
La storia ha un andamento tortuoso, a volte incomprensibile. Eppure alcuni intravedono in quel groviglio di eventi una sensatezza, addirittura un vettore unificante. Ritengono che nella storia agisca una razionalità potente e che il pensiero sia chiamato a comprenderla attraverso una tessitura concettuale priva di smagliature. Della storia sarebbe dunque possibile una scienza. Tra coloro che lo sostengono c'è chi individua nello svolgersi degli eventi un principio immanente, e chi invece lo riferisce alla trascendenza di Dio. Prospettiva filosofica la prima, teologica la seconda. Spesso però sono meno distanti di quanto ci si immagini, anzi attingono l'una all'altra. Lo dimostra il filosofo e teologo Gianluigi Pasquale, in un saggio stringente che si apre con un quesito radicale: esiste nella storia la ragione che io mi possa salvare? La sua argomentazione fa perno sull'accostamento di due figure centrali, Hegel, il teorico dell'assoluto inteso come processo dialettico e storico, e un suo grande lettore di oggi, il teologo protestante Wolfhart Pannenberg. Sia per la dialettica hegeliana sia per il pensiero cristologico di Pannenberg la storia non si dispiega dal passato verso il futuro, piuttosto dal futuro corre incontro al passato, così che la verità nella storia è ricostruibile solo retrospettivamente, nella totalità dell'accadere. Ed è proprio il primato del futuro, secondo Pasquale, a costituire il fondamento su cui poggiano insieme la logica interna alla storia è la speranza di salvezza.
Oggi, più che del declino dei valori, forse occorrerebbe parlare della pericolosa incertezza in cui versano i discorsi. Il dibattito pubblico deraglia anche per la profonda confusione che riguarda certe parole-cardine della vita associata, come appunto "verità". La filosofia contemporanea ha riflettuto a lungo sulla nozione di verità, ma se poco o nulla è trapelato nella sfera pubblica, la mancata comunicazione va imputata ai filosofi stessi, troppo chiusi in ambiti di ricerca non dialoganti, innanzitutto, tra loro. Finalmente una delle filosofe italiane più lette crea il ponte di cui c'era bisogno, trattando la verità come un concetto "speciale", ossia fondamentale e trasversale, che va chiarito preliminarmente per non incorrere in abusi e fraintendimenti. Franca D'Agostini ci spiega in che cosa consiste la straordinarietà di questa parola, ne precisa significato e uso e ne discute la legittimità. A scettici e nichilisti raccomanda: rendete duttile la vostra logica, e non avrete più molte ragioni di scetticismo riguardo alla verità. Se infatti scienza, cultura, politica, religione si avvalessero di logiche più duttili e metafisiche più permissive, è probabile che molte difficoltà a discriminare il vero dal falso verrebbero meno.
Chi avrebbe supposto che zoppia e mancinismo - oltretutto associati nella stessa figura ideale - venissero portati a vanto del pensiero in atto, come le sue insegne più onorifiche? A compiere il gesto di giustizia che li riscatta dalla difettività è Michel Serres, epistemologo ultraottantenne così intrigato dall'attuale sconvolgimento del sapere da farsene il supremo cantore, con un'euforia lungimirante e contagiosa, con un'audacia concettuale ignota ai colleghi giovani o a chi rimane abbarbicato a un "umanesimo di opposizione", e con uno stile ruscellante evocatore di mondi, al pari di Lucrezio. Alle idee astratte Serres preferisce da sempre le figure sintetiche. Il mancino zoppo è l'eroe dell'"età dolce", la nostra, che nella riconfigurazione digitale dello spazio-tempo si lascia alle spalle la "dura" rigidità euclidea, cartesiana, metrica, abitando la dimensione utopica del possibile e recuperando il concreto attraverso il virtuale. Ma è anche il simbolo vivo di ogni lavorio della mente degno di questo nome, dalla notte dei tempi: pensare vuol dire infatti deviare dai tracciati, avanzare di traverso e un po' sghembi, rompere le simmetrie, afferrare il segreto di ciò che sarà domani con la stessa "formidabile inventiva dell'Universo in espansione". No, non c'è posto per il già formattato, secondo Serres. "Non conosco alcun metodo che abbia mai aperto la strada a qualche invenzione; né alcuna invenzione trovata con metodo".
In trentadue anni - tra il 1900 (primo articolo sui quanti di Planck) e il 1932 (formulazione rigorosa della teoria da parte di von Neumann) - il mondo è cambiato come mai prima di allora. Non la fisica: il mondo. Fino ad allora tutte le scoperte e le teorie scientifiche avevano messo sotto la lente angoli nascosti della realtà, troppo piccoli o troppo grandi per essere osservati, troppo veloci o troppo lenti per essere descritti. Ma la realtà era sempre lì, non era messa in discussione: solo si dimostrava più elusiva del previsto, ma in definitiva sempre conoscibile. Il trentennio dei quanti - e la lunga, magnifica ed epica disputa tra Einstein e Bohr - ha rotto completamente gli schemi: se la meccanica quantistica è corretta (e lo è), allora la realtà, là fuori, non è compiutamente descrivibile. Nemmeno in linea di principio. Abbiamo sbagliato qualcosa (come voleva Einstein) e le cose si risolveranno? O non abbiamo sbagliato niente (come voleva Bohr) e semplicemente dobbiamo rinunciare alla descrizione completa del mondo (che per quanto ne sappiamo, potrebbe anche non esserci)? Domande pesantissime, che la fisica ha imposto all'indagine filosofica.
Cosa ha a che fare Atene con Gerusalemme? Vale a dire, cosa hanno in comune la cultura dell’uomo e la trascendenza dell’esperienza religiosa? È la domanda che si pose, tra la fine del II secolo e l’inizio del III, lo scrittore cristiano Tertulliano. E la sua risposta, sicura e intransigente, fu: «Assolutamente nulla».
Questa stessa domanda è lo stimolo di partenza per la ricognizione, precisa e insieme appassionata, che O’Malley compie della cultura occidentale, delle sue radici e della sua specificità. In una prospettiva originale e con una singolare capacità di sintesi, vengono individuati quattro grandi paradigmi culturali che si fronteggiano, si alleano, si contaminano lungo tutto l’arco della storia dell’Occidente. Quattro modelli che, come altrettante correnti, attraversano l’oceano della nostra tradizione consentendo di dipanarne e interpretarne le variegate espressioni, dal mondo classico all’avvento del cristianesimo, dall’esuberanza del Cinquecento alla secolarizzazione moderna e postmoderna.
La prima è la cultura profetica, quella di Isaia e Geremia, ma anche di Gregorio VII, di Lutero e, tra i moderni, dell’apostolo dei diritti civili Martin Luther King. È la cultura che parla alto e forte, che parte per le crociate e va al martirio, che non conosce compromessi e punta dritto a un futuro di libertà e giustizia. La seconda cultura è il suo contraltare immediato: è il mondo dei filosofi e degli scienziati, di Platone e Aristotele, dell’università e delle summae medievali, del Concilio di Trento e delle accademie scientifiche del Settecento. Privilegia il ragionamento, procede per prove e dimostrazioni.
C’è poi la cultura letteraria della poesia e della retorica, che accoglie anche l’attitudine pratica degli oratori e dei politici. È il modello umanistico, che realizza i suoi ideali nella lirica di Omero e Virgilio, ma insieme si preoccupa dell’educazione dei giovani e del bene comune; è la cultura della comprensione dell’uomo nelle sue mille sfaccettature, la cultura che accomuna attraverso i secoli Cicerone ed Erasmo, Molière ed Eleanor Roosevelt, Dante e il Concilio Vaticano II. Infine, c’è la cultura delle arti e dello spettacolo, che mette insieme Fidia e Prassitele, la musica e le cerimonie pubbliche, la liturgia e l’architettura barocca, la pittura sacra e la performance contemporanea. È la cultura del rito collettivo, dell’esperienza estetica, della bellezza fisica, materiale, ma insieme dell’incantesimo che trasporta in un luogo dove il linguaggio umano viene meno.
Nel disegnare il suo efficace ritratto della cultura occidentale, O’Malley ‘gioca’ con questi quattro modelli, mettendo a paragone situazioni storiche e personaggi esemplari e sottolineandone i momenti di rivalità e impermeabilità, ma anche di affinità e contatto. E infine ci invita a rileggere la nostra esperienza di uomini d’oggi, immaginando altri legami, altre combinazioni, per una comprensione sempre più stringente e consapevole della nostra storia e del nostro presente. Atene e Gerusalemme, lungi dall’essere incompatibili come le voleva Tertulliano, hanno insieme contribuito alla complessa architettura che chiamiamo Occidente. Sono la nostra eredità.
John W. O’Malley, gesuita, è professore emerito di Storia della Chiesa alla Weston Jesuit School di Cambridge (ma). Tra i curatori dell’edizione inglese dell’opera erasmiana, è autore di numerosi e pluripremiati saggi storici, tra cui, tradotti in italiano, I primi gesuiti (Vita e Pensiero 1999) e Trento e dintorni. Per una nuova definizione del cattolicesimo nell’età moderna (2005).
David Konstan è uno dei massimi esperti di Epicureismo antico a livello internazionale. In questo libro apporta un contributo di rilievo alla comprensione dell'etica e della psicologia epicurea, nell'ambito della teoria dell'anima e delle sue passioni, con importanti risvolti anche relativi alla fisica e alla teoria della conoscenza. Dopo un'introduzione sulle "passioni" epicuree (i "pathe") e su che cosa propriamente si debba intendere con il termine pathos, il primo capitolo si occupa della psicologia epicurea, indagando l'anima e le passioni nell'Epicureismo. Oggetto dei capitoli successivi sono la teoria sociale e lo sviluppo dell'umanità secondo l'Epicureismo, e l'epistemologia, ossia la teoria epicurea della conoscenza. Lo studio di Konstan, si basa soprattutto sulle testimonianze di Lucrezio, senza trascurare però anche tutte le altre disponibili, dai frammenti di Epicuro al tardo epicureo Diogene di Enoanda, ed è arricchito da una bibliografia ampia e aggiornata.
L’incidenza delle nuove tecnologie sui nostri modi di vivere è ormai ben nota, tanto a livello di esperienza quotidiana, quanto come oggetto di studio delle scienze umane. Meno studiate, ma non meno significative, sono invece le conseguenze di questi processi, non solo da un punto di vista filosofico, ma più precisamente su un piano etico. Ovvero nell’individuazione di principî e criteri di comportamento capaci di guidarci nelle nostre azioni.
Che cosa si intende per realtà virtuale? In che modo possiamo o dobbiamo comportarci quando navighiamo in internet, quando chattiamo con gli amici, quando il nostro avatar si muove in Second Life? Sono solo alcuni dei quesiti a cui si cerca di dare risposta in questo nuovo numero dell’«Annuario di etica», intitolato appunto Etica del virtuale.
L’intento è approfondire e dare precise indicazioni di comportamento riguardo alla possibilità che oggi abbiamo di vivere in una dimensione che sempre più marcatamente assume i caratteri della virtualità.
Nella prima sezione del libro, «Il virtuale e l’etica», si definisce il concetto di ‘virtuale’ e si discutono i criteri di comportamento che possono essere assunti in questa nuova situazione. Nella seconda sezione, «Virtuale, naturale, artificiale: applicazioni pratiche e problemi etici», sono raccolti interventi che analizzano, sotto diverse angolature, le conseguenze e le opportunità legate alla sempre più massiccia ‘artificializzazione’ del reale. La terza sezione propone le testimonianze di ricercatori e professionisti che si confrontano quotidianamente, nella loro attività, con la portata etica dei problemi legati al mondo virtuale: da Derrick de Kerckhove a Gianluca Nicoletti, da Guglielmo Tamburrini e Giuseppe Trautteur. Chiude il volume un’utile bibliografia ragionata.
Adriano Fabris è professore ordinario di Filosofia morale all'Università di Pisa, dove insegna anche Etica della comunicazione e Filosofia delle religioni, e dirige il Master in Comunicazione pubblica e politica e il Centro interdisciplinare di ricerche sulla comunicazione (CICO). A Lugano ha promosso invece il Master in Scienza, filosofia e teologia delle religioni. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Paradossi del senso (Brescia 2002), Etica della comunicazione interculturale (Lugano 2004), Teologia e filosofia (Brescia 2004), Guida alle etiche della comunicazione (a cura di, Pisa 2004), Etica della comunicazione (Roma 2006), Senso e indifferenza (Pisa 2007).
A dispetto di antichi pregiudizi, Pascal è un pensatore che scruta l'uomo e la società con la speranza cristiana di chi crede che i discendenti di Adamo possano realizzare nella città terrena una giustizia meno ingiusta, per mezzo di istituzioni miranti al bene comune, e non all'interesse particolaristico di individui o di gruppi. E che Pascal non sia nemico dell'uomo si comprende dai tre Discorsi sulla condizione dei grandi, ove si delineano il profilo e l'operato del "re di concupiscenza". A differenza del re tiranno, che domina con la forza, il re di concupiscenza mira al benessere degli altri. Il suo è un "umanesimo imperfetto", che rimane al di qua della linea di demarcazione fra paganesimo e cristianesimo, impantanato in un mondo senza speranza e senza Dio. Da qui il necessario passaggio dal re di concupiscenza al re di carità che, riunendo in sé i valori dell'umanesimo e del cristianesimo, diventa il portatore di un pascaliano "umanesimo perfetto".
Ogni definizione che possiamo dare dell’uomo è, in fondo, anche una definizione che diamo di noi stessi. Ma possiamo immedesimarci nell’immagine di un uomo che non nasce, non cresce, non si ammala, non soffre, non perde mai l’esercizio delle sue facoltà e non si trova mai ad accudire altre persone che, come lui, attraversano queste esperienze? La cultura moderna ci ha consegnato il mito antropologico della soggettività autonoma, libera e responsabile e ha relegato nelle pieghe residuali del pensiero i problemi che vengono sollevati dall’esperienza umana che si svolge nel tempo, creando un vocabolario adatto per rendere marginale ogni altro modo d’essere dell’umano: è il linguaggio che ha coniato espressioni come quelle di handicappato, invalido, disabile, per poi culminare nella formula ipocrita, ma politicamente corretta, del diversamente abile. Questo libro intende, invece, fare i conti con la condizione umana assumendo un’altra prospettiva. Malattia, dolore, sofferenza, poste in relazione con l’ambiente (fisico, culturale, politico, sociale) condizionano la possibilità di realizzazione di ognuno di noi e finiscono con l’impattare sul senso stesso della partecipazione, della cittadinanza e della nostra auto-rappresentazione: questa relazione è ciò che oggi l’OMS e la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute intendono con il termine disabilità. Sulla scorta di tale definizione, il volume ripercorre alcuni temi classici dell’antropologia filosofica proponendosi di fornire una più adeguata comprensione dell’esperienza umana.
Gli autori
Adriano Pessina (Monza 1953), è ordinario di filosofia morale, direttore del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna Bioetica e Filosofia della persona nella Facoltà di Scienze della formazione, ed è membro ordinario della Pontificia Accademia per la Vita. Studioso di Bergson (Il tempo della coscienza. Bergson e il problema della libertà, Vita e Pensiero, Milano 1988; Introduzione a H. Bergson, Roma-Bari 1994), da molti anni svolge ricerche nell’ambito della bioetica. È autore di Bioetica. L’uomo sperimentale, Milano 2006 e di Eutanasia. Della morte e di altre cose, Siena 2007, oltre che di numerosi saggi, tra i quali: Libertà e tecnologia: annotazioni teoretiche (2003), Il bello dell’etica. Per una rilettura del rapporto tra essere e dover essere (2005), Dignità e indegnità dell’uomo: il tempo della malattia (2009), Biopolitica e persona (2009).
La fenomenologia francese contemporanea sta vivendo una felice stagione di ricerche e dibattiti grazie ad autori come Lévinas, Henry e Marion che le hanno impresso una curvatura teologica del tutto inattesa e finora mai tentata. Questo percorso è caratterizzato da un ‘ritorno ad Husserl’, cioè un esercizio di appropriazione della fenomenologia husserliana svincolata dall’ipoteca posta dall’ontologia di Heidegger. Rileggendo Husserl si individua come la fenomenologia realizzi la possibilità di un’effettiva apertura all’‘altro’ della filosofia, che può attestarsi solo se la fenomenologia husserliana si libera dei suoi presupposti metafisici, configurati nell’intenzionalità e nel primato della coscienza trascendentale. Invece le analisi husserliane sul tempo, la coscienza impressionale e la donazione, depurate da ogni valenza gnoseologica, costituiscono il punto di partenza per elaborare i percorsi originari con cui Lévinas introduce l’Altro della filosofia occidentale, ed Henry e Marion portano alla luce le verità del Cristianesimo. Radicalizzando i testi husserliani, tali autori costruiscono le proposte teoriche che, nella misura in cui pretendono di superare la metafisica moderna passando attraverso la fenomenologia, incrociano i percorsi dello stesso Heidegger e di Derrida. Il tournant théologique implica, quindi, una presa di posizione sull’essenza stessa della fenomenologia, ma anche sulla possibilità di elaborare una filosofia sul Cristianesimo radicalmente diversa rispetto ai percorsi tradizionali.
Vittorio Perego (Melzo, 1970), dottore di ricerca in Filosofia nell’Università Cattolica di Milano, ha studiato a Friburgo i.B. e a Parigi. Si è occupato del pensiero di Heidegger con il volume Finitezza e libertà. Heidegger interprete di Kant (Vita e Pensiero, Milano 2001) e ha tradotto La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl di Lévinas (2002). È inoltre autore di diversi articoli sulla filosofia contemporanea, in particolare sulla fenomenologia tedesca e francese.
Il tema del bene comune è oggi tanto presente in una società che, a rischio di frammentazione, ne percepisce pur confusamente la necessità, quanto teoricamente indicibile da parte della filosofia politica, influenzata da eredità socialiste e da prospettive individualiste liberali. Di qui la necessità, per una riproposizione del tema, di una approfondita calibratura che tenga conto delle istanze presenti nel pensiero moderno e contemporaneo e delle ragioni ereditate dalla tradizione classica. È nato con questi interrogativi un lavoro seminariale fra docenti di diverse università italiane che, in questo volume, affrontano il tema del bene comune da diverse prospettive e con diverse sensibilità e competenze. In particolare, tre prospettive complementari offrono una gamma interessante di significati del bene comune: i fondamenti teorici dell'idea nello sfondo della sua lunga storia e della sua crisi; l'esperienza che del bene comune si ha in modo anche atematico nel vivere associato; gli ambiti della cultura civile in cui la questione del bene comune ha un forte rilievo, quali sono l'ambito economico, quello religioso pubblico, quello dei diritti umani, quello delle utopie tecnologiche.