
L'esame di maturità è alle spalle. Arianna non vede l'ora di raggiungere l'amata masseria dei nonni in Puglia e chiarire il legame con il suo Ayman. Ma Carolina, la sua ex migliore amica, ha un'occasione imperdibile per vendicarsi e la trascina con sé in un borgo dell'entroterra sardo. Come si aggiusta un'amicizia? Come si recupera il dialogo con una ragazza che si è persa nella sofferenza? Arianna riattiva la sua curiosità indagatrice e cerca di tessere una rete che riavvicini frammenti di cuore e persone, coinvolgendo il solitario nonno Nino, che cela un dolore antico, e Mario, affascinante viticoltore locale. La tela si dipana nello splendido paesaggio sardo, tra mare, vigneti e resti archeologici. Quando il rischio di restare intrappolate diventa reale, Arianna e Carolina dovranno trovare il coraggio di lasciare le certezze del passato per voltare pagina e affrontare... tutto quello che resta.
«Vi chiederete senza dubbio cosa stia facendo nella camera di mia madre. Io, professore di Letteratura all'Università di Lovanio. Che non mi sono mai sposato. In attesa, con un libro in mano, che mia madre si ridesti. Una madre affaticata, sfinita, provata dalla vita e dai suoi imprevisti. La pelle di zigrino di Balzac è il titolo del libro. Una vecchia edizione, così consumata che l'inchiostro dei caratteri si è sbiadito. Mia madre non sa leggere. Avrebbe potuto scegliere qualsiasi altra opera. Chissà perché questa? Non lo so. Non l'ho mai saputo. Del resto, non lo sa nemmeno lei. Ma è questo il libro che mi chiede di leggerle quando si sente disposta ad ascoltare, quando ha bisogno di essere tranquillizzata, quando ha semplicemente voglia di godersi un po' la vita. E la compagnia di suo figlio.» Di solito sono le madri che leggono ad alta voce ai propri figli piccoli. Qui è un figlio, adulto, che legge alla madre anziana. Che non sa leggere, ma che ha fatto di tutto perché lui potesse andare a scuola. Attraverso la lettura il figlio esprime l'amore, l'accudimento, la gratitudine per la propria madre. E al tempo stesso l'amore per la letteratura che è sempre, in qualunque circostanza, un ponte che collega mondi e persone. Un legame prezioso, consolatorio e salvifico.
Il fascino e l'invidia, la sottile crudeltà e l'ambivalenza, le sfumature e le ombre nel rapporto tra due donne di diversa condizione e fortuna. Il legame tra una povera pianista - l'accompagnatrice - e una cantante di successo. Scritto nel 1934 e pubblicato nel 1985 in Francia, è stato accolto con grande favore dalla critica e dal pubblico, imponendo all'attenzione una scrittrice che con Blok e Gorkij, Pasternak e Nabokov, e i molti altri autori da lei frequentati, appartiene a pieno titolo alla storia letteraria e intellettuale del Novecento.
Roquenval è un luogo incantato e fuori dal tempo, dove il giovane Boris viene invitato a trascorrere l'estate da un amico. Qui, Boris, emigrato in Francia con i suoi genitori dalla Russia, ritrova il ricordo remoto della casa del nonno e inizia un'ansiosa ricerca delle proprie origini. La parabola struggente di Roquenval e dei suoi abitanti sembra indicare un'assorta riflessione sul ciclo inesorabile del tempo, che nemmeno il potere fantasmatico dell'immaginazione può sperare di interrompere. Breve parentesi nella vita di un giovane, l'estate a Roquenval è una sorta di prova generale dell'esistenza, che autorizza Boris, quando il momento è giunto, a tirare il sipario sulla scena del vecchio castello, per pensare al proprio futuro.
Vibranti testimonianze dei temi della guerra e dell'emigrazione, le tre storie di questo volume svelano una Nina Berberova alle prese con il genere a lei più congeniale: il racconto lungo. In un paesino della Francia, mentre incombe la minaccia della guerra e si avvicina il momento della fuga, uno straniero bussa alla porta di Marija Leonidovna. È davvero un musicista, una sorta di Mozart redivivo, oppure è una spia? Nello stesso periodo una biblioteca russa nel cuore di Parigi, a cui Turgenev donò i propri libri, luogo di studio per i rivoluzionari emigrati, viene strappata dalla storica sede e trasferita in Germania. Poco dopo la fine della guerra, un uomo lascia le rovine dell'Europa e approda nella metropoli di un altro continente. Una città senza passato, dove ricominciare da zero una nuova vita e una nuova era.
Scritta nel 1937, questa biografia di Borodin appartiene cronologicamente all'epoca dei romanzi brevi che hanno consacrato internazionalmente la gloria letteraria di Nina Berberova, nata a San Pietroburgo nel 1901 ma solo pochi anni prima della morte, avvenuta a Filadelfia nel 1993, arrivata all'attenzione dei lettori di tutto il mondo. Come dichiara l'autrice stessa nella nota iniziale, nulla in questa biografia è inventato. E tuttavia la vita del musicista vi è qui raccontata nello stesso stile, con la stessa concisione, la stessa agilità narrativa che abbiamo potuto ammirare in opere come "Il lacchè e la puttana" e "L'accompagnatrice".
Apparso in russo a puntate nel 1930 sulla rivista "Annali contemporanei", "Gli ultimi e i primi" è il romanzo d'esordio di Nina Berberova. Il romanzo, benché opera prima, ha però un suo fascino tutto particolare, a cominciare dai protagonisti - russi immigrati in Provenza all'indomani della Rivoluzione d'Ottobre - gli "ultimi" di un mondo che non vuole morire e i "primi" di un'epoca ancora da scrivere.
Aiuto contabile in un'azienda diretta da una macchina, l'anonimo protagonista di questo racconto decide di godere in riva al mare le tre impreviste giornate di ferie che la macchina gli ha concesso. E così che comincia il suo viaggio attraverso una città altrettanto anonima, che però non tarda a rivelarsi come sterminata - non una ma nove città, come quelle che Schliemann dovette riesumare prima di approdare alle vestigia di Troia -, mentre intanto prendono corpo le sue fantasticherie su come far guadagnare tempo e spazio all'umanità. Il "Racconto delle nove città" (il cui titolo originale è letteralmente "In memoria di Schliemann") era il racconto prediletto di Nina Berberova, il più moderno secondo una scrittrice che considerava fondamentale l'essere interpreti del proprio tempo. Si tratta di un racconto anti-utopico, ambientato in un futuro 1984 che vuole essere un esplicito omaggio a Orwell; un racconto molto diverso da quelli del periodo in cui la Berberova viveva in Francia, dopo l'esilio dalla Russia natale. Qui non si ritrovano né emigrati russi né ricordi della Russia perduta, e anche i temi più consueti della scrittrice - lo sradicamento dei personaggi, la loro solitudine, lo stesso tema dell'esilio - ritornano sì in questa narrazione, ma spogliati ormai da ogni connotazione realistica.
Nei racconti che compongono questo volume non si parla d'amore, ma delle emozioni senza nome, senza etichetta, che vincolano il cuore di un'umanità spaesata, non connotata da ruoli o qualifiche, stupita dal fluire del tempo come dagli scarti improvvisi del destino, in cerca di sé nelle stanze di case non riconoscibili, in chiese abbandonate a una sacralità senza riti, in città sospinte dalla storia di altri mondi. Quel sommovimento di tutto, quel senso di perpetua precarietà che la Rivoluzione russa impose in una vasta parte del mondo diventano qui un clima e un fondale psicologico. L'esilio come condizione dello spirito, espressione dello smarrimento e della vulnerabilità dell'anima e nonostante tutto un'ostinata vitalità dei sentimenti.
Nell'atmosfera malinconica che permea la comunità russa a Parigi negli anni che seguono la Rivoluzione d'ottobre, Sonja, Dasa e Zaj sono tre sorelle in esilio, figlie di uno stesso padre, russo, ma di madri diverse. Sono giovani, desiderose di dare un senso alla propria vita. Dasa, la più solare e concreta, mira a trovare un equilibrio per sé e per gli altri, anche a scapito della propria felicità. Sonja, la più colta e intellettuale, è uno spirito inquieto e va incontro alla sorte tragica di chi punta all'assoluto. Zaj, la minore, giunta per ultima a Parigi, non ha ancora trovato la sua strada e si affida all'istinto: tenta con il teatro, si innamora di un giovane studente, si impiega da un libraio, dove scopre la letteratura e il profumo dei libri freschi di stampa. Tutt'intorno il mondo dell'emigrazione russa a Parigi: gente che si barcamena per stare a galla, che si è più o meno integrata nella grande capitale, che si frequenta e conserva alcune usanze, mentre a poco a poco ne dimentica altre. Sullo sfondo, la Russia, una presenza fisica che incombe, travolgendo la storia personale di ognuno.
Schegge dappertutto, rumori di macchine e motori, scomparsa del paesaggio umano. Ecco il "disastro" con cui si misurano due nomi tra i più grandi della cultura russa del Novecento. La civiltà delle macchine, la disgregazione del mondo e le avanguardie. La svolta avvenne nel 1914, con la mostra di Picasso a Mosca. Le avanguardie russe annunciavano un mondo nuovo, quello dell'uomo liberato dalla schiavitù del lavoro capitalista cui corrispondeva una liberazione spirituale incarnata dall'artista come prototipo dell'uomo nuovo. Picasso, esponendo le sue opere cubiste a Mosca, mostrava in realtà un mondo in frantumi, dove anche l'uomo usciva malconcio, privato del suo volto e della sua consistenza. La velocità e le scoperte scientifiche vincevano la tirannia del tempo, ma smontavano dall'interno lo stesso materialismo storico, quello che profetizzava la realizzazione di una società armoniosa e trasparente, sul modello del paradiso terrestre; a essere liquidato era anche il pensiero religioso dell'ortodossia, che al centro di tutto poneva la divinizzazione dell'uomo. Berdjaev e Bulgakov scrissero i due saggi raccolti in questo libro poco tempo dopo aver visitato la mostra di Picasso, e nella loro riflessione la "crisi dell'arte" è irrimediabilmente la crisi della rappresentazione del volto umano e la "perdita del centro" che ne deriva. Due saggi che anticipano la critica della modernità, come è stata sviluppata lungo il Novecento, da un pensiero che da Sedlmayr arriva fino a Clair.
Dopo aver raccontato in "Mezzanotte nel giardino del bene e del male" il fascino di Savannah, la città sull'Oceano Atlantico in Georgia, John Berendt decide di dar voce al mistero, alla magia, alla decadenza di Venezia, eterna vittima di stereotipi e luoghi comuni. Il suo libro è l'anatomia di una città di maschere e di enigmi, di un labirinto di calli e canali, di un immenso museo dove i tesori vanno in briciole. Il filo conduttore sono le vicende del Gran Teatro La Fenice, distrutto da un catastrofico incendio doloso il 29 gennaio 1996. Berendt arriva a Venezia tre giorni dopo, ed è testimone dello sgomento della cittadinanza, delle indagini, della tormentata ricostruzione.

