
Nei due decenni successivi alla rivoluzione di Khomeini, mentre le strade e i campus di Teheran erano teatro di violenze barbare, Azar Nafisi ha dovuto cimentarsi nell'impresa di spiegare a ragazzi e ragazze, esposti in misura crescente alla catechesi islamica, una delle più temibili incarnazioni del Satana occidentale: la letteratura. È stata così costretta ad aggirare qualsiasi idea ricevuta e a inventarsi un intero sistema di accostamenti e immagini che suonassero efficaci per gli studenti e, al tempo stesso, innocui per i loro occhiuti sorveglianti. Il risultato è un libro che, oltre a essere un atto d'amore per la letteratura, è anche una beffa giocata a chiunque tenti di proibirla.
Leggere Lolita a Teheran era l'ultima cosa in ordine di tempo (dopo Innamorarsi a Teheran, Guardare i Fratelli Marx a Teheran) che Azar Nafisi aveva elencato in un taccuino segreto - e che si rimproverava di aver taciuto a tutti. Molte delle altre, a tanti anni di distanza, ha deciso di raccontarle in questo libro. Che è un magnifico ritratto del padre, sindaco di Teheran all'epoca dello Scià, e della madre, primo membro femminile del parlamento iraniano. È la storia dei tradimenti di lui, del mondo fantastico in cui lei a poco a poco trasforma la realtà insopportabile che la circonda, e soprattutto della forzata, dolorosa connivenza dell'autrice con il padre. Ma è anche e soprattutto la rivelazione di come a volte le dittature sembrino riprodurre i silenzi, i ricatti, le doppie verità su cui si regge il primo, e più perfetto, sistema totalitario: la famiglia. Chi conosce Nafisi sa già cosa troverà, qui, in ogni pagina: l'emozione di leggere sempre, a dispetto di tutto, qualcosa di vero e di importante. Qualcosa che magari arriva da molto lontano - dalle strade e dai giardini di Teheran, certo, ma anche dalle pagine di Firdusi, o dei grandi cantastorie persiani -, eppure ci riguarda molto da vicino.
Celebre per il seminario clandestino nel quale, durante il governo degli ayatollah, insegnava alle sue migliori allieve dell'Università di Teheran i grandi autori di lingua inglese, Azar Nafisi, oggi cittadina americana, ci parla del valore inestimabile della letteratura "in una società che sembra concedere tutte le libertà": anche qui, infatti, ha bisogno di essere difesa, diffusa e studiata strenuamente, quale vero antidoto alla "pigrizia dell'intelletto". L'interpretazione di tre classici - "Huckleberry Finn", "Babbitt" e "Il cuore è un cacciatore solitario" - intessuta, come in "Leggere Lolita a Teheran", di frammenti autobiografici, trasmette così una visione della letteratura come rifugio e al tempo stesso come mezzo di eversione pubblica e privata. E come sogno: un sogno condiviso, nella "Repubblica dell'immaginazione", da quei lettori che non conoscono frontiere o libri proibiti e che sanno apprezzare le parole di Francis Scott Fitzgerald: "Spingi la sedia sull'orlo del precipizio e ti racconterò una storia".
Una bella e spregiudicata ragazza ebrea escogita un modo davvero insolito per estorcere al padre il consenso a un matrimonio non tradizionale, e soprattutto il denaro necessario a finanziare cerimonia e nido d'amore; due fratelli che più distanti e diversi non si può ritrovano un'intimità dimenticata svuotando la casa della loro infanzia dopo la morte dei genitori; un giovane marito infedele apre finalmente gli occhi sul "segreto" del nonno rabbino; un marito innamorato e tradito ritrova la sicurezza perduta con l'aiuto del figlio. È la vita, la protagonista di questo libro, è la condizione umana ad affascinare l'autore: i piaceri e i tormenti della famiglia, dell'amore, del sesso, del denaro, del lavoro, della religione. Le storie brulicano di padri, madri, figli, figlie, fratelli, sorelle, amanti, anime complicate, desideri confusi. Nadler è uno scrittore che non crea personaggi "normali" perché sa che non esistono persone normali. I suoi maestri sono Saul Bellow, Isaac B. Singer, Bernard Malamud, Nathan Englander. Ma la freschezza del suo punto di vista sulle gioie, i dolori, i problemi e le ossessioni di tutti gli uomini iscitti da Dio nel Libro della vita rende queste storie nuove, originali, uniche.
Atefeh ha dodici anni e vive in Iran, in un piccolo villaggio in riva al mare. Nel suo mondo non ci sono cinema né computer, e a scuola può andarci solo quando non ci vanno i ragazzi. Aveva un’amica, Setareh, a cui assomigliava moltissimo, tanto che da piccole si distinguevano solo per la piccola cicatrice a forma di trifoglio che Atefeh ha in fondo alla schiena, ricordo di una lontana ferita su cui il nonno aveva versato una goccia di inchiostro. Ma ormai da tempo l’amica non c’è più, sparita nel nulla con la famiglia. Da quando è rimasta orfana, Atefeh vive sola con il nonno, uomo affettuoso e dalla mente aperta, che le racconta di quando l’Iran si chiamava Persia e coi suoi profumi di tè e spezie incantava gli stranieri che arrivavano da tutto il mondo. E le racconta di altri paesi, dove non ci sono guardiani della morale che fanno tagliare i seni ai manichini, sigillare le fontane e lapidare i cani che si accoppiano per strada. O spiare le ragazzine per sorvegliarne la moralità, come fa il nuovo giudice, appena giunto al villaggio, e in cerca di una moglie molto giovane. Non avendo un padre, un fratello o un marito che salvaguardi il suo onore, con la sua bellezza in fiore Atefeh è una facile preda, e il velo che gli uomini la costringono a portare proprio per difendersi da loro, rischia di non proteggerla abbastanza. Una storia delicata e violenta, attuale anche se sembra antica, su una ragazza che alla follia del fanatismo oppone la forza dei propri sogni.
Le rose allineate con grazia, le fronde della palma da datteri, l'albero d'arance, la verde frescura: nei ricordi di Ibrahim Nadir il giardino della casa di Baghdad dov'è cresciuto era un vero e proprio Eden. Ma la capitale irachena che Leilah, figlia di Ibrahim, racconta in queste pagine, non somiglia a questa immagine: i mercenari della Blackwater che sparano sui civili, le autobombe, i posti di blocco. Di padre iracheno cristiano e di madre britannica, cresciuta tra l'Inghilterra e il Canada, Leilah Nadir non ha mai messo piede in Iraq. Quando nel 2003 gli Stati Uniti cominciano la loro "democratizzazione" a colpi di bombe, Leilah capisce che la sua terra d'origine presto sarà irriconoscibile, ancora straziata dalla guerra. Leilah deve conoscere quella parte di famiglia la cui esistenza potrebbe essere annientata da un momento all'altro. Deve scrivere la loro storia. E attraverso il destino dei suoi parenti trova voce la disperazione dei civili iracheni, che possono perdere gambe e braccia perché un'auto salta in aria davanti a loro, ma non possono curarsi perché non esistono più infrastrutture; possono morire per mano di un soldato americano dal grilletto facile ma non essere accolti dalle nazioni che li hanno "liberati" perché cittadini di un paese "democratico", non più rifugiati politici. Una disperazione che i media occidentali non ci fanno conoscere. Un viaggio alla ricerca di se stessa e delle proprie origini accompagnato dalle immagini della fotografa Farah Nosh.
«Ci sono estati chiuse come scatole, sigillate. Sono estati che trascorri in una stanza, in ufficio, o su un letto d'ospedale, in una cella, in uno spazio delimitato da pareti che ti sono ostili. A volte è il lavoro che ti costringe alla clausura, altre volte la malattia, tua o di un tuo caro, oppure la necessità di concentrarti per originare un'opera, o è la depressione che ti impedisce di uscire. Sei rinchiuso in un buio che non se ne va nemmeno quando spalanchi le finestre. Sei al centro della stanza ma è come se non ci fossi. Capitano estati così. È da quel buio che nasce il desiderio incontenibile del cammino. Non è desiderio di andare in ferie dopo un anno di lavoro. Chi è al centro del buio non ha bisogno di ferie, non sa che farsene. Né di spiagge, di hotel, di baite, di centri storici, di musei. Chi sta in quel buio vuole di più. Vuole solamente una cosa: il cammino». Luigi Nacci, originale cantore della 'viandanza', della vita come cammino, si interroga sul valore che ha in questi tempi concitati e iperconnessi la pratica ancestrale e stravolgente del viaggio a piedi.
Nella riproduzione in copertina di un particolare della Presentazione al Tempio di Giovanni Bellini, i due volti guardano in direzioni opposte e pare di cogliere sulle loro labbra l'ombra di un sarcasmo, il sentimento recondito di qualcosa di negativo che, nel momento solenne della presentazione di Gesù, incombe o è già accaduto. In questi racconti vengono descritti cinque protagonisti, colti prima o dopo il periodo in cui sono stati al vertice del potere, dunque all'inizio o alla fine della metamorfosi che li ha portati a indossare una maschera infernale. Pol Pot, il tiranno cambogiano, è la mite mascotte di un gruppo di studenti a Parigi; Loan, capo della polizia del Vietnam del sud, diventa l'anonimo proprietario di un ristorante in Virginia; Albert Speer, delfino di Hitler, passa il tempo sognando di viaggiare nel cortile del carcere di Spandau; il giovane Hitler è ospite nel ricovero viennese per senzatetto e disegna cartoline; Seneca, in punto di morte, confessa in alcune lettere i suoi tormenti e segreti. Non sono ancora o non sono più dei mostri, sono uomini comuni sulla frontiera del male.
Il testo più importante del periodo russo di Nabokov.
Il sessantunenne John Shade, professore al Worthsmith College dell'immaginaria cittadina americana di New Wye, sta ultimando un poema in cui i ricordi d'infanzia si mescolano a interrogativi metafisici sull'"osceno, inammissibile abisso" della morte, che incombe ossessivamente sul poeta dopo che la giovane figlia si è uccisa gettandosi in un lago. Tuttavia Shade sigla gli ultimi versi del poema con un'ironica ma serena dichiarazione di fiducia: si vive in qualche luogo anche dopo la fine, e l'armonia dell'arte ne costituisce la tacita promessa. A questo punto nel quieto scenario di New Wye irrompe, inaspettata, proprio la morte: uno sconosciuto spara a Shade in strada, pochi istanti dopo che ha scritto il suo ultimo verso.
Due volte esule, dalla Russia comunista e dall'Europa nazista, negli Stati Uniti Nabokov insegnò per quasi vent'anni letteratura russa al Wellesley College e in seguito alla Cornell University. Erano lezioni memorabili in cui, con paziente tenacia, richiamava l'attenzione su oggetti o particolari che sembrano non avere alcuna rilevanza artistica: la borsa rossa di Anna Karenina; la fetta di cocomero che Gurov mangia rumorosamente in una stanza d'albergo nella Signora col cagnolino o il vestito «serpentino» di Aksin'ja in un altro racconto di ?echov, «artista perfetto»; la ruota del tondeggiante calesse sul quale, in Anime morte di Gogol', il tondo ?i?ikov, ipostasi dell'enfia volgarità universale, arriva nella città di NN. Maestro atipico, spericolato, Nabokov avrebbe voluto trasformare gli allievi in «buoni lettori», quelli che non leggono un libro per identificarsi con i personaggi, e tantomeno per imparare a vivere, giacché la vera letteratura - gioco sacro, superiore forma di felicità - non insegna nulla che possa essere applicato ai problemi della vita. Metteva in guardia contro il veleno ideologico del «messaggio» e contro ogni tentativo di cercare la famigerata «anima russa» nell'opera di giganti come Tolstoj, ?echov, Gogol' e il pur disamato Dostoevskij. Il professor Nabokov non ha alcun metodo, alcun approccio critico: con gli unici strumenti della passione e di una precisione infinita, si limita a scoprire la magia delle parole nelle loro più segrete combinazioni. E noi, come i suoi studenti, lo ascoltiamo incantati mentre va dritto al cuore di questo o quel capolavoro.
"Dopo trentasei anni rileggo Lolita di Vladimir Nabokov, che ora Adelphi ripresenta... Trentasei anni sono moltissimi per un libro. Ma Lolita ha, come allora, un'abbagliante grandezza. Che respiro. Che forza romanzesca. Che potere verbale. Che scintillante alterigia. Che gioco sovrano. Come accade sempre ai grandi libri, Lolita si è spostato nel mio ricordo. Non mi ero accorto che possedesse una così straordinaria suggestione mitica". (Pietro Citati)