
Le logiche modali costituiscono un'estensione della logica classica. Vengono impiegate per studiare gli enunciati e le inferenze in cui compaiono espressioni quali 'è necessario che' e 'è possibile che', dette appunto operatori modali. A partire dal lavoro di logici e filosofi quali Rudolf Carnap, Saul Kripke e David Lewis, questo libro offre un'introduzione chiara e completa alla disciplina.
"Nel corso delle feste Scire, un gruppo di donne, capeggiate da una di loro, Prassagora, particolarmente dotata di carisma e capace di pilotare un gruppo bene organizzato e proteso all'azione politico-assembleare, ha deciso di partecipare ai lavori dell'assemblea popolare. Naturalmente in quanto donne non potrebbero, perché la democrazia ateniese, come ogni società premoderna, è maschiocentrica. Perciò si travestono da uomini, con barbe, mantelli e sandali adeguati al ruolo." Questo libro ha al centro una commedia di Aristofane il commediografo, irriducibile a schemi preconcetti e a schieramenti partitici. La sua commedia, Le donne all'assemblea, ha di mira un progetto di riforma radicale della società che trova rispondenza con sorprendente puntualità nel nucleo più audace della Repubblica di Platone. Nella commedia, Aristofane ridicolizza l'idea che si possano mettere in comune le ricchezze e le relazioni sessuali; al contrario Platone ne fa l'oggetto di uno dei suoi dialoghi più importanti e influenti. È un conflitto paradigmatico sull'utopia, sulla possibile costruzione dell'uomo nuovo, sulla realizzabilità di un assetto sociale totalmente innovativo, fondato - secondo l'intuizione platonica - sulla proprietà collettiva, o meglio sulla negazione della proprietà, e sulla cancellazione dell'istituto familiare con tutto il suo carico di egoismi. Più in generale, su una palingenesi complessiva di cui l''uomo nuovo' è o dovrebbe essere il risultato.
Chi avrebbe supposto che zoppia e mancinismo - oltretutto associati nella stessa figura ideale - venissero portati a vanto del pensiero in atto, come le sue insegne più onorifiche? A compiere il gesto di giustizia che li riscatta dalla difettività è Michel Serres, epistemologo ultraottantenne così intrigato dall'attuale sconvolgimento del sapere da farsene il supremo cantore, con un'euforia lungimirante e contagiosa, con un'audacia concettuale ignota ai colleghi giovani o a chi rimane abbarbicato a un "umanesimo di opposizione", e con uno stile ruscellante evocatore di mondi, al pari di Lucrezio. Alle idee astratte Serres preferisce da sempre le figure sintetiche. Il mancino zoppo è l'eroe dell'"età dolce", la nostra, che nella riconfigurazione digitale dello spazio-tempo si lascia alle spalle la "dura" rigidità euclidea, cartesiana, metrica, abitando la dimensione utopica del possibile e recuperando il concreto attraverso il virtuale. Ma è anche il simbolo vivo di ogni lavorio della mente degno di questo nome, dalla notte dei tempi: pensare vuol dire infatti deviare dai tracciati, avanzare di traverso e un po' sghembi, rompere le simmetrie, afferrare il segreto di ciò che sarà domani con la stessa "formidabile inventiva dell'Universo in espansione". No, non c'è posto per il già formattato, secondo Serres. "Non conosco alcun metodo che abbia mai aperto la strada a qualche invenzione; né alcuna invenzione trovata con metodo".
Si tratta del più completo lavoro che concerne l'Epistemologia Genetica e che insieme a "Biologie et Connaissance" rappresenta le posizioni che Jean Piaget ha assunto nei confronti del problema della costruzione delle conoscenze. Gli scritti piagetiani riportati in questo lavoro sono parte di una vasta opera di 1345 pagine, nella quale hanno scritto alcuni tra i più illustri rappresentanti di varie discipline: dal premio nobel per la fisica Louis de Broglie a Seymour Papert, da Jean-Blaise Grize a Pierre Greco e molti altri studiosi del periodo compreso tra il 1950 ed il 1970. Le pagine di Piaget rappresentano un ottimo raccordo tra le varie forme di conoscenza discusse ed allo stesso tempo propongono un metodo per realizzare un modo nuovo di intendere la conoscenza, fondandola sulle nozioni di complessità, costruzione e dialettica. Da questo punto di vista il presente lavoro, dato alle stampe nel 1967, si rivela ancor oggi di una sorprendente attualità, fornendo suggerimenti ed interessanti ipotesi di lavoro.
Le sfide contemporanee, derivanti dall'incontro plurale fra le culture, impongono un ripensamento dei modi in cui le religioni concorrono al progresso spirituale dell'uomo. A quale spazio possono ambire, nel discorso politico, le religioni? E, prima, possono pretenderne uno? Una laicità temperata, tollerante e fertile non può che passare per il dialogo inclusivo, unica via per mettere fuori gioco ogni dogmatismo, senza con ciò perdere quello che di buono la sensibilità religiosa può ancora offrire al pensiero umano.
In questo saggio breve Caffo prende spunto dal celebre "aforisma 115" che Nietzsche scrisse ne La gaia scienza, l'aforisma chiamato "i quattro errori": 1) che l'uomo si vede sempre e solo incompiutamente; 2) che l'uomo si attribuisce qualità immaginarie; 3) che l'uomo si sente in una falsa condizione gerarchica rispetto alla natura e agli animali; 4) che l'uomo inventa sempre nuove tavole di valori considerandole per qualche tempo eterne e incondizionate. Attraverso la rilettura di questi quattro errori fondamentali, a cui viene dedicato un capitolo ciascuno, Leonardo Caffo vuole spingersi oltre l'antropocentrismo e il superomismo verso una nuova e imponente immagine dell'umanità del futuro. Del destino umano è una brillante rilettura della filosofia nietzschiana che sorprende per la capacità di interpretare in modo lucido ed efficace le esigenze e i problemi della nostra contemporaneità e per immaginare un'umanità futura possibile e diversa da quella attuale. L'"impresa" filosofica di Caffo è allora quella di ridisegnare, a partire da Nietzsche ma in un certo modo superandolo, una figura umana "uguale e contraria" a quella del superuomo: il tentativo di costruire una "condizione postumana" capace di andare oltre il nichilismo e l'individualismo.
Il terzo volume delle Opere di Sini (La scrittura e i saperi) è interamente dedicato al nodo che stringe le forme, i supporti e i contesti delle pratiche di scrittura ai saperi che in esse si costruiscono e istituiscono. In questo primo tomo (L'alfabeto e l'Occidente) è documentato il cammino genealogico attraverso il quale, tra gli anni Ottanta e i Novanta, l'autore è giunto a formulare una delle tesi più note e originali della sua filosofia: l'esercizio della scrittura alfabetica, con le sue specificità rispetto a ogni altra modalità grafica, è la condizione pratica che ha reso possibile la nascita dei saperi concettuali e "desomatizzati", su cui si fonda la nozione occidentale di verità. Il percorso verso tale nozione di verità, che è il centro dell'intera enciclopedia filosofico-scientifica, è ricostruito da Sini nei suoi passaggi cruciali, dal mondo dell oralità alle civiltà della scrittura, fino alla "invenzione" dell'alfabeto e alla nascita della "mente logica" come luogo in cui emergono i tratti di una episteme universale: anelito incompiuto, istanza illusoria o concreto esito planetario di quell'Occidente che, oggi quanto mai, chiede di essere nuovamente interrogato, nella sua determinatezza storica e nelle sue - troppo spesso obliate - operazioni fondative. Il ricco apparato delle Appendici raccoglie saggi e articoli che documentano la vastità di orizzonti entro i quali Sini ha condotto la sua indagine intorno alle diverse pratiche di scrittura.
Carl Schmitt è ancora oggi un pensatore che divide, ma è indubbio che nessuno come lui sia stato capace di pensare rotture e instaurazioni dell'ordine politico e giuridico. Jean-Francois Kervégan "riparte" da Cari Schmitt in due modi, da un lato prendendone congedo quando necessario, dall'altro cogliendo i concetti che ci aiutano a reinterpretare il mondo contemporaneo: perché Schmitt, dalla sua posizione esterna e anche ostile nei riguardi dei presupposti delle nostre riflessioni sulla società moderna, ci aiuta a comprenderne le contraddizioni e ad affrontarle meglio.
Mai forse Paul Ricoeur aveva affrontato un campo così vasto come in quest'opera. Egli stesso definisce la problematica del presente volume "il carattere temporale dell'esperienza umana". L'autore così precisa: "Esiste tra l'attività di raccontare una storia e il carattere temporale dell'esperienza umana una correlazione necessaria e universale. In altri termini il tempo diviene 'tempo umano' nella misura in cui è articolato in un racconto; e d'altro canto, il racconto raggiunge il suo pieno significato quando diviene una condizione dell'esperienza temporale. Il tempo è un aspetto dei movimenti dell'universo. Se non ci fosse nessuno per contare gli intervalli non ci sarebbe tempo. L'attività del racconto consiste nel costruire degli insiemi temporali: configurare il tempo". La storia è dunque protagonista della teoria della narratività esposta in questo primo volume. Tempo e racconto si apre con una doppia prospettiva: la prima ci porta verso la meditazione sul tempo di sant'Agostino, la seconda verso la teoria del racconto di Aristotele. Le due prospettive vengono tessute dall'autore in una trama di pensiero che dall'affermazione secondo cui il tempo umano è sempre un tempo raccontato si apre ai sentieri della comprensione del racconto nella sua doppia veste di storia e di fiction.
Più di altri sommi filosofi del Novecento nei quali la vulgata ci ha abituati a contrapporre una "prima" e una "seconda" maniera, Ludwig Wittgenstein è finito ingessato nella discontinuità tanto conclamata dai suoi esegeti. Fra il Tractatus logico-philosophicus, unico libro pubblicato in vita, e la massa degli scritti postumi su cui svettano le Ricerche filosofiche, si è instaurato uno schema oppositivo che talora appanna, invece di illuminare, lo sviluppo e gli esiti di una riflessione di enorme presa sul pensiero contemporaneo. Anthony Kenny, che di Wittgenstein è finissimo conoscitore, preferisce movimentare questo quadro interpretativo: compie una ricognizione che entra in ogni aspetto dell'opera filosofica, ne discrimina le fasi, gli stili concettuali contrastanti, le ascendenze, gli spostamenti speculativi dall'atomismo logico ai giochi linguistici, dalla natura del linguaggio al suo rapporto con gli stati mentali e le forme di vita -, e riesce nell'intento di elucidazione delle sostanziali differenze anche grazie a una lettura continuista, che rileva i capisaldi mai abbandonati. Innanzi tutto la concezione della filosofia non come insieme di teorie o di risposte ai grandi quesiti esistenziali, bensì come attività di chiarimento delle proposizioni non filosofiche intorno al mondo, per prevenire gli sviamenti del linguaggio ordinario. Un compito terapeutico, la cui finalità è sciogliere i "nodi del nostro pensiero che noi stessi abbiamo intrecciato procedendo per non-sensi".
Grida d'allarme e inviti alla speranza si alternano spesso tra i lettori di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). La filosofia politica e le stesse esperienze di vita del Ginevrino, secondo recenti interpreti, all'inizio come alla fine del ciclo delle rivoluzioni, hanno costituito fonte di ispirazione per ipotesi secolariste e totalitarie. Augusto Del Noce - in questo testo del suo corso universitario del 1978-79, da lui personalmente rivisto e approvato - suggerisce che l'opera di chi studia un classico è come il restauro della platonica statua di Glauco, il dio marino sfigurato dall'infuriare delle tempeste. Occorre togliere una ad una le incrostazioni, attraversando la "selva selvaggia" dei commenti. E il lavoro che Del Noce propone nella interpretazione rousseauiana che torna qui in luce, con una rinnovata attualità affascinante sia per gli specialisti che per il comune lettore. A queste lezioni si aggiungono le ultime del 1981-82 su Antonio Rosmini: la rivendicazione di una natura umana che è insieme razionale e sociale ne fa, secondo Del Noce, un sorprendente analista della società civile, l'autentico filosofo del personalismo e un punto di riferimento nella critica di un pensiero, come quello di Rousseau, di cui il Roveretano intravede il percorso inevitabile, dal perfettismo alla decadenza.
La sfida di questo saggio è percorrere la vicenda del pensiero filosofico considerandolo come lo snodarsi di un racconto che ha qualcosa da dire a tutti. Non dunque un'esposizione erudita e analitica dei diversi sistemi di filosofia considerati come tasselli di una disciplina specialistica, ma il tentativo di individuare per ciascun autore il fulcro della sua proposta, quella parola attorno a cui le sue riflessioni si sono affaticate e che egli ci ha voluto trasmettere. Così facendo, la filosofia diviene il fluire variegato di grandi prospettive di senso, capaci ciascuna ancora oggi di interpellarci. Essa è un racconto a più voci a noi rivolto. Ma perché ciò avvenga, chi ne dà conto e chi vi si accosta devono sentirsi partecipi di questa drammaturgia complessiva, in cui ognuno è chiamato a osare a sua volta una propria personale prospettiva.