
Passioni e sentimenti, paure, tenerezze, invocazioni, tradimenti, ricongiungimenti, botte e minacce, miseria e malattia: tutto sotto "Un cielo fatto solo d'amore". È l'incontro di Dino Campana con Sibilla Aleramo, incontro straordinario, come le lettere che i due amanti si scrissero. Ogni pagina di questo carteggio è un viaggio, esaltante e senza soste, che ha inizio sotto il sole infuocato dell'agosto 1916, fra la vera montagna dei solitari e la pura bellezza dei grandi boschi e prosegue serenamente negli ultimi splendori della bella stagione a Faenza e Marradi, fino a quando il "vento iemale" non li trascina in paesi sperduti dell'Appennino, dove il freddo morde ancora più che nelle soffitte dei lungarni e nelle ville sulle colline di Firenze che li accoglieranno. Il percorso si fa tortuoso come le vicende alle quali si assiste, segnato da un continuo andirivieni fra Pisa, Livorno, Firenze, Sorrento. È ormai il 1917: sullo sfondo l'anno più duro della guerra, in primo piano i due amanti e il loro disperato tentativo di trovarsi e abbandonarsi, affidato ormai soltanto alle lettere che si incrociano tra la Toscana e il Piemonte. Poi, nel gennaio del 1918, davanti al cancello del manicomio di San Salvi, il viaggio si interrompe. I Canti Orfici, unica e grande opera di Campana, lo manterrà vivo oltre la morte, avvenuta dopo un internamento di quattordici anni. Sibilla Aleramo, che trasformò la sua lunga vita in letteratura, mai riuscì a raccontare...
Questo romanzo di Sibilla Aleramo è del 1906. La sua immediata fortuna in Italia e nei paesi in cui fu tradotto segnalò una nuova scrittrice, che in seguito avrebbe fornito altre prove di valore, segnatamente nella poesia. Ma soprattutto esso richiamò l'attenzione per il suo tema: si tratta infatti di uno dei primi libri 'femmisti' apparsi da noi. Prefazione di Anna Folli, postfazione di Emilio Cecchi.
"La mia unica opera di getto": così Sibilla Aleramo definì questo romanzo epistolare, pubblicato nel 1927. Sono quarantatré appassionate lettere all'amante lontano, scritte per divenire, al suo ritorno, il "loro libro". Protagonisti Sibilla e Luciano, enigmatico e bellissimo giovane che si sottrae al suo amore per un ritiro spirituale iniziatico. Luciano fu nella realtà Giulio Parise, fascinoso mago del cenacolo di Julius Evola, amato dalla scrittrice fra il 1924 e il 1926. Un romanzo quindi autobiografico, che conserva tuttora la sua vivacità e sincerità e ricchezza, e mette a fuoco le perverse atmosfere della buona società romana del periodo fascista. Come sempre, anche in queste lettere mai spedite, l'autrice si abbandona ai ricordi, soprattutto amorosi, e alla confessione delle più impercettibili sensazioni fisiche e psicologiche. Il libro, che anticipa la scrittura degli ultimi "Diari", dà valore letterario alla quotidianità ed evoca i fantasmi della solitudine, della miseria, dell'isolamento nel panorama culturale dei tempi. Sibilla Aleramo vi rivendica il diritto all'identità di donna e scrittrice in un mondo maschile e maschilista, mostrando la contraddittorietà insita nell'essere artefice e vittima della propria immagine pubblica.
Ad Aburrùs, antico vicolo della Mecca, giace il cadavere nudo di una donna. Il volto è sfigurato, è impossibile identificarla. Gli abitanti della zona sono scossi, temono che la polizia possa scavare nelle loro vite e portare alla luce segreti custoditi gelosamente. Storie di famiglia, amori proibiti, intrighi di una città preda di società immobiliari senza scrupoli. Incaricato delle indagini, mentre cerca di scoprire chi sia la vittima, l'ispettore Nasser si immerge nelle tormentate esistenze di Aisha e Azza, misteriosamente scomparse dal vicolo poco prima del ritrovamento del corpo. Insegnante ripudiata dal marito, Aisha intratteneva una corrispondenza amorosa con un medico tedesco, mentre alla ribelle Azza erano dedicate le pagine del diario del suo vicino Yusuf, giovane storico ossessionato dalla grandezza del patrimonio artistico e religioso della città più santa dell'Islam. Continuando a cercare la verità sulla donna uccisa, Nasser trova preziosi indizi tra gli scritti di Aisha e Yusuf. Scoprirà quanto la sua antica città sia minacciata dalla corruzione, e capirà che è il suo cuore sacro, la Kaaba, a dover essere salvato dallo scontro tra tradizioni ancestrali e una tensione brutale verso la modernità.
In queste pagine Svetlana Aleksievič presenta la sua opera, che tratta delle nuove paure che ci stanno davanti. Alla domanda: Cosa dobbiamo essere, un paese forte o un paese degno, dove sia bello vivere? abbiamo scelto la prima possibilità: un paese forte. E siamo ritornati al tempo della forza. I russi sono in guerra con gli ucraini, fratelli contro fratelli. Chi vorrà più andare a combattere dopo libri del genere!? mi erudiva il censore. La sua guerra è solo orrore. Come mai non ci sono eroi?. Non ci sono perché non li ho cercati. Ho voluto scrivere la storia di quella guerra proprio attraverso i racconti di quei testimoni e partecipanti che erano stati ignorati da tutti, ai quali nessuno aveva mai chiesto niente. Introduzione Goffredo Fofi.
"Per me non è tanto importante che tu scriva quello che ti ho raccontato, ma che andando via ti volti a guardare la mia casetta, e non una ma due volte". Così si è rivolta a Svetlana Aleksievic, congedandosi da lei, una contadina bielorussa. La speranza di avere affidato il racconto della propria vita a qualcuno capace di vero ascolto non poteva essere meglio riposta. Far raccontare a donne e uomini, protagonisti, vittime e carnefici, il dramma corale delle "piccole persone" coinvolte dalla Grande Utopia comunista è il cuore del lavoro letterario dell'autrice e questo libro, sullo sfondo della grande tragedia collettiva legata al crollo dell'Unione Sovietica e della tormentosa e problematica nascita di una nuova Russia, costituisce il coronamento ideale di un lavoro di trent'anni. Qui sono decine i protagonisti-narratori che raccontano cos'è stata l'epocale svolta tuttora in atto: contadini, operai, studenti, intellettuali, nonché misconosciuti eroi sovietici i quali non sanno rassegnarsi al tramonto degli ideali e a un'esistenza che esclude i deboli e gli ultimi. È uno spaccato della tramontata civiltà sovietica, quasi un'enciclopedia dei sogni dell'uomo rosso, fecondata dal dono che ha l'autrice di saper penetrare l'anima di coloro che hanno vissuto quell'epoca anche esaltante e stentano oggi ad adattarsi a un "tempo di seconda mano".
"Per me non è tanto importante che tu scriva quello che ti ho raccontato, ma che andando via ti volti a guardare la mia casetta, e non una ma due volte". Così si è rivolta a Svetlana Aleksievic, congedandosi da lei sulla soglia della sua chata, una contadina bielorussa. La speranza di avere affidato il racconto della sua vita a qualcuno capace di vero ascolto non poteva essere meglio riposta. Far raccontare a donne e uomini, protagonisti e vittime e carnefici, un dramma corale, quello delle "piccole persone" coinvolte dalla Grande Utopia comunista, che ha squassato la storia dell'URSS-Russia per settant'anni e fino a oggi, è il cuore del lavoro letterario di Svetlana Aleksievic. Questo nuovo libro, sullo sfondo del grande dramma collettivo del crollo dell'Unione Sovietica e della tormentosa e problematica nascita di una "nuova Russia", costituisce il coronamento ideale di un lavoro di trent'anni: qui sono decine i protagonisti-narratori che raccontano cos'è stata l'epocale svolta tuttora in atto: contadini, operai, studenti, intellettuali, dalla semplice militante al generale, all'alto funzionario del Cremlino, al volonteroso carnefice di ieri forse ormai consapevole dei troppi orrori del regime che serviva. Nonché misconosciuti eroi sovietici del tempo di pace e del tempo di guerra, i quali non sanno rassegnarsi al tramonto degli ideali e alle mediocri servitù di un'esistenza che, rispettando solo successo e denaro, esclude i deboli e gli ultimi.
Ci sono mondi che da lontano sembrano tristi e grigi. Realtà povere, in cui cibo e libertà scarseggiano, in cui la fatica sembra non finire mai. Eppure, paradossalmente, proprio di questi mondi, pur ricordandone tutte le ombre, decenni dopo si avverte la mancanza. Attraverso le testimonianze di donne e uomini che hanno attraversato e creduto alla Perestrojka, Svetlana Aleksievic? ci racconta l'utopia di un mondo finito, che non ha saputo restituire al suo popolo l'orgoglio di un tempo. Uno spaccato della tramontata civiltà sovietica, quasi un'enciclopedia dei sogni dell'uomo rosso, fecondata dal dono che ha l'autrice di saper penetrare l'anima di coloro che hanno vissuto quell'epoca anche esaltante e stentano oggi ad adattarsi a un "tempo di seconda mano.
Svetlana Aleksievic, nota al mondo per i suoi libri sulla seconda guerra mondiale, su Cernobyl?, sulla guerra in Afghanistan, si apre in questa intervista a una dimensione più intima e ci parla dell'amore fra uomo e donna, della ricerca della felicità, del legame che unisce ogni essere vivente, del suo interesse per la gente comune. Con una passione sconfinata per il dettaglio, per i piccoli angoli della storia, Svetlana crea un mosaico di bellezza. Le grandi utopie hanno cancellato interrogazioni più intime e profonde, come ad esempio la domanda sull'amore. Che succede quando l'amore entra nella vita di una persona? È la vita che viene prima di ogni altro pensiero. Perché allora, della vita, si parla così poco?
In queste pagine Svetlana Aleksievi? presenta in tre interventi la sua opera, che tratta «delle nuove paure che ci stanno davanti. Siamo in un mondo diverso da prima, la nostra anima deve affrontare molte prove e imparare di nuovo il coraggio di vivere». Dando voce alla sofferenza, ai testimoni, alle vittime, la Aleksievi? esplora nodi cruciali per la storia del suo paese: la Seconda guerra mondiale vista dalle donne, la fine dell'utopia comunista, la guerra dell'Armata rossa in Afghanistan e l'incidente nucleare di ?ernobyl', che costrinse l'umanità a confrontarsi con la propria precarietà, scoprendosi indifesa di fronte a una nuova dimensione del male, a minacce impalpabili, a nemici invisibili quanto inesorabili. Una condizione che oggi, dopo l'11 settembre, la guerra permanente e i continui attentati terroristici, possiamo leggere nella sua drammatica evidenza.
Se la guerra la raccontano le donne, quando prima l'hanno raccontata solo gli uomini... se a farla raccontare è Svetlana Aleksieviéc... se le sue interlocutrici avevano in gran parte diciotto o diciannove anni quando, perlopiù volontarie, sono accorse al fronte per difendere la patria e gli ideali della loro giovinezza contro uno spietato aggressore... allora nasce un libro come questo. 22 giugno 1941: l'uragano di ferro e fuoco che Hitler ha scatenato verso Oriente comporta per l'URSS la perdita di milioni di uomini e di vasti territori e il nemico arriva presto alle porte di Mosca. Centinaia di migliaia di donne e ragazze, anche molto giovani, vanno a integrare i vuoti di effettivi e alla fine saranno un milione: infermiere, radiotelegrafiste, cuciniere e lavandaie, ma anche soldati di fanteria, addette alla contraerea e carriste, genieri sminatori, aviatrici, tiratrici scelte. La guerra "al femminile" - dice la scrittrice - "ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti e anche parole sue". Lei si è dedicata a raccogliere queste parole, a far rivivere questi fatti e sentimenti, nel corso di alcuni anni, in centinaia di conversazioni e interviste. Cercava l'incontro sincero che si instaura tra amiche e quasi sempre l'ha trovato: le ex combattenti e ausiliarie al fronte avevano serbato troppo a lungo, in silenzio, il segreto di quella guerra che le aveva per sempre segnate...
Nell'estate del 1941 le truppe tedesche invadono la Bielorussia e occupano la capitale, Minsk. Gli eroi di questo libro sono bambini e ragazzi bielorussi e russi che hanno vissuto la terribile quotidianità di quegli anni di guerra e sono cresciuti nell'orrore del più disumano dei conflitti, Pubblicato per la prima volta nel 1985 e censurato dal regime sovietico, "Gli ultimi testimoni" compare oggi nella sua versione definitiva, per raccontarci una storia diversa da quella ufficiale, letta attraverso i ricordi e gli occhi innocenti dei più piccoli. Le loro parole, che per semplicità e immediatezza hanno una forza evocativa ancora più sconvolgente, cancellano ogni ideologia e modificano il nostro sguardo sul mondo. Un bambino che è stato strappato alla sua famiglia e defraudato della sua infanzia resta ancora un bambino? Che interpretazione può dare della guerra, suo unico orizzonte di vita? Quali sono le immagini che più l'hanno segnato? Sono questi gli interrogativi a cui il premio Nobel Svetlana Aleksievic cerca di dare risposta attraverso le sue interviste. Ma la conclusione è che non c'è azione attuata per il bene universale che possa giustificare anche "una sola lacrima di bambino".