
Mazzi di chiavi, telefoni, biglietti da visita, occhiali da sole, documenti e palloncini colorati scappati via da mani bambine. Ma anche gli 'ego' individuali, i 'soggetti' intesi come idee e storie che perdono e si perdono fino a un gesto che affiora in un ricordo. "Mi ha guidato nella scelta un'idea dei margini, forse anche un'idea del fantasma. I fantasmi sono dolorosi, i fantasmi sono necessari. I fantasmi sono quello che ci manca, disse una volta Carmelo Bene, essa ci deve mancare. "Oggetti smarriti" sono frasi, racconti, avventure, occasioni, protocolli di esperienza, alcuni recentissimi, altri remoti. Hanno in comune, oltre a una scrittura ibrida, tra il documentario e la finzione, il sentimento di essere perduti".
Jacques Austerlitz è un professore di storia dell'architettura, studioso di quei luoghi che, soprattutto nell'Ottocento, tendevano ad assumere forme involontariamente visionarie. Alto, dinoccolato, molto somigliante a Wittgenstein cui lo accumuna un vecchio zaino che costantemente porta in spalla, Austerlitz vive a Londra in un appartamento spoglio, privo di affetti e povero di amicizie. Dietro la sua dottrina si spalanca il vuoto. Austerlitz semplicemente non sa chi è e a un certo punto si mette alla "ricerca delle proprie tracce". Il passato riemerge lentamente ed è lacerante: tutta la sapienza dell'autore sembra concentrarsi in questo itinerario di ricerca assolutamente angosciante.
Quattro personaggi intrecciano negli "Emigrati" la loro vita con quella dell'autore: Henry Selwyn, brillante chirurgo e uomo di mondo, ritiratosi in tarda età nella torre di una casa della campagna inglese dove Sebald affitta in gioventù un appartamento; Paul Bereyter, promeneur walseriano e maestro elementare del futuro scrittore in una scuola di paese; il prozio Ambros Adelwarth, cameriere negli hotel di lusso di mezzo mondo e maggiordomo presso l'alta società; il pittore Max Ferber, compagno di lunghe conversazioni serali a Manchester. Quattro personaggi legati alle vicende del popolo ebraico, spaesati ed errabondi, di cui Sebald ripercorre il cammino andando in cerca di amici e testimoni, diari, documenti, ritagli di giornali, fotografie, cartoline, e intessendo come sempre parola e immagine fotografica - in un'investigazione che è anche indagine sul proprio sradicamento.
Piogge di fuoco divorante, mari tempestosi, ghiacci e rocce di un mondo vuoto di uomini, luci radianti, deserti combusti: con somma potenza di immagini, con il ritmo che il verso libero imprime a un linguaggio avvolgente, e in un costante intreccio di saperi (arte, scienze naturali, letteratura), Sebald ci offre nel poemetto "Secondo natura" - opera prima - un trittico che già contiene in nuce i caratteri della sua futura narrativa. I passeggiatori e gli emigrati dei romanzi e dei racconti sono già tutti qui prefigurati: la tragica vita del pittore Grünewald e di un suo misterioso doppio nella terrificante descrizione di opere come la pala d'altare di Isenheim; il viaggio dell'esploratore e medico settecentesco G. W. Steller alla scoperta, con Vitus Bering, dello stretto marino fra i ghiacci della Siberia e dell'Alaska; un'autobiografia, dalla nascita sotto le bombe, in un mattino di primavera, alle peripezie della famiglia e ai vagabondaggi europei, così simili a quelli di Jacques Austerlitz. "Secondo natura" è il primo dei tanti viaggi che Sebald ha intrapreso nei territori di una natura colta con sguardo snebbiato, nelle sue incessanti metamorfosi.
Pellegrinaggio in Inghilterra recita il sottotitolo. E di un viaggio solitario si tratta, d'estate e per lo più a piedi, nel Suffolk, dove Sebald visse sino all'ultimo: in uno spazio delimitato da mare, colline e qualche città costiera, attraverso grandi proprietà terriere in decadenza, ai margini dei campi di volo dai quali si alzavano i caccia britannici per bombardare la Germania. Viandante saturnino («Nato sotto il segno del freddo pianeta Saturno» dice di sé nel poemetto Secondo natura), Sebald ci racconta - lungo dieci stazioni di un itinerario che è anche una via di fuga - gli incontri con interlocutori bizzarri, amici, oggetti che evocano le fasi di quella « storia naturale della distruzione » che scandisce il cammino umano e il susseguirsi degli eventi naturali. E ci racconta storie di altri vagabondaggi ed emigrazioni, di cui la sua vicenda personale è estrema eco: quelli di Michael Hamburger, poeta e traduttore di Hölderlin, profugo anche lui dalla Germania; di Joseph Conrad, che nel Congo conosce la malinconia dell'emigrato e l'orrore per le tragedie del paese di tenebra; di Chateaubriand, esule in Inghilterra; di Edward Fitz-Gerald, eccentrico interprete della lirica persiana, che a bordo della sua piccola imbarcazione trascorre ore in coperta, con indosso marsina e cilindro e un lungo, svolazzante boa di piume bianche intorno al collo. Pellegrinaggio e insieme labirinto, nella miglior tradizione sebaldiana: ma anche qui, a guidare scrittore e lettore, e a impedirne la cieca erranza, vi è un filo.
Nel 1966, in procinto di lasciare la Svizzera per Manchester, Sebald mette in valigia i libri di tre scrittori destinati a segnare per sempre la rotta dei suoi incessanti viaggi letterari. Per questo, più di trent'anni dopo, sente di dover rendere a Gottfried Keller, Johann Peter Hebel e Robert Walser un personale tributo, assecondando ancora una volta "quello strano disturbo del comportamento che costringe a trasformare tutti i sentimenti in parole scritte e che, pur mirando alla vita, riesce sempre con sorprendente precisione a mancare il centro". In realtà, nel seguire in queste "note marginali d'una certa ampiezza" le tracce dei suoi autori prediletti - cui negli anni si sono aggiunti Rousseau e Mörike -, Sebald indaga le derive compulsive della scrittura, che finiscono per rendere chi ne è colpito il più inguaribile tra i "malati di pensiero". Ne riconosciamo gli effetti sul filosofo francese il quale, pur ravvisando "nell'uomo pensante un animale degenerato", arriva a prendere appunti persino sulle carte da gioco; su Walser, che conduce una silenziosa battaglia contro la folle grandiosità del suo tempo e compone in una grafia sempre più minuta, ai limiti del visibile, i leggendari "microgrammi"; e così su Keller, Hebel, Mòrike, la cui arte assomiglia al tentativo di esorcizzare, quasi fosse una maledizione, "il nero garbuglio che minaccia di prendere il sopravvento".
L'origine della musicalità che tutti avvertono in Sebald colta nelle tracce autobiografiche di questa piccola raccolta di prose e di versi: un'infanzia nella Germania postbellica, una giovinezza in cui vanno gemmando temi e Leitmotiv di un'intera opera.
Jacques Austerlitz è un professore di storia dell'architettura, studioso di quei luoghi che, soprattutto nell'Ottocento, tendevano ad assumere forme involontariamente visionarie. Alto, dinoccolato, molto somigliante a Wittgenstein cui lo accumuna un vecchio zaino che costantemente porta in spalla, Austerlitz vive a Londra in un appartamento spoglio, privo di affetti e povero di amicizie. Dietro la sua dottrina si spalanca il vuoto. Austerlitz semplicemente non sa chi è e a un certo punto si mette alla "ricerca delle proprie tracce". Il passato riemerge lentamente ed è lacerante: tutta la sapienza dell'autore sembra concentrarsi in questo itinerario di ricerca assolutamente angosciante.
Spartito in quattro racconti, "Vertigini" è un libro in cui domina il tema del viaggio: un errare che ha per protagonisti non solo il narratore nelle sue lunghe peregrinazioni fra Vienna, Venezia, Verona e i luoghi dell'infanzia nelle Alpi bavaresi, ma anche scrittori come Stendhal, Casanova e Kafka, ritratti durante i loro soggiorni in Italia. Stazioni ferroviarie e camere d'albergo, fughe di case e alberi dietro i finestrini di un treno, compagni di viaggio che paiono minacciose reincarnazioni di personaggi storici, estenuanti itinerari cittadini con lo zaino in spalla scandiscono questi percorsi nello spazio e nel tempo: percorsi interiori, alle radici della malinconia e del ricordo, cui solo la scrittura può restituire la vita.
Mosca 1945: mentre Stalin si appresta a festeggiare la vittoria sui nazisti insieme ai suoi più stretti collaboratori, poco distante risuonano due spari. Un ragazzo e una ragazza vengono trovati morti su un ponte: non sono persone qualsiasi, bensì appartengono a due delle famiglie più influenti e più vicine a Stalin e frequentano entrambi il collegio più esclusivo dove studia tutta la nuova élite politica e intellettuale dell'Unione Sovietica. Si tratta di un omicidio? Di un doppio suicidio? Di una cospirazione contro lo Stato? Le indagini si svolgono sotto il diretto controllo di Stalin, che fa interrogare i compagni di scuola costringendoli a testimoniare contro i loro amici, i loro fratelli e i loro stessi genitori, in una terribile caccia alle streghe che porta alla luce amori illeciti e segreti famigliari e in cui il più piccolo sbaglio può significare una condanna a morte...
Ispirato al ritrovamento di un polveroso fez nella soffitta della casa dei genitori, Jeremy Seal parte nel 1993 per la Turchia con l'intento di ricostruirne la straordinaria storia. Nel 1925 Kemal Ataturk, padre della Turchia moderna, proibì al popolo turco di indossare il tradizionale copricapo come segno di modernizzazione. Quasi settanta anni dopo Seal intraprende una diligente ricerca sulle tracce del fez, ormai introvabile dappertutto, attraversando un paese diviso tra tradizione e modernità, tra influenza europea e islamica.
All'alba del 1925 il più giovane presidente del Consiglio d'Italia e del mondo, l'uomo che si è addossato la colpa dell'omicidio di Matteotti come se fosse un merito, giace riverso nel suo pulcioso appartamento-alcova. Benito Mussolini, il "figlio del secolo" che nel 1919, rovinosamente sconfitto alle elezioni, sedeva nell'ufficio del Popolo d'Italia pronto a fronteggiare i suoi nemici, adesso, vincitore su tutti i fronti, sembra in punto di morte a causa di un'ulcera che lo azzanna da dentro. Così si apre il secondo tempo della sciagurata epopea del fascismo narrato da Scurati con la costruzione e lo stile del romanzo. M. non è più raccontato da dentro perché diventa un'entità distante, "una crisalide del potere che si trasforma nella farfalla di una solitudine assoluta". Attorno a lui gli antichi camerati si sbranano tra loro come una muta di cani. Il Duce invece diventa ipermetrope, vuole misurarsi solo con le cose lontane, con la grande Storia. A dirimere le beghe tra i gerarchi mette Augusto Turati, tragico nel suo tentativo di rettitudine; dimentica ogni riconoscenza verso Margherita Sarfatti; cerca di placare gli ardori della figlia Edda dandola in sposa a Galeazzo Ciano; affida a Badoglio e Graziani l'impresa africana, celebrata dalla retorica dell'immensità delle dune ma combattuta nella realtà come la più sporca delle guerre, fino all'orrore dei gas e dei campi di concentramento. Il cammino di M. Il figlio del secolo - caso letterario di assoluta originalità ma anche occasione di una inedita riaccensione dell'autocoscienza nazionale - prosegue qui in modo sorprendente, sollevando il velo dell'oblio su persone e fatti di capitale importanza e sperimentando un intreccio ancor più ardito tra narrazione e fonti dell'epoca. Fino al 1932, decennale della rivoluzione: quando M. fa innalzare l'impressionante, spettrale sacrario dei martiri fascisti, e più che onorare lutti passati sembra presagire ecatombi future.

