
Una vita normale, quella del ragionier Mario Rossi, contabile in una ditta di imballaggi a Scandicci. Un’esistenza tranquilla, scandita dal tran tran quotidiano, una moglie, due figli, le domeniche in collina o al cinema se piove. Un tran tran che l’ha portato, quasi senza accorgersene, a sessantatré anni, alle soglie della pensione. Eppure, negli ultimi giorni, qualcosa sembra tormentarlo, un’insoddisfazione di fondo, un malumore che nemmeno lui sa spiegarsi, una specie di rabbia, di rivalsa contro il mondo. Ma poi, un venerdì sera qualsiasi, un evento tragico sembra aprire a Mario tutte le porte rimaste chiuse, tutte le meravigliose possibilità prima solo intuite e vagheggiate. E la sua mente si affolla di fantasie, mescolate a episodi dell’infanzia lontana, sempre più pericolosamente vicino a quel confine labile che separa il malessere dall’orrore.
Dall’autore del commissario Bordelli, la storia «nera» di un uomo come tanti, desideroso di indipendenza ma condannato a non viverla.
In un mondo pericolosamente vicino al nostro, la Creatura si è sostituita al suo Creatore e, grazie all’ingegneria genetica, ha stravolto la Natura. La fede nella scienza è ormai un credo assoluto, integralista, fanatico. Tutto si vende, tutto si compra – l’identità, il sesso, la giovinezza – ma a che prezzo? Eppure c’è chi ha deciso di sottrarsi a questa logica perversa e distruttiva: è la setta dei Giardinieri di Dio. Novelli Adami e Eve, vivono nel sacro rispetto delle Specie animali e vegetali del pianeta sfuggite all’estinzione, cercando di convertire gli altri esseri umani in vista dell’imminente catastrofe.
Anno venticinque del calendario dei Giardinieri di Dio: la profezia si è avverata, un Diluvio Senz’Acqua si è abbattuto sul pianeta, l’umanità è decimata. Un quadro desolante, in cui però si apre un flebile spiraglio: due voci, quelle di Toby e Ren. Un tempo adepte dei Giardinieri di Dio, si ritrovano catapultate in un mondo stravolto e scoprono che la lotta per la sopravvivenza è appena iniziata. Armate unicamente dell’amicizia che le unisce e animate dal desiderio di ritrovare i compagni di un tempo, si avventurano in un coraggioso viaggio, costellato di pericoli a ogni angolo. Che ne sarà di loro? Faranno sorgere una nuova alba per la specie umana, oppure ogni speranza di vita è ormai perduta per sempre?
Durante il calvario degli armeni negli anni della prima guerra mondiale, attraverso la sua personale odissea, la bambina diventa adolescente, diventa donna, e forma il suo carattere e il suo destino affrontando la fatica insensata di continuare a percorrerla, quella strada infinita che porta verso il nulla, verso un destino ignoto che non è più nelle sue mani: eppure esiste, chiude nel fondo del cuore le ferite e i ricordi che più fanno male, e riesce a misurarsi con ogni disavventura.
Una notte d'estate alla fine degli anni Sessanta. Charlie, un ragazzino di tredici anni, non riesce a dormire, quando un colpo alla finestra lo strappa dalle sue amate letture. Fuori c'è Jasper Jones, e Charlie lo conosce bene. Solitario, ribelle, spesso emarginato, Jasper Jones rappresenta il fascino del rischio e del pericolo. Quella notte Jasper ha bisogno d'aiuto, e Charlie non ha scelta, deve seguirlo nel buio. Jasper Jones ha una terribile reputazione. È un Ladro, un Bugiardo, un Delinquente, un Perdigiorno. È pigro e inaffidabile. È un selvaggio e un orfano, o almeno cosi pare. Sua madre è morta e suo padre beve molto e lavora poco. È la pietra di paragone in negativo che i genitori usano come avvertimento: Ecco come finirai se disobbedisci. Charlie invece è un ragazzino fortunato, ha una bella casa, una stanza tutta per sé, dei genitori che lo amano. Magari non è bravo nello sport, ma a scuola è tra i più brillanti. In quell'estate bollente, ha scoperto un mondo nuovo pieno di personaggi straordinari, come Atticus Finch de "Il buio oltre la siepe", Sal Paradise di "Sulla strada", che "maneggia le bottiglie di whisky come una casalinga nella pubblicità di un detergente" e Holden Caulfield, sempre pronto a farsi consolare da una sigaretta. Jasper e Charlie affrontano l'oscurità e la cittadina deserta, costeggiano il fiume e arrivano in una radura ben protetta, tra gli alberi del bosco.
Maeve Brennan (1917-1993), nata a Dublino, ha vissuto fin dall’adolescenza negli Stati Uniti. Bellissima e inquieta, ha pubblicato sul “New Yorker” racconti tra i più ammirati della sua epoca, prima di perdersi in anni di solitudine e depressione. BUR ha pubblicato La visitatrice (2005) e Il principio dell’amore (2006).
I fuggiaschi avanzavano sempre
di notte, nel gelo, per paura dei posti
di blocco cinesi. L’unica luce sul loro
cammino erano le stelle, oppure,
poco prima dell’alba, ma solo allora,
la luna nuova. Le montagne colossali
si stagliavano nere contro un cielo
scuro, solo qua e là si indovinavano
chiazze di neve, pareti rocciose
e brandelli di nubi.
“Quando l’uccello di ferro solcherà i cieli e i cavalli avanzeranno su ruote, il popolo dei tibetani si spargerà per il mondo come le formiche, e la dottrina del Buddha raggiungerà la terra degli uomini rossi”: quest’antica profezia risuona finalmente chiara quando la Cina invade il Tibet e tenta di sradicarne la cultura secolare. Mola e il marito Tsering, entrambi monaci, non possono accettare la violenta repressione dei culti che praticano da sempre e sfidano in pieno inverno le nevi dell’Himalaya per raggiungere il Dalai Lama nel suo esilio indiano. Poco cibo sulle spalle, abiti leggeri e due bambine al seguito — una delle quali muore nella fuga — è tutto quello che hanno con sé. Ad accoglierli, un Paese in fermento, poverissimo, che riserva loro solo miseria e lavori pesanti per sopravvivere. E infine il trasferimento in Svizzera, la promessa di una vita nuova e la timida scoperta del mondo occidentale. Yangzom Brauen, ultima erede di questo viaggio, ripercorre l’epopea della sua famiglia attraverso la vita di due donne: la nonna Mola, monaca e madre dalle mille risorse, che ha conosciuto la morte da bambina, ha scelto la meditazione da ragazza e da allora è diventata la tenace depositaria di un antico buddismo popolare destinato a sparire con la sua generazione; e Sonam Dölma, sua figlia, che giovanissima abbandona la realtà che conosceva per seguire il futuro marito. Dai loro ricordi Yangzom ha imparato ad amare un Tibet ormai scomparso — quello delle capanne di frasche degli eremiti, delle lampade a burro, del fumo delle offerte che si innalza verso il cielo dai monasteri in alta quota — ma che si è impresso come una ferita aperta nella memoria di chi l’ha vissuto e nella coscienza di un popolo ancora in lotta per salvarlo.
Yangzom Brauen (1980) è un’attrice, modella e attivista pro Tibet. Figlia di una profuga tibetana e di un etnologo svizzero, è cresciuta a cavallo tra due culture, tra l’Europa e il retaggio buddista della sua famiglia. Oggi vive tra Los Angeles, New York, Berlino e Zurigo, lavorando nell’industria
Ottobre 1910: Tolstoj, ottantaduenne, abbandona segretamente la tenuta di Jasnaja Poljana e, in compagnia della figlia Aleksandra e del dottor Makovickij, parte in incognito su un vagone di seconda classe; ma un malore colpisce il grande vecchio, e i tre fuggiaschi sono costretti a fermarsi ad Astapovo, dove il capostazione mette a disposizione dell’illustre infermo il proprio modesto alloggio. Nel giro di poche ore la stazioncina sperduta «alla periferia dell’impero» diventa «il centro del mondo»: l’afflusso di corrispondenti delle maggiori testate russe, di fotografi e cineoperatori è infatti massiccio e tempestivo. E proprio alla stampa spetterà il ruolo principale nella vicenda: se è vero infatti che anche i minimi dettagli di quell’agonia ci sono noti proprio grazie agli articoli e alle immagini giunti fino a noi, è altrettanto vero che la carta stampata condizionò la drammaturgia stessa della vicenda, determinandone, in certo qual modo, la singolarità – a tratti surreale e allucinatoria. Nei decenni successivi alla morte di Tolstoj molti dei suoi discepoli e quasi tutti i suoi figli sentirono il bisogno di pubblicare testi memorialistici e spesso risentitamente polemici, con l’intento di ristabilire la « verità» sulla fine dello scrittore e sulle ragioni della sua fuga. Il libro di Vladimir Pozner taglia di netto il nodo delle contrastanti versioni tornando ai nudi fatti, ricostruiti con precisione maniacale sulla base di un corpus sterminato di documenti inediti (dispacci telegrafici, corrispondenze, bollettini medici), che vengono ampiamente integrati a stralci dalle lettere e dai diari di Tolstoj e della moglie Sof’ja, nonché da altri testi (memorie, saggi, opere letterarie), con una tecnica combinatoria squisitamente cinematografica.
«È il primo e il più grande di tutti i racconti della nostra tradizione in dialetto napoletano, non solo perché ne è il fondamento, ma perché ne segna anche il punto più alto. Infatti non è una raccolta di fiabe anonime come ce ne sono tante, ma di racconti fiabeschi e fantastici di un unico autore dotato di genio e di grande versatilità ... è il "cunto de li cunti" della plebe napoletana, un'opera letteraria di prim'ordine, ed è l'humus culturale da cui ancor oggi attingono linfa e ispirazione molti scrittori napoletani» (Raffaele La Capria).
Un romanzo che fa rivivere 70 anni della storia di Gerusalemme e del suo popolo. Sul background, che è fedele ai fatti storici, si sviluppa con maestria un efficace plot narrativo. L’ebreo Beniamino, raccontando la sua vita e quella della sua famiglia, parla anche di tutte le vicende storico-politiche che portarono alla presa di Gerusalemme da parte dei Romani nell’anno 70 d.C. La famiglia, la crescita, l’amore, il sesso, il culto e le celebrazioni liturgiche, gli ebrei, gli zeloti, i cristiani e la strana sparizione di un mantello dal Tempio: questi e tanti altri i temi trattati in poco più di cento pagine che si leggono d’un fiato.
“Una gemma ... un po’ romanzo, un po’ cronaca, un po’ inchiesta, sempre poetico, dolcemente malinconico come una ballata russa.”
Enrico Franceschini, La Repubblica
La notte tra il 27 e il 28 ottobre del 1910 Lev Nikolàevic Tolstoj è risvegliato da un fruscio nel suo studio: la moglie Sofia sta curiosando ancora una volta tra le sue carte.
Stanco di una vita coniugale reciprocamente tormentata e di una famiglia inquinata da sospetti, gelosie e rivalità, all’età di ottantadue anni, decide di fuggire nottetempo, accompagnato dalla figlia Sasa e dal medico Makovickij.
Alberto Cavallari ha ricostruito in questo racconto di straordinaria intensità i giorni della fuga di uno dei massimi scrittori occidentali (“una fuga dalla morte, una fuga / rivolta, una fuga / libertà”) dalla tenuta di Jasnaja Poljana alla sperduta stazione di Astàpovo, dove Tolstoj morì il 7 novembre, sotto i riflettori del mondo intero.
Alberto Cavallari (1927-1998), giornalista e scrittore, ha iniziato la sua carriera fondando la rivista “Numero” e collaborando con numerosi quotidiani locali. Redattore e inviato delle maggiori testate periodiche e dei principali quotidiani, fu direttore del “Corriere della Sera” dal 1981 al 1984 e opinionista della “Repubblica” dal 1984 al 1998.
A proposito della sua Fuga di Tolstoj scrisse: “La vecchiaia si può fuggire in mille modi, magari scrivendo un libro...”
Andrea Grammonte è un predestinato, come rivela «quella linea dritta che lo rendeva inconfondibile: non era una ruga - infatti era comparsa che era ancora bambino - ma un segno, una sorta di marchio che spartiva in due la fronte larga da animale sacro, custode di enigmi». Orfano di padre, eredita dal nonno nel 1946 la piú grande industria siderurgica italiana, e con una condotta abile e spregiudicata ne espande le attività fino a farla diventare un colosso anche nella chimica e nella produzione di energia elettrica. Ma se la vita pubblica di Andrea è un seguito di successi, un angoscioso senso di vuoto segna la sua vita interiore, non medicato dagli affetti familiari e non colmato dai piaceri a cui Andrea non sa e non vuole rinunciare. Un romanzo che racconta un secolo di storia italiana attraverso gli occhi, le azioni e le avventure di un protagonista d'eccezione.
È notte, l'orfanotrofio è immerso nel sonno. Tutte le ragazze dormono, tranne una. Si chiama Cecilia, ha sedici anni. Di giorno suona il violino in chiesa, dietro la fitta grata che impedisce ai fedeli di vedere il volto delle giovani musiciste. Di notte si sente perduta nel buio fondale della solitudine piú assoluta. Ogni notte Cecilia si alza di nascosto e raggiunge il suo posto segreto: scrive alla persona piú intima e piú lontana, la madre che l'ha abbandonata. La musica per lei è un'abitudine come tante, un opaco ripetersi di note. Cosí passa la vita all'Ospedale della Pietà di Venezia, dove le giovani orfane scoprono le sconfinate possibilità dell'arte eppure vivono rinchiuse, strette entro i limiti del decoro e della rigida suddivisione dei ruoli.
Ma un giorno le cose cominciano a cambiare, prima impercettibilmente, poi con forza sempre piú incontenibile, quando arriva un nuovo compositore e insegnante di violino. È un giovane sacerdote, ha il naso grosso e i capelli colore del rame. Il suo nome è Antonio Vivaldi.