
Ha centosettant'anni, ma non perde un colpo. Pubblicato a puntate fra l'agosto 1844 e il gennaio 1846 sul "Journal des Débats", mentre Dumas lo stava ancora scrivendo (con l'aiuto di un ghost-writer, Auguste Maquet), senza sapere nemmeno lui come l'avrebbe concluso, e intanto metteva in cantiere altri due o tre romanzi, "Il conte di Montecristo" ha lasciato, e lascia tuttora, col fiato sospeso folle di lettori di ogni estrazione sociale e di ogni paese. Nessun romanzo, forse, ha avuto tante edizioni (settantasei solo in Italia, già dal 1846), tanti adattamenti cinematografici (il primo nel 1922) e televisivi; è diventato un musical, un fumetto con Paperino, è stato immortalato sulle figurine Liebig e condensato nelle strisce della Magnesia San Pellegrino; oggi ispira la serie americana Revenge. Tutti quindi possono dire di conoscerne almeno a grandi linee la trama e il protagonista, anche chi non lo ha mai letto. Ma non c'è trasposizione, necessariamente lacunosa, data la mole del romanzo, che valga il godimento di aprirlo e rimanere intrappolati senza scampo nel suo inesorabile ingranaggio narrativo, che funziona sempre anche se si sa già come andrà a finire la vicenda. I suoi stessi difetti, le ripetizioni, le digressioni, le zeppe, sono funzionali al piacere della lettura.
Questo capolavoro incompiuto del Novecento, da mezzo secolo al centro di un tormentato lavoro di sistemazione critica e filologica, ora in una edizione che organizza i materiali inediti in una prospettiva capace di illuminare l'architettura segreta del lavoro di Musil.
Sono le parole di un grande scrittore e non di un professionista del mondo delle arti figurative o di un accademico, quelle che Julian Barnes mette in conversazione con le immagini di alcune grandi opere del canone occidentale tra il 1850 e il 1920, dal maturo Romanticismo fino al Modernismo e oltre. Il punto di partenza è il dipinto noto come La zattera della Medusa di Géricault, di cui Barnes segue le fonti storiche nel naufragio della fregata francese Meduse nel luglio del 1816, per spostarsi poi sulla storia dei bozzetti preparatori e dell'autoreclusione del pittore per otto mesi durante il lavoro sulla grande tela, fino a offrire risposta su che cosa trasformi la catastrofe in arte, dopo aver trasformato l'evento in immagine. I saggi trattano dipinti di Manet, Bonnard, Vuillard, Degas, Cézanne, ma anche di Vallotton, Braque, Picasso e Magritte, fino agli inquieti ritratti di Lucian Freud, con la loro spietata ricerca dell'anima della carne, e al gigantismo giocoso di certa Pop Art destinata, nel giudizio di Barnes, a invecchiare male e approdare a una senilità precoce e un tantino ridicola. Si tratta di testi eruditi e brillanti che garantiscono tuttavia un piacere ulteriore a chi vi si accosta, quello di suggerire in controluce alle figure descritte potenziali personaggi o scene di romanzi di Barnes. Accade con l'analisi di certi interni borghesi di Vuillard, con l'attenzione tutta narrativa riservata alla posizione dei piedi nel dipinto di Manet L'esecuzione dell'imperatore Massimiliano; accade nel racconto delle vite a confronto di Braque e Picasso. Barnes si sbilancia, si diverte, ci incanta. E, dopo aver sommessamente contraddetto per quasi trecento pagine le indicazioni del maestro Flaubert, secondo il quale i grandi dipinti non vogliono parole a illustrarli, Barnes liquida se stesso commentando cosí le opere dell'amico Howard Hodgkin: «Questi quadri parlano ai miei occhi, al mio cuore, alla mia mente. Perciò, basta con le parole».
“Perché io vi parlo sempre di me e della gente di casa mia? Per parlarvi di voi e della gente di casa vostra. Per consolare me e voi della nostra vita banale di onesta gente comune. Per sorridere assieme dei nostri piccoli guai quotidiani. Per cercar di togliere a questi piccoli guai (piccoli anche se sono grossi) quel cupo color di tragedia che spesso essi assumono quando vengano tenuti celati nel chiuso del nostro animo. Ecco: se io ho un cruccio, me ne libero confidandolo al «Corrierino». E quelli, fra i ventiquattro lettori del «Corrierino», che hanno un cruccio del genere nascosto nel cuore, trovandolo raccontato per filo e per segno nelle colonne del «Corrierino», si sentono come liberati da quel cruccio. Infatti quel cruccio da problema strettamente personale diventa un problema di categoria, e allora è tutt’altra cosa.”
"Con questo volume, che raccoglie i primi quattro libri della serie "Mondo piccolo" nell'ordine voluto in vita dall'autore, inizia la pubblicazione delle opere di Guareschi in una nuova edizione ragionata. Guareschi non poteva prevederne il successo quando, alla vigilia di Natale del 1946, esce sulle pagine del "Candido" il primo racconto di don Camillo. Il piano dell'opera e tutta l'architettura degli oltre trecentosessanta racconti che Giovannino scrive settimanalmente, per vent'anni, seguono gli avvenimenti della storia d'Italia, dal dopoguerra al boom economico, passando per il Concilio Vaticano II e la rivoluzione studentesca del 1968, l'anno della morte dell'autore. Le raccolte volute da Giovannino rimettono in ordine i racconti. Ognuna è lo specchio di un'epoca. L'epopea di "Mondo piccolo" è un'opera aperta, che non ha inizio e non ha fine, perché don Camillo e Peppone potrebbero vivere altre mille avventure. Non siamo dunque nel tempo del romanzo ma in quello dell'epopea, con la saga del prete di campagna posta in un'aura atemporale ciclica e mitica. Così i racconti, fortemente radicati alla cronaca, sono rilanciati in una dimensione senza tempo. Perché le storie di don Camillo sono "favole vere", come dirà Guareschi, che conciliano con il mondo e con la speranza umana e cristiana, recuperando un'idea di narrativa classica, consolatoria, che parla al cuore degli uomini di tutto il mondo." (Guido Conti)
L'universo di Giovannino Guareschi si arricchisce sempre di nuovi personaggi. Dopo "Don Camillo e Peppone", ecco "I racconti di nonno Baffi", secondo volume delle Opere, a cura dei figli Alberto e Carlotta: "Piccolo mondo borghese", "Baffo racconta" e l'ormai introvabile "La calda estate del pestifero". "Piccolo mondo borghese" raccoglie i libri "Il decimo clandestino" e "Noi del Boscaccio", pubblicati postumi sempre dai figli su progetto di Giovannino negli anni Ottanta. In questi racconti il teatro della Bassa si popola di personaggi "sgalembri", come li definisce Giovannino: Gisto, che reinventa in chiave comunista una sacra rappresentazione natalizia; Giorgino del Crocilone, ossessionato dalla presenza di un gatto bianco e nero; Togno del Boscone, undici figli di cui il più giovane è morto in guerra; i Morlai, alle prese con la cena di Natale; Gión, che va dalla morosa con la sua Stradale; l'Esagerato, bestemmiatore incallito, che alla fine si converte; Anteo Magoni, che vuole figli maschi per lavorare la terra ma la Gisa mette al mondo solo femmine. Questa è la gente della Bassa. Guareschi sentì l'esigenza di raccogliere i racconti pubblicati tra il 1949 e il 1958 su vari giornali e riviste per completare la saga di Don Camillo e Peppone. Dalla raccolta esce il ritratto di un mondo affollato di gente piegata dal dolore e dalla vita però mai vinta, che attraversa il difficile dopoguerra, la ricostruzione e un futuro di speranze e di lotte nel pieno del boom economico.
La prima edizione dell'Italia provvisoria viene pubblicata da Rizzoli nel 1947 e Guareschi, parlando della sua opera, scrive: "La trovata vera è quella di documentare la narrazione. Così mi tengo agganciato alla realtà e non falso neanche il futuro. Ho tutti i giornali della repubblica, i libri coi documenti". Si tratta dunque, come scrive Tatti Sanguineti in un saggio del 2008, di "un album del dopoguerra nel quale convivono racconti umoristico-satirici e polemico-sentimentali mescolati a ritagli di giornali vari, volantini di federazione di partito, inni di rivolta, fotomontaggi". Nel 1996, Beppe Severgnini cita proprio un pensiero tratto dall'Italia provvisoria: "Italiani, io vi esorto all'umorismo: chi non sa sorridere non sa regnare. Siamo seri, noi italiani. Siamo tanto seri che facciamo persino ridere", e conclude: "Chiunque abbia scritto qualcosa del genere è un genio".
«Londra era, ma non è più.» Una pressione centrifuga l’ha fatta esplodere fino a invadere il Sud dell’Inghilterra, tanto che è quasi impossibile stabilire dove cominci e dove abbia fine. Londra è ovunque, è sfruttata e sfruttatrice, è multiculturale, ha fretta ma non sa dove andare. È un museo per turisti in cui un graffito di Banksy viene ricoperto entro poche ore da un plexiglass protettivo. La abitano cittadini stregati dagli smartphone e ciclisti che non hanno tempo di evitare i pedoni. La sconfitta della sua architettura la trascina lontano da sé, verso Dubai, Singapore o in un diverso, anonimo altrove. Qui, come a Madrid, Vancouver e Guadalajara, c’è sempre la vetrina di un McDonald’s, e lì di fronte un uomo che cerca di dormire sotto una coperta. Londra sta per scomparire. La Londra di Iain Sinclair, fantasmagoria di miraggi e reliquie, è il compendio di ogni metropoli, emblematica come la città di fumo e fango raccontata da Dickens. È un avamposto del futuro che assomiglia a una nave da crociera alla deriva: la deriva della Brexit, dei cartelli Leave come sintomo di una fuga da sé. L’ultima Londra è il regesto letterario di un vagabondaggio tra ospedali notturni, vestigia di tunnel segreti e opulente piscine difese da elicotteri di sorveglianza. Con humour nero e profonda empatia, Sinclair descrive incontri con un’ostinata umanità che bazzica i margini, fatta di santoni e senzatetto, di uomini immobili sulle panchine di un parco come Buddha vegetativi, di artiste che scattano fotografie a gomme da masticare abbandonate sull’asfalto. Scrittore, flâneur e psicogeografo, Iain Sinclair si muove a piedi per la città armato di taccuino, prendendo appunti da una cancellazione. Come un archeologo di fronte alle rovine, indica l’utopia fallita del villaggio olimpico e l’estuario fangoso del Tamigi, una finis terrae presidiata da cani che corrono e cagano sulla sabbia. Il suo è un viaggio sciamanico verso le origini dei luoghi, alla ricerca di una direzione smarrita. L’ultima Londra è un romanzo, perché ogni romanzo è l’esperienza di un fallimento. È letteratura, perché affonda negli interstizi tra il presente e il presente che verrà. È un antidoto a un luogo in cui anche chi vive da regolare si sente un migrante clandestino
Il Livre des fais et bonnes meurs du sage roy Charles V è da considerarsi una delle opere fondamentali della produzione politica di Christine de Pizan. Tradurre l'opera dal medio francese, lingua di difficile accesso, fatto salvo per gli specialisti, permette oggi un approccio diretto a uno dei testi-chiave per la comprensione della situazione politica francese all'epoca della follia del re Carlo V, della reggenza non ufficializzata dei principi di sangue reale e alla vigilia delle guerre civili. Si tratta di un libro che ci permette non solo di comprendere il momento di svolta nella produzione letteraria della scrittrice e la sua scelta di impegno civile, ma soprattutto ci introduce nel cuore della corte di Francia e delle questioni più sensibili che la toccano per quanto riguarda il ruolo del sovrano, la partecipazione della nobiltà al governo, ma anche le grandi questioni internazionali quali lo Scisma, l'elezione imperiale, la guerra franco-inglese.
La terza parte delle Opere di Alberto Moravia, proposta in due tomi raccolti in un cofanetto, propone i romanzi e i racconti risalenti al periodo 1950-1959: "Il conformista" (con un episodio espunto), "I racconti", "Racconti romani", "Il disprezzo" (con un capitolo espunto), "L'epidemia", "Racconti surrealistici e satirici", "La Ciociara" (con la conclusione espunta), "Nuovi racconti romani" e "Racconti dispersi".