
Petra, il poliziotto più duro ed efficiente del distretto di Barcellona, s'è sposata, e contrasta la maliziosa innocenza dei figli del marito Marcos. Anche il vice Garzón s'è sposato, ma lui si sente oppresso dalle infinite attenzioni dell'impeccabile moglie. Perciò, giunge loro come un sollievo amaro questo caso. Un omicidio nel convento delle sorelle del Cuore Immacolato, reso ancor più scabroso dalle modalità in cui sembra avvenuto. Il cadavere di frate Cristóbal dello Spirito Santo è stato ritrovato accanto alla teca che custodiva il Beato Asercio de Montcada. E il corpo sacro, miracolosamente incorrotto, intorno al quale, da esperto di reliquie, lavorava l'erudito cistercense, è scomparso. A intorbidare le piste, deviandole al soprannaturale, vi è poi un enigmatico biglietto: "cercatemi dove più non posso stare". Davanti a Petra e a Garzón si squaderna un ventaglio contraddittorio di ipotesi fantasiose che devono malvolentieri verificare, in un ambiente odoroso di incenso ma alquanto reticente. E sono perfino tentati da una tecnica d'indagine deduttiva che è loro estranea. Ma presto il realismo s'impone: "faccio fatica a credere a ciò che esula dalla mentalità comune", e la coriacea detective e il suo aiutante dai modi spicci e dalle mille fisime, riprendono il metodo abituale, faticoso e di strada.
Un uomo sulla soglia dei settant'anni confessa il proprio stato d'animo di fronte al mondo. Lo fa in soliloqui mentre percorre ossessivamente, quasi in un incubo di ripetizione, le strade della sua città, diventata - com'è ricorrente rappresentazione della città della narrativa di Ferriera - una sorta di non luogo imprevedibile e carico di eventi casuali e inspiegabili, comici o disperati, affettuosi o violenti, indifferentemente. Il suo andare è cadenzato da ripetute cadute, un fastidioso continuo inciampare dei passi incerti che fa irrompere il protagonista, osservatore soggettivo, perentoriamente dentro i fatti cui assiste, trasformandolo da narratore a personaggio narrato. I suoi sono pensieri brevi, interrogano dubbiosamente su fatti e situazioni comuni, oppure narrano insignificanti avvenimenti che improvvisamente virano nell'emblematico: in parte considerazioni di un'ispida e incerta saggezza, in parte espressioni di smarrimento infantile, in parte disperate nostalgie e rimproveri al passare del tempo o scintille di speranza nel futuro; in parte sogni, visioni, forse deliri. E in ognuno di essi si sente riecheggiare in effetti la recita dell'assurdo di un grande uomo di teatro, come in un ultimo nastro.
Il libro è il tragico monologo di una donna che aspetta un figlio guardando alla maternità non come a un dovere ma come a una scelta personale e responsabile. Una donna di cui non si conosce né il nome né il volto né l'età né l'indirizzo: l'unico riferimento che viene dato per immaginarla è che vive nel nostro tempo, sola, indipendente e lavora. Il monologo comincia nell'attimo in cui essa avverte d'essere incinta e si pone l'interrogativo angoscioso: basta volere un figlio per costringerlo alla vita? Piacerà nascere a lui? Nel tentativo di avere una risposta la donna spiega al bambino quali sono le realtà da subire entrando in un mondo dove la sopravvivenza è violenza, la libertà un sogno, l'amore una parola dal significato non chiaro. Con la prefazione di Lucia Annunziata.
Federica ha diciotto anni, i capelli corti e neri, gli occhi verdi. È bellissima. Ma è entrata in coma nel 2005 a causa di un incidente e ora non sa più nulla di ciò che è stato, che è, che sarà. Il silenzio rarefatto della sua cameretta è violato il più possibile perché, si sa, gli stimoli esterni la potrebbero prima o poi risvegliare. Quando la madre, il padre e la domestica non sono al suo fianco, è la tv a tenerle compagnia. Ma nel buio della notte, quando nessun rumore può turbare lo scorrere del tempo, una voce le racconta una storia che la riguarda molto da vicino. È una storia di antenati, eretici, briganti e imperatori, una girandola di vite che germina sul filo del ricordo. Avremo allora Maria Trafitta, con il suo sogno di farsi medichessa in un universo esclusivamente maschile; Braccio Cacciante, bandito temutissimo prima e idolatrato capitano di ventura poi; Belisario Maria, l'artificiere che con i suoi spettacoli pirotecnici ha stregato mezzo mondo. E il miraggio della costa sud del Mediterraneo battuta dalle fuste algerine, Solimano, il pirata Barbarossa e il vento del deserto. E, soprattutto, una misteriosa Madonna di legno che combatte strenuamente per ristabilire le sorti delle miserie umane. Raffaele Migro, con un romanzo storico-antropologico senza confini, è riuscito a ricreare la sontuosità del Cinquecento e i furori delle pestilenze, è riuscito a ricreare la sontuosità del Cinquecento e i furori delle pestilenze, gli scontri tra civiltà e il sapore denso della terra.
Giro d'Italia con delitto dovrebbe essere "delitti", al plurale, ma si può considerare tutto il crimine assortito come un delitto unico commesso profanando la sacralità della corsa, è un giallo classico di ingredienti e moderno di salse, rigoroso e particolare, con soluzione completa e inattesa non all'ultima pagina e neppure all'ultima riga, ma all'ultima parola. Poi c'è un epilogo brevissimo che rimanda ad un Tour de France con delitto. Protagonista è la corsa rosa, che fa cent'anni in questo 2009. Le comparse sono tantissime, dal pubblico ai corridori ai cosiddetti suiveurs (giornalisti, amici, parenti, meccanici, tecnici, organizzatori, poliziotti...). I delitti sono truci ma non trucidi. Si sentono più applausi ai ciclisti che grida di terrore, ma il racconto toglie il fiato e toglie la voglia di fare tappa per sostare nella lettura.
GLI AUTORI
Gian Paolo Ormezzano (Torino, 1935) tre figli e sei nipoti, diplomato al liceo classico Cavour. A Tuttosport dal 1953 al 1979: giovane di studio, redattore semplicissimo, caposervizio del ciclismo, direttore. Da fine 1979 inviato speciale a La Stampa e poi, dal 1991 della pensione, collaboratore fisso dello stesso giornale, con breve ritorno a Tuttosport nel 1997-98. Primatista mondiale di Giochi olimpici, cominciando dal 1960 a Squaw Valley: 23 edizioni dopo Torino 2006, record di tremenda pesantezza anagrafica e non solo. Servizi o – più fine – reportages da 28 Giri d’Italia, 12 Tour de France, tanti e forse troppi campionati mondiali ed europei di calcio, atletica, basket, nuoto… Per i Giochi invernali di Torino 2006 ha scritto Di neve e di ghiaccio, fiabe olimpiche vere raccolte in un volume edito in italiano e inglese.
La Commedia è culla di tradizione letteraria europea ed espressione somma del patrimonio della civiltà occidentale. Essa possiede un'inesauribile capacità di descrivere l'animo umano e di abbracciare la realtà dell'universo, grazie alla quale ha conquistato nei secoli generazioni di lettori. Nessun altro genio artistico della nostra tradizione letteraria ha saputo risvegliare quanto Dante, "poeta del mondo terreno", quella "concreta e perpetua sete" di bellezza e verità che spalanca aòòa conoscenza di noi stessi e del mondo e rende degna e appassionante l'esperienza dell'umano cercare.<br/
Sergio viene abbandonato dopo tanti anni di matrimonio dalla moglie Gianna, stanca dell'aura di indifferenza calata sul loro rapporto. Sergio è distrutto. Si lascia tentare da amori mercenari ma non si consola, perché, apparentemente, non ci può essere consolazione. Eppure, a poco a poco, qualcosa di profondo, che era come assopito, si ridesta. Sergio comincia a entrare in sintonia col mondo circostante, ed ecco allora fiorire delle "rose", un giardino di nuove consapevolezze dove le donne appaiono a Sergio in tutta la loro forza, fragilità, il loro coraggio. E neppure il tarlo della gelosia nei confronti di sua moglie, che pure sembra dettargli atti estremi, riuscirà a uccidere quella struggente fioritura. Perché Sergio ha imparato sulla sua pelle che le donne sono dei fiori, delicati ma pungenti come e più delle rose.
Quando Paul Valéry fu accolto, nel 1925, fra gli "immortali" dell'Académie française, si vide costretto - lui che non aveva grande stima per l'arte del romanzo - a pronunciare l'elogio di Anatole France, suo predecessore. In un 'panegirico' divenuto leggendario, non solo riuscì a parlare di France senza mai menzionarne il nome, ma con squisita perfidia contrappose le sue opere a quelle di Tolstoj, Ibsen, Zola, tacciandole di leggerezza. Non c'è da stupirsi, ci avverte Kundera: difficilmente il romanziere rientra nella schiera di coloro che incarnano lo spirito di una nazione. Proprio in virtù della sua arte, il romanziere è per lo più "segreto, ambiguo, ironico", e celato com'è dietro ai suoi personaggi - difficilmente si lascia ridurre a una convinzione, a un atteggiamento: quel che gli preme non è la Storia (e tanto meno la politica), bensì il "mistero dei suoi attori". Come Beckett, è libero, persino dal virtuoso senso del dovere che lo vorrebbe prigioniero di un Paese o di una lingua; come Danilo Kis, respinge ogni etichetta, anche quella, proba e accattivante, di emigrato o dissidente; come Skvorecky, è pronto a rivolgere il suo "inopportuno humour" contro il potere e insieme contro il "vanitoso gesticolare" di chi protesta. E spesso finisce sulle liste di proscrizione che governano i gusti letterari: soprattutto quando, come Malaparte, ci rivela la cupa bellezza di una realtà diventata folle, la nuova Europa nata da un'immensa disfatta, e un nuovo modo, vinto e colpevole, di essere europei.
"A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce"; con questa dedica si apre "L'incendiaria" di Stephen King. È infatti con toni sommessi e deliziosamente sardonici che la diciottenne Mary Katherine ci racconta della grande casa avita dove vive reclusa, in uno stato di idilliaca felicità, con la bellissima sorella Constance e uno zio invalido. Non ci sarebbe nulla di strano nella loro passione per i minuti riti quotidiani, la buona cucina e il giardinaggio, se non fosse che tutti gli altri membri della famiglia Blackwood sono morti avvelenati sei anni prima, seduti a tavola, proprio lì in sala da pranzo. E quando in tanta armonia irrompe l'Estraneo (nella persona del cugino Charles), si snoda sotto i nostri occhi, con piccoli tocchi stregoneschi, una storia sottilmente perturbante che ha le ingannevoli caratteristiche formali di una commedia. Ma il malessere che ci invade via via, disorientandoci, ricorda molto da vicino i "brividi silenziosi e cumulativi" che - per usare le parole di un'ammiratrice, Dorothy Parker abbiamo provato leggendo "La lotteria". Perché anche in queste pagine Shirley Jackson si dimostra somma maestra del Male - un Male tanto più allarmante in quanto non circoscritto ai 'cattivi', ma come sotteso alla vita stessa, e riscattato solo da piccoli miracoli di follia.
Povero Maigret: mai, in tutta la sua carriera, si è sentito umiliato come quando, di fronte a un pivello di questore che gli sorride con amabile perfidia, è costretto ad ammettere con se stesso di essere caduto in una trappola - peggio: di essersi fatto fregare come un principiante, e per di più da una ragazzina di neanche diciott'anni, nipote di un pezzo grosso del Consiglio di Stato, che ha raccontato alla polizia di essere stata rimorchiata proprio da lui, Maigret, in un caffè, di essere stata trascinata in un albergo e di aver ricevuto pesanti avance. Ma la ragazza non può aver fatto tutto da sola. E anche quel giovanottino pretenzioso e arrogante, il nuovo questore (al quale Maigret avrebbe comunque dato volentieri un pugno in faccia quando gli ha suggerito di offrire immediatamente le sue dimissioni), è solo una pedina. È talmente abbattuto, il commissario, e anche schifato, che sulle prime non ha il minimo desiderio di difendersi, anzi, accetta la disfatta quasi con sollievo: basta responsabilità, basta nottate a interrogare malviventi ingoiando solo birre e panini della brasserie Dauphine... Ma avrà uno scatto d'orgoglio (tutti noi, del resto, stavamo aspettando questo momento con il fiato sospeso), e comincerà a chiedersi "chi c'è dietro", e per quale ragione è stata architettata quella ignobile messinscena. Mentre Parigi "frigge sotto il sole" di giugno, Maigret sa che vuole e deve scoprirlo. E che deve farlo, per una volta, da solo.
Può l'incontro con Gesù sconvolgere la vita di un uomo di spettacolo, cresciuto alla corte dei grandi nomi dello star system italiano, figlio di uno degli autori simbolo degli anni d'oro della Rai e autore, egli stesso, di alcuni dei maggiori successi televisivi dell'ultimo trentennio? Stefano Jurgens rilegge un'intera esistenza alla luce della fede, mettendo a nudo exploit e delusioni, gioie e amarezze sia personali che professionali, senza risparmiare a sé e ai tanti, prestigiosi compagni di viaggio - da Corrado a Bonolis, da Morandi a Celentano - il giudizio della verità alla quale, da una mattina d'agosto del 1992, ha consacrato i suoi giorni.