
Parigi, 1959. Sono anni vertiginosi: la Seconda guerra mondiale è finita da troppo poco tempo per essere Storia, la guerra d’Algeria segna le vite dei francesi d’oltremare. Michel Marini, undici anni, figlio di immigrati italiani, esce dall’infanzia e si affaccia a un’adolescenza inquieta e piena di emozioni. Vagabonda per il quartiere, si ritrova con gli amici a giocare a calcio balilla; un giorno entra in un bistrò, il Balto. E' attratto da una stanza sul retro dove si ritrova un gruppo di uomini, che parlano un francese a volte approssimativo e portano dentro di sé storie e passioni sconosciute. Sono profughi dei Paesi dell’Est, uomini traditi dalla Storia, ma visionari che ancora credono nel comunismo.Incorreggibili ottimisti.
Frequentare il Balto vuol dire scoprire il mondo. Michel cresce con Igor, Leonid, Imré, Pavel, Tibor, Saga impara a conoscere l’amicizia, l’amore, la complessità degli ideali. Nel retro di un bistrò si litiga, si beve, si gioca a scacchi, si raccontano barzellette su Stalin, si offre se stessi e le proprie storie, storie terribili di esilio che si intrecciano sullo sfondo di un decennio epocale, tra filosofia e rock’n’roll, Sartre e Kessel, la conquista dello spazio e l’inizio della Guerra fredda. Nella tradizione del grande romanzo francese, un affresco indimenticabile di un’epoca.
Il miracolo della vita è un rompicapo affascinante che racchiude un immenso potere. Per questa ragione magia, religione e scienza, nei secoli, hanno cercato di garantirsene il controllo. E la controversia è ancora in corso, accesa più che mai. La "nascita della vita" e i diversi modi di essere madre o padre costituiscono il nucleo di questi ventiquattro racconti: i miti della Creazione e i possibili sviluppi (fanta)scientifici dalle nuove tecniche di riproduzione, i problemi etici e il dramma della sterilità... Un ciclo di storie appassionanti e delicate che ci lasciano con la sensazione che, per quanto gli uomini si sforzino di conoscere, alla base della vita rimarrà sempre il mistero.
Flavio, diciotto anni, è uno dei tantifigli belli e infelici di Roma Nord, quella deiquartieri bene e del posto fisso nell’azienda dipapà. Un giorno, mentre cerca di entrare senza biglietto allo stadio, viene notato dalla sicurezza e inseguito tra la folla. Flavio si salva grazie all’aiuto di uno strano gruppo di ultrascon le magliette degli Zetazeroalfa, che gli fa da scudo come fosse una grande tartaruga. In mezzo a loro un volto conosciuto: l’ha già visto davanti a scuola, ma quella volta c’era quasi scappata la rissa. Adesso invece Giorgio, bruno e massiccio, figlio della Roma popolare, lo accoglie nel suo mondo, quello di una comunità che vive in un palazzo occupato all’Esquilino. “CasaPound” c’è scritto sulla facciata: è il cuore nero della capitale. Ecco la casa che Flavio cercava, ecco gli amici da sempre desiderati,e la felicità. Nei mesi successivi lui e Giorgio diventeranno carismatici militanti del Blocco Studentesco, l’organizzazione studentesca di CasaPound, e scopriranno la gioia di sentirsi fratelli, uniti nel medesimo destino,nelle lotte politiche e di strada. Fino alla notte in cui Giorgio viene arrestato: ha dato una coltellata a un pusher, dicono. Ma il suo avvocato difensore, conoscendo bene la realtà di Casa-Pound, sa che la verità è un’altra.
Nessun dolore è una grande storia d’amicizia, è il ritratto di una città a più facce, ma soprattutto è il primo romanzo a raccontare l’epica quotidiana di quelli che si definiscono i “fascisti del Terzo Millennio”, un’officina sociale che ha radici in tutta Italia e mette in dubbio molte delle nostre certezze.
2005. I servizi segreti italiani ricevono un’informativa: un gruppo di immigrati musulmani, che opera a Roma nella zona di viale Marconi, sta preparando un attentato. Per scoprire chi siano i componenti della cellula viene infiltrato Christian Mazzari, un giovane siciliano che parla perfettamente l’arabo. Christian inizia la sua indagine sotto copertura: per gli abitanti del quartiere diventa Issa, un immigrato tunisino in cerca di un posto letto e di un lavoro. Il suo destino si incrocia con quello di Sofia, una giovane immigrata egiziana che indossa il velo e vive nel quartiere assieme al marito Said, alias Felice, architetto reinventatosi pizzaiolo. Attraverso Sofia vediamo la cultura islamica con gli occhi di una donna alle prese con una vita coniugale complicata. Sofia ha però un grande sogno da realizzare. Nell’alternarsi delle voci di Issa e Sofia l’ironia e la satira dei luoghi comuni fanno di Divorzio all’islamica a viale Marconi una commedia nera in cui il serio e il grottesco, il razionale e l’assurdo, l’amore e la paura descrivono le contraddizioni della società italiana con un linguaggio originale, che imita i “parlati” degli immigrati e degli italiani. In un susseguirsi di scene esilaranti e momenti ricchi di pathos, di dialoghi frizzanti e arguti proverbi popolari, si arriva a un avvincente finale a sorpresa che spiazza il lettore, costringendolo con grande divertimento a riavvolgere la pellicola dall’inizio.
NOTA SULL'AUTORE
Amara Lakhous è nato ad Algeri nel 1970 e vive a Roma dal 1995. Laureato in filosofia all’Università di Algeri e in antropologia culturale alla Sapienza di Roma, in questa stessa università ha conseguito il suo dottorato di ricerca con una tesi dal titolo “Vivere l’Islam in condizione di minoranza. Il caso della prima generazione degli immigrati musulmani arabi in Italia”. Nel 1999 ha pubblicato il suo primo romanzo, Le cimici e il pirata (Arlem editore) in versione bilingue arabo/italiano, e nel 2003 ha pubblicato in Algeria il secondo romanzo in arabo, Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda, successivamente riscritto in italiano con il titolo Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio (Edizioni E/O 2006). Con questo romanzo, tradotto in varie lingue, ha vinto nel 2006 il premio Flaiano per la narrativa e il premio Racalmare – Leonardo Sciascia. Nel maggio 2010 è uscito l’omonimo film, diretto da Isotta Toso.
Pubblicato nel 1962, un anno prima della sua morte in esilio a Mosca, “Gran bella è cosa vivere, miei cari!” è un romanzo la cui gestazione ha accompagnato gran parte della vita di Hikmet. Pur trattandosi di un'opera di fiction, le vicende che Hikmet racconta sono attinte dalla sua biografia: sua è la voce del narratore, un uomo morso da un cane rabbioso che attende la fine del periodo di incubazione isolato in una capanna dell'Anatolia lasciandosi andare alle intermittenze della memoria e del cuore; suo è il “materiale di vita” che si accumula nelle pagine, gli squarci sull'infanzia, i momenti di attivismo politico, le sofferenze dell'esilio; suo l'incancellabile ricordo di un'amatissima donna, Anushka, sfuggente e contesa.
“Mettiamo che un giorno il mondo si sveglia e scopre che sono finiti petrolio, carbone e corrente elettrica. Non occorre immaginarlo, prima o dopo capiterà. Ma facciamo finta che sia già qui. Ha un brutto muso quel giorno. Tempo duro, infame, che scortica il mondo a coltellate. Lo spoglia di tutto. Di quel che serve e di quel che non serve. La gente all'improvviso non sa che fare per riacciuffare il necessario: sta dentro la natura, ma, per averlo, occorre tirarlo fuori, cavarlo con le mani. E la gente, le mani, non le sa più usare”. Che cosa succede agli uomini che non sanno più cavarsela senza energia? Prima, per scaldarsi, bruciano i mobili, poi i soldi. Prima, per nutrirsi, mangiano qualsiasi cosa, poi diventano antropofagi...
Da dove sto chiamando, l'«autoantologia» voluta da Carver nel 1988, poco prima della morte, presenta nella versione scelta e curata dall'autore racconti appartenenti a tutto l'arco della sua produzione, da quelli del libro d'esordio Vuoi star zitta per favore? ai sette «nuovi racconti» di Elephant. Permette così al lettore di scorgere forse nel modo più compiuto possibile gli orizzonti narrativi che si richiamano da un punto all'altro dell'ormai leggendaria «Carver Country».
C'è ovviamente la coppia (o meglio, forse, gli individui che la compongono), fotografata nei suoi vari istanti, sovente nelle diverse fasi di una crisi: nell'attimo in cui qualcosa si rompe definitivamente, come in I chilometri sono effettivi; nel momento stesso di una separazione annunciata da una lettera dalla calligrafia «irriconoscibile», come in Pasticcio di merli; nel dopo della solitudine, come in Febbre, dove forse basterebbe una baby sitter come si deve per sperare di rimettere insieme i cocci di una famiglia. Le donne e gli uomini carveriani si trovano di fronte, all'improvviso e forse quasi senza accorgersene, alla resa dei conti con il sogno americano di provincia - disfattosi tra bottiglie, traslochi, debiti - e al tempo stesso solo sfiorati da quel che di rivoluzionario e avventuroso sembra accadere in posti come San Francisco o l'Alaska. Oppure a raggiungerli è un'eco di violenza: quella del reduce nero di Vitamine, che come amuleto porta con sé l'orecchio rinsecchito di un vietcong, l'esplosione di aggressività repressa di un padre mite in Biciclette, muscoli, sigarette o l'ottusità inquietante del protagonista di Con tanta di quell'acqua a due passi da casa. O ancora, è l'alcol a scandire le giornate, le ore, i minuti di molti di loro, in racconti come Un'altra cosa, Attenti, Da dove sto chiamando. Proprio un centro di recupero per alcolizzati fa da sfondo al racconto che dà il titolo alla raccolta, dove, nella storia dello spazzacamino J. P. e della moglie Roxy, con l'ombra di Jack London a fare da monito, il protagonista intravede una possibilità di cambiare qualcosa, fosse anche solo chiamare la moglie per farle gli auguri per l'anno nuovo. O telefonare alla sua ragazza per dirle, semplicemente: «Ciao tesoro, sono io».
La storia di Tönle Bintarn, contadino veneto, pastore, contrabbandiere ed eterno fuggiasco è l'odissea di un uomo che tra la fine dell'Ottocento e la Grande Guerra rimane coinvolto nei grandi eventi della Storia e combatte una battaglia solitaria per la sopravvivenza.
L'anno della vittoria, continuazione ideale della Storia di Tönle, è quello che va dal novembre 1918 all'inverno successivo e racconta di una famiglia e di un paese che devono risollevarsi dall'immane naufragio della guerra.
A concludere la Trilogia dell'Altipiano, Le stagioni di Giacomo: in una contrada uscita stremata dalla Grande Guerra, un giovane cerca di sopravvivere facendo tanti mestieri, per ultimo il recuperante.
Nel silenzio dei monti, alla ricerca di residuati bellici, Giacomo impara a conoscere la natura e a decifrarne il linguaggio segreto.
Con uno stile secco e incisivo, una leggerezza e un ritmo davvero unici, in questi tre romanzi composti in tempi diversi eppure legati fra loro da nessi molto forti, Rigoni Stern ci restituisce un mondo di memorie ancora integro, dando voce alle cose, alle persone, alla natura nei loro aspetti piú autentici, testimonianze di un'umanità di confine che vince nonostante la Storia.
«Su di noi avevano fatto un film», dice Clay. Un film tratto dal libro che un loro amico aveva scritto ispirandosi alla sua storia e a quella di Blair, Trent, Julian e Rip. Il problema è che il loro amico, che sarebbe poi diventato uno scrittore e che si chiamava Bret Easton Ellis, ce l'aveva con Clay e per questo l'aveva trasformato nel narratore «bello e stordito, incapace d'amore e di bontà» di quel romanzo intitolato Meno di zero: «Ecco come diventai il giovane viveur rovinato e festaiolo che si aggirava tra le macerie, il sangue grondante dal naso, ponendo domande che non avevano mai bisogno di risposta». Ma oggi, venticinque anni dopo, Clay è tornato in città - di nuovo Los Angeles, di nuovo durante le vacanze natalizie - e questa volta è pronto a raccontare la sua storia in prima persona: senonché la storia, come canta Elvis Costello, molto spesso non fa che ripetere «gli antichi vezzi, le facili risposte, le stesse sconfitte».
Diventato (dopo aver abbandonato l'idea di fare lo scrittore come Bret) sceneggiatore di mediocre successo, Clay è a Los Angeles per scegliere il cast dell'ultimo film a cui sta lavorando. Qui incontra gli amici di gioventù, solo con più anni, più soldi e più problemi: Blair, la sua ex ragazza, si è sposata con Trent che nel frattempo è diventato un potentissimo agente delle star di Hollywood, Julian ha messo in piedi una discreta agenzia di escort, mentre Rip¿ Rip ha sempre fatto storia a sé.
Quando a una festa incontra la giovane, splendida Rain e se ne innamora - se la parola ha un senso per uno come lui - Clay precipita in una dimensione in cui paranoia e terrore sono i muri di un labirinto da cui non riesce, o non vuole, uscire.
Bastano questi accenni per far intuire al lettore il gioco di specchi, rimandi e false piste con cui Ellis, mai così disincantato e ironico, intesse il suo inquietante racconto. Disperazione e violenza, noia e glamour, autoindulgenza e degradazione sono gli atomi costitutivi del mondo (o dell'inferno) in cui Ellis, impeccabile come suo solito, ci fa da guida.
«Ellis è un moralista che si interroga su come le persone si trasformano in mostri. A quale livello di dolore o di indifferenza l'uomo smette di essere umano?»
Financial Times
«Ellis non solo scrive bene, ma sembra che lo faccia senza sforzo. Sesso, droga e chirurgia plastica».
Tatler
Loung ha solo dieci anni quando, al termine di un’estenuante odissea, arriva negli Stati Uniti. Per lei, fuggita dalla criminale follia del regime sanguinario dei Khmer Rossi, libertà è avere uno spazio minuscolo tutto per sé, lenzuola divertenti con buffi topi e strani paperi, e cose buone da mangiare, dopo le radici divorate per placare la fame perenne. Ha mille nuovi significati la libertà, anche una ciotola piena di nastri per i capelli, tanti, colorati. Nei campi di lavoro forzato dove è stata rinchiusa a soli cinque anni, e in quello di addestramento dove è diventata una bambina soldato, i colori erano proibiti, e così ogni abito che non fosse la divisa nera. Volersi distinguere era segno di vanità, e come tale punito a bastonate. Per questo affondare le dita in quei nastri le strappa un sorriso di vittoria, insieme a un moto di nostalgia per l’amata sorella Chou, rimasta in Cambogia: non c’erano i soldi per far partire anche lei. Il distacco è stato lacerante, un nuovo dolore che si è aggiunto a quello infinito per la morte di mamma, di papà, di due dei sei fratelli.
Per anni Loung e Chou vivono vite parallele. Una alle prese con una nuova patria in cui inserirsi, schiacciata dai sensi di colpa per avere avuto quella fortuna, e per non sapersela godere fino in fondo. L’altra in Cambogia, ad affrontare la povertà, la lotta per la sopravvivenza quotidiana, la promessa di un domani migliore che non arriva mai. Quindici anni dopo, Loung decide di seguire il lungo nastro rosso e di tornare a casa. Dall’incontro di due solitudini nasce una memoir intensa, commovente, e lo straordinario racconto di una delle grandi follie del nostro tempo.
Quando la piccola Ah-Kim, orfana di padre, lascia a undici anni Hong Kong per emigrare a New York con la madre, il suo nome diventa Kimberly. È il primo tentativo di adattarsi a una realtà completamente nuova e diversa, dove le aspettative comuni a ogni sogno americano si infrangono nell’impatto con una realtà di sacrifici, miseria e sfruttamento.
Ad attendere madre e figlia, garbatamente messo a disposizione – a pagamento – dalla ricca “zia d’America” che ha sovvenzionato il loro viaggio, è un infernale bilocale abitato da topi e scarafaggi e privo di vetri e riscaldamento. Sempre la zia si occupa sollecita di offrire loro un impiego: un lavoro massacrante nella polverosa e affollata sartoria che gestisce con pugno di ferro. Tutto è estraneo e ostile, ma Kimberly ha un innegabile talento: le piace studiare, impara in fretta e ha un’incredibile resistenza nei confronti delle avversità. E così, pian piano, riesce a superare le difficoltà che incontra a scuola, nelle relazioni con compagni e insegnanti, la fatica di lavorare ogni sera fino a tardi per aiutare la madre, assai più fragile di lei, la vergogna per la miseria, che non aveva mai sperimentato. Finché, grazie a un’inaspettata borsa di studio, la vita cambia e Kim, con la sua adorabile lievità, l’incrollabile dignità e il senso dell’ironia che la accompagna anche nei momenti più tragici, potrà finalmente emergere alla luce e dare forma al proprio destino.
C’è qualcosa che non torna nel mondo degli adulti. Passano il tempo a sgridare noi bambini, a dirci che dobbiamo fare così e cosà, e poi basta vedere il telegiornale per capire che dovrebbero solo stare muti e lasciare comandare noi.
Un giorno ho sentito in una trasmissione che lo Stato deve proteggere i bambini, ma quando sono arrivato a casa da scuola e mio padre, ubriaco come sempre, ha picchiato mia madre, Maxence e me, mi è proprio venuta voglia di telefonargli, allo Stato. Solo che non sapevo chi chiamare.
Il mio nome è Slimane, Maxence è mio fratello, ha tredici anni, solo due più di me, ma sembra molto più grande. Lui è la mia roccia, mi protegge dal Demone, come chiamiamo nostro padre, e riesce sempre a rassicurarmi. Mi ha anche fatto delle ali d’angelo, e quando le cose si mettono proprio male, ne infiliamo una ciascuno e immaginiamo di volare via.
La vita è davvero fatta male. Tutti lo sanno, ma nessuno sa dove fare denuncia. Dunque si fa finta che tutto sia normale. Ma io dico che non è affatto così. È solo una grande fregatura.
Per questo Maxence un giorno ha deciso di andare nel paese senza adulti, e mi ha lasciato qui da solo. Io ho provato a raggiungerlo, ma devo aver sbagliato strada. O forse no.