
Pubblicato nel 1960, Finitudine e colpa è con Verità e metodo di Gadamer il testo che inaugura l'"âge herméneutique", un'età che ha fatto dello statuto dell'interpretazione una questione dirimente per la filosofia. L'ermeneutica in quest'opera si presenta come decifrazione dei simboli e dei miti attraverso i quali è stata fatta esperienza, nelle tradizioni greca e biblica, dell'enigma del male. Simboli primari (impurità, peccato, colpevolezza) declinati nei miti del "principio e della "fine" e caratterizzati da una duplicità di senso. Di qui la definizione della ermeneutica come dialettica tra senso letterale e senso profondo dei simboli. Un modello posto sotto il motto «il simbolo dà a pensare». Sta in ciò la classicità di Finitudine e colpa: Ricoeur ha fatto del male - delle sue condizioni simboliche di possibilità - la cosa stessa della filosofia. E ha giustificato - come fosse una «seconda rivoluzione copernicana» - la legittimità dell'ermeneutica: essa è il cammino della ragione, attraverso il conflitto delle interpretazioni, per render conto del male che è già lì, e resta opaco al rischiaramento. Un compito «mai finito di distruggere gli idoli, al fine di lasciare parlare i simboli».
Come ha scritto Jacob Taubes, nelle pagine de "La fine di tutte le cose" l'opera forse più ingiustamente trascurata dell'ultima fase della vita del grande maestro di Konigsberg - Kant conduce l'ambizioso progetto filosofico di "tradurre le dichiarazioni metafisiche dell'escatologia cristiana in una sorta di escatologia trascendentale". L'escatologia trascendentale ruota attorno a un duplice interrogativo: perché, in generale, gli uomini si aspettano una fine del mondo? E se questa viene anche loro concessa, perché proprio una fine che, per la maggior parte del genere umano, fa paura? Per Kant l'antica profezia apocalittica di San Giovanni prefigura, in simboli e immagini, il limite estremo della stessa attività del pensare, delineando la struttura paradossale di un "concetto con cui, al tempo stesso, l'intelletto ci abbandona e, addirittura, ha fine ogni pensiero".
Secondo un ricorrente adagio la storia è finita; chi propugna questa tesi vede nell'accelerarsi degli eventi, nel contrarsi delle epoche come spazi unitari di senso e nel prevalere della dimensione della simultaneità sulla sequenzialità, altrettanti argomenti a favore di essa. Alla fine del mondo storico si accompagna inesorabilmente la fine dell'uomo come centro di imputazione di scelte e come donatore di senso, le azioni dei singoli non veicolando più alcuna sintesi o incarnando alcun universale, ma riducendosi a puro medium di un operare sistematico anonimo e reticolare. Anche il fondamento della democrazia muta.
Con il Filottete, per la prima volta rappresentato ad Atene nel 409 a.c. la Fondazione Valla da inizio all'edizione completa delle tragedie e dei frammenti di Sofocle. I testi critici delle tragedie sono a cura di Guido Avezzù e di Andrea Tessier, le traduzioni di Giovanni Cerri e di Bruno Gentili, i commenti di otto studiosi: statunitensi, inglesi e italiani. Quando la scena si apre, Odissee e Neottolemo sono appena giunti a Lemno. Filottete vive in una grotta, dove intravediamo un giaciglio di foglie, una coppa di legno malamente sbozzata, tracce di un falò, e i suoi poveri stracci stesi al suolo, "sporchi di brutta cancrena". Dieci anni prima, i Greci l'hanno abbandonato lì, per la sua piaga purulenta al piede. Nessuno è più solo e sventurato di lui: nessuno così nobile, innocente e ingenuo, sebbene abbia conosciuto tutti i mali della vita. Egli ha commesso una colpa, violando il territorio sacro del santuario di Crise: la dea l'ha punito col morso di un serpente; ma non sapremo mai se la sua sia davvero una colpa. Il dolore di Filottete è intollerabile:
mai incontriamo, nella tragedia greca, il divino che agisce così tremendamente su un corpo umano.
Odissee sa che Troia non può cadere senza l'arco di Filottete, e vuole ingannare l'eroe col soccorso di Neottolemo. L'inganno viene deluso: Neottolemo ricorda il padre, Achille, e rifiuta l'insidia e la corruzione di Odisseo. Alla fine della tragedia, Eracle discende sulla scena: in apparenza, è un lieto fine; Filottete è salvo, sebbene Sofocle non ci spieghi i misteri della provvidenza divina e quelli del dolore umano.
Nel Filottete, Sofocle è un maestro di ironia tragica. Dovunque, egli rivela la traccia dell'invisibile e del divino, che penetra tutte le cose; e subito dopo ne mostra la natura inesplicabile. I segni divini - se pur sono tali - sono deboli, incerti, oscuri: gli avvenimenti si succedono per il gioco del caso o di una finalità che non appare mai evidente. Sebbene gli dei siano possenti, sono visibili solo nel loro mistero. I personaggi umani vivono chiusi nella sfera dell'apparenza: anche quando la verità splende loro sul volto, non la vedono o la scambiano per una illusione.
Apparso per la prima volta nel 1766, il 'filosofo ignorante' inscena il libero indagare di una ragione che, ben consapevole dei propri limiti e della propria inadeguatezza a comprendere i più alti segreti dell'universo, si rivolge alla filosofia per trovare le risposte che va cercando.
Un'opera che affianca alla storia del pensiero occidentale quella altrettanto ricca ma meno esplorata delle culture non europee, presentando i contributi dei maggiori studiosi della filosofia islamica, del mondo ebraico, della tradizione latino-americana, del continente africano, dell'India, dell'Estremo Oriente e del Pacifico. Vero e proprio atlante del pensiero, questo libro offre uno strumento rigoroso ma accessibile per il dialogo interculturale che il mondo contemporaneo ci obbliga ad affrontare: risalendo alle radici delle più significative tradizioni culturali, restituisce tutta la ricchezza della trama di corrispondenze che ha dato forma al pensiero umano come lo conosciamo oggi.

