell'umano. D'altra parte la riflessione sull'immortalità dell'anima è stata da Socrate consegnata a Platone, da questi a Plotino e poi al neoplatonismo, fino alla mistica speculativa, all'idealismo e infine all'ontologia. Oggi, di questo tema, sembrano essersi perse le tracce. Partendo da quello che hanno scritto questi e altri grandi pensatori, Givone sposta ben presto il discorso all'oggi, per chiedersi come una questione apparentemente sorpassata - l'aldilà, la vita dopo la morte - incredibilmente resti attuale: in molti continuano infatti a strizzarle l'occhio, come non rassegnandosi all'idea di archiviarla del tutto. E così, raccontando anche il momento del commiato a Sergio Staino, cui molti amici dichiaratamente atei auguravano in Palazzo Vecchio a Firenze «buon viaggio», Givone ci consegna un libro che tratta il grande tema della vita dopo la morte restando però saldamente ancorato alla vita stessa, proprio quella che ci tocca vivere in un'epoca disincantata e ignara di qualsiasi trascendenza.
I nuclei fondamentali del pensiero di Maria Zambrano, figura affascinante di pensatrice del mondo spagnolo. Una lettura unitaria e complessiva del pensiero di Maria Zambrano, il cui itinerario fu teso alla ricerca di una filosofia che potesse essere guida di realizzazione e sapere di salvezza della vita umana, dopo le grandi tragedie del Novecento. Dalla marginalita del suo esilio, la filosofa individua le cause della crisi nel carattere sacrificale del pensiero occidentale che avrebbe rimosso le modalita piu autentiche del rapporto tra essere, vita e pensiero.
Il volume offre un'introduzione al contempo accessibile e rigorosa ai più recenti sviluppi di una fondamentale branca della filosofia del tempo: la filosofia del futuro. Al centro dell'attenzione sono le domande chiave del dibattito contemporaneo. Il futuro è già scritto o esistono cammini alternativi che il tempo è in grado di imboccare? Esistere significa semplicemente essere presenti o ci sono veri e propri oggetti futuri? Siamo davvero liberi di scegliere quali azioni compiere e di modificare il corso degli eventi? Il dibattito intorno alle risposte di volta in volta offerte dalla filosofia esplora un'intrigante zona d'intersezione tra metafisica, logica ed etica, e interessa discipline diverse come la fisica, la psicologia e l'economia. Gli autori offrono gli strumenti necessari per inquadrare concettualmente le domande sul futuro, introducendo tutte le nozioni tecniche in un linguaggio chiaro e intuitivo.
La cura costituisce la qualità essenziale della condizione umana, ma non è qualcosa che ci appartiene, come il corpo e la mente; è il nostro esserci, il nostro modo di stare nel mondo con gli altri, al quale siamo chiamati a dare forma. L'esserci è una tensione continua a ricercare quello che è necessario per conservare la vita, per farla prosperare e per guarire le ferite ricevute. L'autrice riflette sull'arte di esistere, intesa come capacità di dare senso al tempo e di condurre una vita autentica a partire dalla conoscenza della propria interiorità, che si può raggiungere solo mediante il confronto con il mondo esterno. Riattualizzando il senso della cura di sé, fondamentale nell'antichità ma oggi sintomo di individualismo e di ripiegamento interiore, ne sottolinea la valenza etica e sociale, facendo proficuamente dialogare i pensatori dell'età classica con la fenomenologia del Novecento.
Diviso in due capitoli, "Del diritto alla giustizia" e "Il nome di Benjamin", il libro evidenzia una scissura tra diritto e giustizia, oggetto da parte di Derrida di una riflessione profondamente originale. Con riferimento a Montaigne e Pascal, egli esprime una precisa critica dell'ideologia giuridica, del diritto che è in rapporto asimmetrico con la giustizia, nel senso che laddove c'è diritto non c'è giustizia, per il semplice motivo che la forma giuridica è l'esito di rapporti di forza politico-economici. Se è indubitabile che la legge si regge sulla forza, allora si tratta di vedere quale possibilità essa ha di accedere alla giustizia.
Certi trionfi sono peggiori delle eclissi. È accaduto anche alla bellezza. Proscritta come imbarazzante anticaglia dal sussiego postmodernista, ha poi riguadagnato terreno nella vita quotidiana attraverso un'idea artefatta di naturalezza e il culto della prestanza corporea, che promette a chiunque una facile elusione del proprio "ricettacolo di fango". Stefano Zecchi non si compiace affatto di un simile rientro in scena della bellezza. Se oltre vent'anni fa la riscattava dal limbo di irrilevanza in cui l'aveva confinata l'intero Novecento, avanguardista e "post", adesso la difende dalla sua versione cosmetica, domenicale. Nella nuova edizione di quel saggio controcorrente, accolto con successo, Zecchi torna a essere felicemente inattuale. Ai suoi occhi rimozione estetica ed esaltazione sociale appartengono allo stesso orizzonte isterilito, in cui ancora una volta viene aggirata la domanda di senso che è racchiusa nella rappresentazione di una forma sensibile e che costituisce la vera dimensione utopica dell'esistenza. Più che salvare il mondo, secondo l'auspicio di Dostoevskij, oggi la bellezza deve essere messa in salvo dal mondo.
Il nucleo centrale di tutti gli insegnamenti di Krishnamurti è che il problema umano centrale di ciascun singolo lettore può esser risolto in uno e un sol modo: quello valido per lui stesso. Quasi in ogni capitolo, quale che sia l'argomento, questo è il messaggio fondamentale. Attraverso la conoscenza di sé, non attraverso la fede nei simboli di qualcun altro, un uomo raggiunge la realtà eterna. La fede nell'assoluta adeguatezza e nel valore superiore di qualsivoglia sistema simbolico non conduce alla liberazione, ma alla storia, al rinnovarsi delle stesse antiche catastrofi. "Inevitabilmente la fede separa. Se avete una fede, o se cercate la sicurezza in una particolare fede, voi vi separate da coloro che cercano la sicurezza in un'altra forma di fede. Ogni fede organizzata è basata sulla separazione, per quanto essa possa predicare la fratellanza. Gli uomini di buona volontà non devono avere delle formule; perché le formule conducono inevitabilmente alla cecità". Cos'è allora che Krishnamurti ci offre? Non auto-disciplina, né preghiera, né yoga. È, sostiene, una trascendente spontaneità di vita, una 'realtà creativa' come egli la chiama, che si rivela immanente solo quando la mente che la percepisce si trova in uno stato di 'passività desta', di 'consapevolezza acritica'.