
Possiamo dire di essere liberi se le nostre decisioni sono spesso il compromesso tra una ragione sedotta dall'oggettività e una emotività che reagisce a ogni stimolo senza starci troppo a pensare? Il confronto serrato tra Kierkegaard e Rahner, tra il filosofo del pathos e il teologo del logos, mostra la possibilità di una vera libertà a partire da quell'uomo libero che fu Cristo. "Pathos e logos sono [...] riconciliati proprio nel credente, il quale sente e conosce, desidera e discerne, vuole e comprende". (Dalla Prefazione di P. Gaetano Piccolo SJ).
Sospese tra la consapevolezza delle limitate capacità umane e la certezza dell'onnipotenza divina, illuminanti considerazioni di un originale pensatore del XI secolo. Maestro e teologo, raffinato copista e originale pensatore tedesco del secolo XI, il monaco Otlone di Sankt Emmeram (1010-1070 ca.) è un misconosciuto ma affascinante testimone della prima stagione della riforma ecclesiastica e dello scontro tra papato e impero. Nel Liber de temptatione, una delle prime autobiografie del Medioevo, egli descrive i propri tormenti intellettuali, che culminano nell'idea - inaudita per l'epoca - che Dio possa non esistere. Dalla tentazione del razionalismo deviante e dallo scetticismo lo salvano illuminanti considerazioni filosofico-teologiche: il cosmo è governato da un Creatore benevolo; il male serve solo a esaltare il bene; l'osservazione della natura e la lettura della Bibbia bastano a suggerire le verità accessibili all'intelletto umano, sospeso tra la consapevolezza delle sue limitate capacità e la certezza dell'immensa trascendenza e onnipotenza divine.
Come intendere i numerosi passi della Scrittura in cui si parla del peccato dei progenitori e dei castighi che Dio impone o minaccia come conseguenza di questa catena di peccato che si perpetua da quell'evento in poi? Yannaras afferma che la caduta dell'uomo è una verità non semplicemente giuridica, ma è una perversione della vita, a cui Dio reagisce non come un giustiziere che punisce, ma rispettando in maniera assoluta la libertà dell'uomo. Non interviene per distruggere i frutti, per quanto amari, della libera scelta fatta dall'uomo, ma per trasformare l'autocastigo dell'uomo in una pedagogia salvatrice.
Un lungo e intenso "corpo a corpo" con Platone: è questa la cifra caratteristica del pensiero di Adriana Cavarero. Il volume lo rivela attraverso una serie di scritti introvabili o mai apparsi in italiano, un inedito e altri testi cruciali dedicati al grande allievo di Socrate. Al lettore viene offerto un viaggio appassionante sulle tracce di Platone, che non rappresenta solo un riferimento costante della filosofia di Cavarero ma anche il vero e proprio fil rouge con cui l'autrice intesse molteplici trame. La filosofia classica si intreccia qui con la riflessione politica e con la teoria femminista, come pure con la letteratura, la musica e l'arte. Il risultato è un confronto profondo e al tempo stesso ironico e irriverente con il padre della filosofia occidentale.
Può un robot riuscire a leggere i segnali sociali umani e rispondere in modo convincente? Può comunicare attraverso le emozioni? Uno dei settori emergenti dell’intelligenza artificiale, la robotica sociale, sta trasferendo queste domande dalla science-fiction alla ricerca teorica e applicativa. I robot prodotti da questa disciplina sono macchine ideate per interagire con gli umani in modi socialmente significativi, ricoprendo ruoli quali il mediatore educativo, l’assistente ad personam o l’aiuto-infermiere. Paul Dumouchel e Luisa Damiano propongono un’esplorazione filosofica delle frontiere odierne della robotica sociale, mettendone in luce i presupposti teorici e gli sviluppi sperimentali che aprono nuove strade per pensare la mente, la socialità e l’emozionalità umane. Percorrendo queste direttrici, gli autori entrano nel dibattito delle scienze della mente e dell’intelligenza artificiale, sviluppando un approccio innovativo alle sfide etiche imposte dal progetto di farci affiancare da partner sociali artificiali.
Scriveva Leopardi nelle Operette morali: "Un uomo fatto all'antica" è un uomo "dabbene e da potersene fi dare". Oggi questa immagine virtuosa è andata smarrendosi. Attribuire tale qualità morale a qualcuno può signifi care accusarlo di essere un conservatore, se non un reazionario. Nel migliore dei casi, si è tacciati di non stare "al passo con i tempi", di non saperne vedere i vantaggi. Questo libro mostra invece che l'essere all'antica implica alcune delle nostre qualità migliori. Fra queste, la sensibilità per le memorie personali e altrui, per la conoscenza storica, per virtù e valori che paiono dimenticati. E poi, si è tali per modi di fare, parlare, desiderare, non volti nostalgicamente al passato ma orientati a sentimenti in controtendenza, ostili verso ogni forma di volgarità. Piuttosto propensi alla pratica della lealtà, della generosità, dell'amicizia. L'essere all'antica, su cui il libro sfata i pregiudizi più frequenti, arricchisce e non sminuisce il nostro modo di esistere. Per non vivere di solo presente e non esserne troppo contagiati.
Il tempo che stiamo vivendo si fa spesso opaco, a tratti buio. Accade quando si perde l'attenzione per le cose davvero importanti. La pratica della cura è fondamentale per la vita: avere cura di sé, degli altri, delle istituzioni, della natura. Senza cura non può esistere una vita buona per l'essere umano. Ma in una cultura neoliberista la cura non trova la dovuta considerazione. Quando le essenziali attività di cura - quelle che procurano ciò che nutre la vita, quelle che riparano le situazioni difficili, quelle che edificano mondi - non trovano il giusto riconoscimento, la politica si inaridisce, perde la capacità di promuovere una vita pienamente umana. È tempo che la politica si ripensi daccapo per diventare una politica della cura.
Perché ci prendiamo cura degli altri anche quando non siamo legati da rapporti personali? Perché lottiamo per la giustizia anche quando non ci riguarda direttamente? Quali sono, insomma, i fondamenti motivazionali che ci spingono ad agire eticamente e ad adottare comportamenti socialmente empatici? La risposta a questa domanda richiede di interrogarsi sul ruolo delle passioni, per gettare un nuovo sguardo sui due paradigmi nei quali si riassume di fatto la proposta etica del nostro tempo. Partire dalle passioni (come invidia e indignazione, paura e compassione, risentimento e amore), purché affrancate da ogni sospetto di irrazionalità, ci consente in primo luogo di pensare un'idea di giustizia diversa da quella che fonda il paradigma razionalistico corrente, per mostrarne piuttosto i fondamenti affettivi e distinguere tra pretese legittime e pretese illegittime di giustizia. In secondo luogo, ci consente di sottrarre la cura a una visione altruistico-assistenziale per mostrarne, insieme alla complessità emotiva non priva di aspetti perturbanti, le potenzialità di una forma di vita. Infine, permette di riaffermare, contro ogni riduzione unilaterale, la complementarità tra le due prospettive etiche, tanto più necessaria quanto più esse sono chiamate a misurarsi con le sfide radicali del nostro mondo globale: prima fra tutte, l'ampliamento dell'idea stessa di altro attraverso le due figure inedite dell' altro distante nello spazio (lo straniero, il diverso) e dell' altro distante nel tempo (le generazioni future). Muovendosi attraverso i grandi classici della «simpatia» (Hume e Smith), la riflessione filosofica del Novecento (da Anders a Jonas, da Arendt a Derrida, da Mauss a Ric?ur) e il dibattito contemporaneo (da Rawls a Sontag, da Gilligan a Nussbaum, fino a Foucault e Sloterdijk), Elena Pulcini si chiede quali passioni presiedano alla lotta contro l'ingiustizia e quali alimentino la capacità di una buona cura, confidando nella genesi di un soggetto emozionale: un soggetto che attraverso la dinamica interminabile della relazione con l'altro, sappia distillare dalle passioni la qualità etica e generativa capace di promettere un mondo migliore.
L'affermarsi della razionalità scientifica e della pratica tecnica in tutti i domìni del vissuto sono l'aspetto caratterizzante della nostra cultura, l'"ambiente" nel quale ci troviamo a vivere e ad agire. Lo sviluppo scientifico-tecnico, dalla modernità fino ai giorni nostri, ha prodotto un effetto di sradicamento e di destabilizzazione: l'uomo non è più davanti a una realtà stabile alla quale può rapportarsi, bensì a una realtà incompiuta che egli stesso quotidianamente trasforma. L'universo non è più un 'cosmo', ma un mondo penetrato dall'azione dell'uomo che, pertanto, è chiamato a riflettere sempre di nuovo sulla propria incidenza e responsabilità. Tale situazione determina un maggior rilievo dell'etica, posta di fronte a problemi inediti. Scienza ed etica sono entrambe "dimensioni" dell'esistenza. In quest'opera, Jean Ladrière, mostra come l'etica sia dimensione originaria dell'esistenza, ma esistenza e azione si svolgono in un orizzonte che non è più solo il "mondo della vita" né solo il mondo della natura: è il "mondo degli artefatti", prodotto dal nostro intervento scientifico-tecnico. La scienza e le sue molteplici applicazioni tecniche sono un aspetto determinante con il quale bisogna fare i conti, non per esorcizzarlo, ma per meglio comprenderlo nelle sue potenzialità e nei suoi limiti, affinché l'intervento dell'uomo nel mondo sia veramente azione umana, libera, ragionevole e responsabile.
Il tema della natalità si pone come crocevia di molte tematiche arendtiane, a cominciare da quelle che riguardano il significato della vita politica, per passare attraverso i temi dell'identità, delle relazioni, del dolore, dell'amicizia, della promessa e del perdono. Il testo di Alessandra Papa percorre le questioni del rapporto tra il venire al mondo e il vivere nel mondo attraversando le opere di Hannah Arendt, e prestando particolare attenzione anche a quegli aspetti meno frequentati del suo pensiero, come le note a margine, le metafore, cioè quei riferimenti che la pensatrice chiama analogie congelate. Ne esce un quadro articolato, in grado di interagire con molte pagine della tradizione filosofica occidentale, interpellate attraverso la riflessione della stessa filosofa tedesca. Il risultato di questo lavoro non è soltanto quello di restituirei una lettura più complessa ed articolata del rapporto tra natalità e politica in Arendt, ma quello di fornire elementi teorici per una rilettura della questione antropologica nell'epoca in cui la politica ha la tentazione di “mettere le mani” sulla vita e diventare biopolitica.
«Più si teologizza, meglio si filosofa»: con queste parole Emmanuel Falque guida il lettore nel metaforico "passaggio del Rubicone", che conduce dalla riva della filosofia a quella della teologia sconvolgendo i canoni tradizionali del rapporto tra le due discipline. Mettere in dialogo questi versanti opposti - nel tentativo di innovare un'antica tradizione che affonda nel pensiero medievale e ha vari sviluppi nell'età contemporanea - significa predisporsi a una loro nuova comprensione, alla scoperta della potenza euristica di questi diversi e autonomi ambiti del sapere, dove l'uno arricchisce l'altro. Una prospettiva che conduce al superamento del ruolo ancillare della filosofia rispetto alla teologia e alla liberazione della teologia tramite la filosofia, con l'audacia che caratterizza la svolta teologica della fenomenologia francese nel suo aprirsi alle tematiche religiose. La proposta di Falque è una originale ermeneutica cattolica che si pone in dialogo con Husserl, Heidegger, Ricoeur, Lévinas, Merleau-Ponty, Derrida, Rahner, von Balthasar, Bultmann, de Lubac, e ruota attorno ai temi del "corpo", della "voce", del "Kerigma" e del "credere". La "decisione per la fede" è il timbro del suo pensiero: un sapere filosofico-teologico "trasformante".