
Trieste, 1944. Marta ha diciassette anni, “un’età in cui tutto ci accontentava e ci faceva sorridere”. Quei sorrisi vengono strappati brutalmente la sera del 29 marzo, quando due SS fanno irruzione in casa per prelevare la famiglia Ascoli, per metà ebrea. È l’inizio di un calvario senza fi ne. La prima tappa è la risiera di San Sabba, unico campo di concentramento nazista in Italia; poi verranno la separazione dalla madre, il terribile viaggio in treno verso Auschwitz, sola donna in un convoglio di uomini per non abbandonare il padre; quindi Birkenau, poi Bergen-Belsen, la neve, i lavori forzati, la denutrizione, le malattie, le torture. E quella frase che suona come una condanna a morte continuamente rinviata: «Tu da qui non uscirai che per il camino». Eppure Marta resta attaccata alla vita con tutte le sue forze; infi ne, stremata, quando decide di farla fi nita lanciandosi contro il fi lo spinato, la sentinella che la scopre non spara. Il destino ha in serbo per Marta il 15 aprile 1945, il giorno della liberazione per mano degli inglesi e la gioia immensa del ritorno a casa. Attraverso la sua testimonianza, Marta Ascoli ci ricorda la tragedia vissuta da una famiglia, dal popolo ebraico, dall’umanità intera: e, con la forza di un grido, ci spiega che Auschwitz è di tutti, luogo-simbolo della più grande ferita aperta nella storia del Novecento.
Ambientato nella Polonia degli anni Trenta, questo sorprendente romanzo narra l'incontro tra un giovane ebreo e uno storico antisemita, Pan Viadomsky, il quale afferma di essere la reincarnazione di un ufficiale di Ponzio Pilato. Prende cosi il via un'insolita ricostruzione della vita di Gesù, compiuta attraverso la voce dello storico Viadomsky, quella del giovane ebreo, nel quale si sarebbe reincarnato Giovanni, allievo di Nicodemo, e un frammento del perduto Vangelo di Giuda Iscariota. Alternando con grande abilità due diversi piani temporali - la Palestina antica e la Varsavia su cui si allungano le ombre cupe dell'antisemitismo - Sholem Asch riuscì a creare un'opera tanto ambiziosa quanto rischiosa. Lui, ebreo praticante, pubblico il romanzo nel 1939 alle soglie della Seconda guerra mondiale, come richiamo alla riconciliazione religiosa di fronte all'intolleranza e alle persecuzioni dilaganti in Europa. "Il Nazareno", accolto con favore da parte del pubblico ma anche con molte opposizioni, tra cui quella della comunità ebraica che lo accusò di fare propaganda al Cristianesimo, fu seguito da altri due romanzi, in un'ideale "trilogia cristiana": nel 1943 "L'apostolo" (Castelvecchi, 2013) e nel 1949 "Maria".
Questo romanzo scritto in yiddish da un ebreo praticante, narra la storia di Gesù di Nazareth attraverso le testimonianze di tre suoi contemporanei: un soldato romano, Giuda Iscariota, e un giovane studente rabbinico. La narrazione si basa sull'idea di trasmigrazione delle anime e a dare voce ai tre personaggi sono uno storico polacco, che riferisce di una sua vita precedente in cui era uno degli scagnozzi di Ponzio Pilato; un manoscritto attribuito a Giuda; e, infine, il giovane assistente ebreo dello storico. I tre racconti compongono un quadro vivido, ricco di dettagli storici e riflessioni filosofiche, del passaggio di Gesù sulla Terra, soffermandosi sui suoi sermoni più enigmatici e contestualizzando il suo ministero a favore dei poveri e degli esclusi. Pubblicato negli USA nel 1939, il romanzo è stato acclamato dalla stampa di lingua inglese, ma ha alienato ad Asch, allora al culmine della notorietà, le simpatie del pubblico ebraico. Il Nazareno è il primo capitolo della trilogia di cui fanno parte anche L'Apostolo (1943, edito da Castelvecchi nel 2012) e Maria (1949).
Il romanzo sulla figura di san Paolo, l'"apostolo dei Gentili" che portò il Cristianesimo fuori dai confini del mondo ebraico diventando il principale messaggero del Vangelo di Gesù tra i pagani, è forse il capitolo più riuscito della trilogia di Sholem Asch sulla storia letteraria del Cristianesimo. Un'opera che provocò la rottura tra l'autore e gli ambienti ebraici ortodossi per quella che sembrava, a tutti gli effetti, una riabilitazione del messaggio cristiano. Ciononostante i suoi romanzi ebbero un successo sconfinato: il "New York Times" definì queste opere come "le migliori mai scritte sulla storia cristiana". A settant'anni dalla sua prima pubblicazione, avvenuta nel 1943, "L'apostolo" resta oggi la chiave per comprendere e riscoprire una delle figure più controverse e talentuose della letteratura yiddish.
È alla ricerca del fratello piccolo, partito con l'intenzione di raggiungere l'Europa e mai arrivato, che Ibrahima Balde lascia la Guinea e il lavoro di camionista, per intraprendere un viaggio che non voleva fare, ma che è comune a migliaia di africani. Questo romanzo è la cronaca, lucida ed essenziale, della vita di Ibrahima Balde, da lui stesso raccontata, e trascritta dal poeta Amets Arzallus Antia. Una voce che ci fa capire, senza vittimismo ma in tutta la sua drammaticità, cosa sono la traversata del deserto, il traffico dei migranti, la prigionia, le torture, la violenza della polizia, il viaggio in mare, la morte. Una voce ferma, così chiara e profonda da diventare a tratti poetica, che ci racconta cosa significa conoscere la sete, la fame, la sofferenza. Esistono mille motivi e storie che portano una persona ad attraversare il Mediterraneo per cercare di raggiungere l'Europa. La disumanizzazione delle loro morti, le espulsioni, le vite illegali sembrano necessarie per alimentare la nostra indifferenza. In realtà ognuna di queste vite è unica e universale e questo racconto ne è la drammatica testimonianza.
Romanzo avvincente ambientato nel medioevo.
Narra il viaggio difficoltoso che ha percorso il chierico Reginaldo partendo dall’Abbazia di Novacella (Bressanone) per arrivare in Umbria e conoscere S. Francesco d’Assisi.
Il viaggio intrapreso è anche percorso interiore volto alla ricerca di Dio e del vero cristianesimo. Sulla strada per Assisi, Reginaldo diventa protagonista e testimone di moltissime avventure fino ad incontrare il suo "ultimo nemico", un sicario, che lo consegnerà alla morte. Moribondo, farà comunque in tempo a vedere S. Francesco e a comprendere la vera natura di Dio.
Si tratta di un romanzo che narra delle disavventure di un archeologo italiano in fuga da un emirato arabo, in quanto ritenuto implicato in fatti di spionaggio e di terrorismo, negli anni immediatamente successivi alla prima Guerra del Golfo (1991). La vicenda offre il pretesto narrativo per esplorare il pianeta della violenza degli uomini a cagione della diversità ideologica e dei conflitti di civiltà. Il doppio registro usato nel libro, anche a livello grafico, tra narrazione ed esplorazione interiore, permette differenti approfondimenti sulle problematiche dei rapporti fra fede religiosa e libertà, cristianesimo e islam, Oriente e Occidente.
Concepito nei primi mesi del 1946 nel manicomio di Rodez, dove l'autore era rinchiuso già da tre anni, questo lavoro fu dettato a una segretaria fra il novembre di quell'anno e i primi mesi del 1947, quando riuscì a lasciare il manicomio. Il testo, rifiutato dall'editore Broder, vide la luce solo nel 1978, pubblicato da Gallimard. Risultato di una stesura stratificata, di cui il volume dà interamente conto, tra pagine autografe, dettatura, lettere e precisazioni, è una sorta di stenografia in cui psiche e corpo si insidiano e si sopraffanno. Sono questi i testi fondatori della "scrittura vocale" di Artaud: la parola agisce sui sensi del lettore e compone la scena di quel Teatro della crudeltà che il poeta ha sempre sognato di mettere in scena.
Antonin Artaud cercava, al Messico, i Tarahumara - la "razza degli uomini perduti" - e, introdotto nella tribù, si troverà rovesciato e quasi inchiodato per sempre "dall'altra parte delle cose", che era già la condizione naturale della sua coscienza e il suo destino. Artaud racconterà questo viaggio in "Al paese dei Tarahumara", il suo libro più perfetto, scritto sulla superficie di un metallo abbacinante. Qui si trovano i suoi testi più difficili e più ricchi. Nessuno schermo copre la sua voce, ogni pretesto deviante è caduto.
È finita. La fuga è giunta alla sua conclusione. Al sicuro a bordo di una nave che li condurrà in Italia, Shushanig e i suoi quattro figli si lasciano alle spalle le atrocità che hanno sconvolto la loro vita e sterminato i loro cari e tante altre famiglie armene. Quello è il passato, racchiuso e conservato per sempre tra le pagine della Masseria delle allodole.
Ora una nuova storia incalza. Mentre in Italia i figli di Shushanig si adattano dolorosamente a una nuova realtà, Ismene, la lamentatrice greca che tanto ha fatto per strapparli alla morte, cerca di dare corpo all’illusione di salvare altre vite, prendendosi cura degli orfani armeni che vagano nelle strade di Aleppo, ostaggi innocenti di una brutalità che non si può dimenticare. Ma proprio quando nella Piccola Città dove tutto ha avuto inizio qualcuno torna per riprendere quel che gli appartiene, ogni speranza di ricostruire un futuro compromesso cade in frantumi.
La narrazione di Antonia Arslan stupisce per il coraggio di testimoniare fino in fondo le vicende di un popolo condannato all’esilio e per la capacità di dipingere un mondo vivo e pulsante di donne e uomini straordinari. Donne e uomini normali che hanno sofferto senza spezzarsi, attraversando le alte fiamme che, nell’incendio di Smirne, sembravano voler bruciare la speranza di una vita nuova.
“Nel seguito della Masseria delle allodole la Arslan torna a scuotere le coscienze di tutto il mondo.”
– Brunella Schisa, il Venerdì
La fuga è finita. Al sicuro sulla nave che li condurrà in Italia, Shushanig e figli si lasciano alle spalle le atrocità che hanno sconvolto la loro vita e quella di tante famiglie armene. Quello è il passato, conservato per sempre tra le pagine della Masseria delle allodole. Ora, mentre in Italia i figli di Shushanig si adattano dolorosamente a una nuova realtà, Ismene, la lamentatrice greca che li ha strappati alla morte, cerca di salvare altre vite, prendendosi cura degli orfani che vagano nelle strade di Aleppo. Ma proprio quando, nella Piccola Città dove tutto ha avuto inizio, qualcuno torna per riprendere quel che gli appartiene, ogni speranza di costruire un futuro cade in frantumi. La narrazione di Antonia Arslan stupisce per la capacità di testimoniare le vicende di un popolo condannato all’esilio e di dipingere un mondo vivo e pulsante di donne e uomini straordinari.
Ishtar 2 è un reparto di Rianimazione, dove Antonia Arslan, inghiottita dal coma all’improvviso, è stata ricoverata per 20 giorni, angoscianti per chi le voleva bene e spaventosi per lei, che forse non era così assente. Eppure in quella nuova dimensione la sua vita si è accesa come per incanto, l’ospedale si è fatto ora castello in cui si aggirano dolci presenze capaci di fugare paure e solitudine, ora giardino dove l’erba è un tappeto morbido. Il lento recupero ha avuto il sapore di una rinascita. La gola, come carta vetrata subito dopo il risveglio, ha ritrovato il respiro e restituito la voce a una generosa e affascinante cantastorie. Le sue dita si sono messe a correre sulla pagina trasformando quell’esperienza in racconto.
Ne sono nate queste pagine toccanti e allegre perché, persino tra le pareti di quella stanza d’ospedale, Antonia Arslan è rimasta una bambina capace di osservare il mondo con lo sguardo rapito di chi ancora non sa. Quello sguardo che le ha permesso di commuovere i suoi lettori narrando l’eccidio armeno e l’incendio di Smirne. E di dirci oggi ciò che ha visto dalle finestre di quel castello sul mare.
Antonia Arslan è autrice di saggi fondamentali sulla narrativa popolare e la letteratura femminile tra Ottocento e Novecento. Ha riscoperto le proprie origini armene traducendo le opere del grande poeta Daniel Varujan. Nel 2004 ha dato voce alle memorie familiari ne La masseria delle allodole, premiato con moltissimi riconoscimenti e tradotto in 15 lingue, da cui i fratelli Taviani hanno tratto l’omonimo film.