
"L'arte della gioia" è un libro postumo: giaceva da vent'anni abbandonato in una cassapanca e, dopo essere stato rifiutato da molti editori, venne stampato in pochi esemplari da Stampa Alternativa nel 1998. Ma soltanto quando uscì in Francia ricevette il giusto riconoscimento. Nel romanzo tutto ruota intorno alla figura di Modesta: una donna vitale e scomoda, potentemente immorale secondo la morale comune. Una donna siciliana in cui si fondono carnalità e intelletto. Modesta nasce in una casa povera ma fin dall'inizio è consapevole di essere destinata a una vita che va oltre i confini del suo villaggio. Ancora ragazzina è mandata in un convento e successivamente in una casa di nobili dove, grazie al suo talento e alla sua intelligenza, riesce a convertirsi in aristocratica attraverso un matrimonio di convenienza. Tutto ciò senza smettere di sedurre uomini e donne di ogni tipo. Amica generosa, madre affettuosa, amante sensuale: Modesta è una donna capace di scombinare ogni regola del gioco pur di godere del vero piacere, sfidando la cultura patriarcale, fascista, mafiosa e oppressiva in cui vive. "L'arte della gioia" è l'opera scandalo di una scrittrice. È un'autobiografia immaginaria. È un romanzo d'avventura. È un romanzo di formazione. Ed è anche un romanzo erotico, e politico, e psicologico. Insomma, è un romanzo indefinibile.
Beckett, Kafka, Ungaretti e molti poeti europei e americani passati al vaglio dell'analisi critica di Paul Auster, volta a scoprire le radici dell'arte e della letteratura. La raccolta di saggi si snoda lungo trent'anni della carriera del narratore e mostra un Auster studioso di poesia e frequentatore di poeti europei e americani.
La sera del 26 aprile 1998 il vescovo Juan Gerardi Conedera viene picchiato a morte nella sua casa parrocchiale di San Sebastiàn, nel centro storico di Città del Guatemala. Due giorni prima aveva presentato "Guatemala: mai più", un rapporto redatto dall'Ufficio dei diritti umani dell'Arcivescovado sulla violenza perpetrata nel Paese negli ultimi sessant'anni. Nei quattro volumi, l'esercito guatemalteco è indicato come responsabile della tortura, della morte e della sparizione di oltre duecentomila civili, ponendo in questo modo le basi per processare i militari con l'accusa di crimini contro l'umanità. Il movente e i mandanti dell'assassinio sembrerebbero evidenti, eppure lo scenario che via via emerge dalle indagini governative parla di un delitto maturato nell'ambiente ecclesiastico, di relazioni omosessuali, di figli illegittimi, perfino dell'aggressione mortale da parte di un pastore tedesco. Uno scenario tratteggiato "ad arte", pettegolezzi che diventano verità ufficiale. Gli ingredienti perfetti per un thriller. Eppure. Eppure "L'arte dell'omicidio politico" non è un romanzo: è la riapertura di un caso insabbiato, è la ricerca ostinata della verità, nata da una serie di articoli di Francisco Goldman per il New Yorker sull'omicidio di Gerardi a pochi mesi dal fatto e divenuta sempre più inquietante nel corso degli anni, trasformandosi infine in un libro che ha contribuito a ribaltare i risultati delle elezioni presidenziali guatemalteche del 2007.
«Il mio amico Serge ha comprato un quadro» annuncia Marc, da solo in scena, ad apertura di sipario. «È una tela di circa un metro e sessanta per un metro e venti, dipinta di bianco. Il fondo è bianco, e strizzando gli occhi si possono intravedere delle sottili filettature diagonali, bianche». Subito dopo Marc viene a sapere dallo stesso Serge che il quadro bianco a righe bianche è stato pagato duecentomila franchi: cosa che Marc giudica grottesca, poiché secondo lui è «una merda». Un terzo amico, Yvan - che ha già abbastanza guai con i preparativi del suo matrimonio -, non prende posizione, venendo accusato dagli altri due di pusillanimità e doppiezza. Così, la serata che i tre decidono di trascorrere insieme si trasforma in un regolamento di conti, in un gioco al massacro: il quadro bianco a righe bianche diventa il rivelatore da cui affiorano a poco a poco nevrosi, risentimenti e rivalità, mentre le parole si fanno sempre più velenose, sempre più acuminate, fino a ridurre in macerie la fragile impalcatura di un rapporto fondato sull'egoismo, la vanità e l'ipocrisia. Yasmina Reza, di cui conosciamo la penna affilata e lo sguardo chirurgico, tocca in questa commedia nera vette di comica crudeltà, si diverte e ci fa divertire - perché ridiamo molto, anche se sempre più a denti stretti, a mano a mano che da sotto la maschera buffa del théâtre de boulevard vediamo spuntare la malinconia.
Chi ha rubato il piccolo secrétaire di mogano contenente un biglietto vincente della lotteria? Chi ha rubato "La lampada ebrea", il diamante blu, gioiello della Corona di Francia? Arséne Lupin, sempre lui, l'eterno innamorato della Dama Bionda, insolente e ingegnoso come non mai, riesce a eludere ogni astuzia dell'inglese con astuzie ancora piú stupefacenti. Questo romanzo presenta, attraverso due casi enigmatici, un vero e proprio confronto tra il migliore detective e il migliore ladro della storia: la deduzione contro la fantasia, la logica contro l'immaginazione e il lavoro ben fatto contro il talento innato. Questa volta Lupin dovrà utilizzare tutti i suoi trucchi (cambio di identità, ingegno e disinvoltura) per burlare un detective il cui talento è di molto superiore a quello del commissario Ganimard.
Il libro è il secondo volume della saga familiare contemporanea di Mimmi Cassola.
Allegra Lunare ha vent'anni, è nel momento in cui la vita, per molti, comincia: invece per lei finisce, e deve trovare il coraggio per iniziarne una tutta nuova. Allora Allegra scrive: per non avere paura, per salvarsi l'infanzia, per non dimenticare il senso delle persone e delle cose che sono stati il suo mondo fino a quel momento. Scrive una lettera ai nuovi inquilini che abiteranno la casa dove ha vissuto con la sua bizzarra famiglia, e prende spunto dagli oggetti che rimangono nell'appartamento e di quei pochi che porterà con sé. Ognuno di essi racconta una storia: quella di suo padre, universitario rivoluzionario, e della mamma, giovanissima modella americana; la nascita di suo fratello Giuliano, con la sindrome di Down; l'amore magico tra Adriana e Matilde; l'incontro con Zuellen, che è affamata d'amore e sa trasformare tutto in qualcos'altro; le cose che ha imparato a teatro e al circo, la più importante: che dopo il numero dei trapezi arriva sempre il numero dei pagliacci... La scrittura di Allegra procede come il respiro veloce della giovinezza, quando si ha fretta di capire: per libere associazioni, per assonanze del cuore, accostando ai sentimenti cose che ne sono i correlativi oggettivi, e che spesso li esprimono con maggior potenza. Il suo sguardo si posa su ogni spazio da una prospettiva inattesa, filtrato dalle lenti colorate con cui ha imparato a osservare la vita per non essere lambita dalle sue ombre: e ci restituisce un'istantanea candida e acutissima al tempo stesso.
La funesta profezia del 21 dicembre 2012 è solo un esempio. L'ultimo, se i Maya avevano ragione. Il fatto è che periodicamente l'umanità si prepara a sloggiare dal pianeta Terra. Millenarismi di ogni tipo per secoli hanno alimentato la credulità popolare, e ogni scampato pericolo è sempre servito solo come carburante per la profezia successiva. In particolare, però, è la generazione di noi contemporanei quella che sta coltivando con maggiore convinzione l'idea di essere l'ultima della storia del mondo. Dopo di noi, il diluvio: e pazienza per i posteri, fossero anche i nostri figli. Potrà essere un collasso finanziario, oppure un drammatico stravolgimento climatico, forse un'ondata migratoria devastante, uno tsunami di spazzatura, una guerra mondiale, la fine delle risorse petrolifere. Oppure tutte queste cose assieme, senza escludere i classici del cinema: impatto con un meteorite o invasione di extraterrestri. Se pure i Maya avessero torto, un'apocalisse sembra davvero alle porte se non altro la fine dei mondo così come siamo abituati a viverlo da qualche secolo a questa parte. Ecco lo specifico contemporaneo: ci sentiamo talmente sicuri di un'imminente apocalisse (una qualsiasi apocalisse) che ci siamo convinti di non poter fare nulla per fermarla. Se ne ricava la più classica delle profezie che si auto verificano: siccome la fine del mondo ci sarà, ci sarà la fine del mondo.
Milano, marzo 1953: Flavio Villareale, cinquantenne, attore, regista e proprietario del Teatro Imperiale, un elegante edificio liberty in zona Stazione Centrale, viene trovato senza vita nel suo appartamento di via Vitruvio. A scoprire il cadavere è Umberto Calcaterra, socio di Flavio e amministratore del teatro, l'esame del medico legale riscontra i segni inequivocabili di una morte per soffocamento: Flavio Villareale è stato ucciso. Trovare l'assassino è compito degli uomini del Commissariato Porta Venezia, guidati dal commissario capo Mario Arrigoni, convocato sul luogo del delitto al ritorno dalla interminabile festa di matrimonio del suo vice, Salvatore Mastrantonio, fresco sposo alla tenera età di cinquantaquattro anni. Il viaggio di nozze priverà Arrigoni dei servigi non proprio indispensabili del vice, a favore di quelli ben più brillanti dell'ispettore Giovine. I primi colloqui già mettono in evidenza la personalità della vittima, geniale artista ma pessimo soggetto: assatanato di sesso, dedito a pratiche sadomasochistiche, non esita a sfruttare il suo fascino e la sua posizione per sedurre ogni bella donna che incontri sul suo cammino. Come se ciò non bastasse, pesanti ombre arrivano anche dal passato: mussoliniano fino al fanatismo, pare abbia denunciato oppositori veri e presunti del regime all'Ovra, la polizia segreta fascista, non senza ricavarne un tornaconto personale. Toccherà al commissario Arrigoni risolvere il mistero.
La Cina di Yu Hua e dei fratelli Li Testapelata e Song Gang. Una Cina in cui milioni di cittadini cresciuti sotto la bandiera rossa sono catapultati nella modernità, dove "arricchirsi è glorioso", vendendo immondizia, imeni artificiali marca Giovanna d'Arco o addirittura se stessi. L'ex straccivendolo Li Testapelata, ora arcimiliardario presidente Li, può decidere di fare un giro nello spazio o di radere al suolo un'antica città per costruire la sua nuova Liuzhen, tutta centri commerciali, luci al neon e palazzi svettanti. Song Gang, dopo il lavoro in fabbrica e l'inaspettato matrimonio da favola, segue le orme di un imbroglione per cercare di arricchirsi come il fratello. Entrambi appartengono a un mondo consumista che corrode tutto, passato e presente, la Rivoluzione e le prospettive di una libertà diversa. I fratelli si separano, le famiglie si sfaldano, gli ingenui soccombono e chi sopravvive deve fare i conti con "una desolazione incommensurabile". Capitolo secondo di Brothers, questo romanzo, dopo tante incontenibili risate, se ne porta appresso una, l'ultima, amara. La Cina non è vicina e per la prima volta misuriamo qual è la sua esatta distanza: ciò che ci sembra caricatura è, semplicemente, diversità.
Semi-disoccupato, semi-divorziato, semi-felice. C'è solo una cosa che Vincenzo Malinconico sa fare al cento per cento: filosofeggiare. Mentre cammina per le strade di Napoli, mentre si ritrova con i colleghi che come lui non hanno nessuna voglia di lavorare, mentre entra nello studio di uno psicoterapeuta di cui si sente più medico che paziente, mentre assiste a un tragicomico reality in un supermercato, Vincenzo ha sempre un pensiero in testa. Anzi, una miriade di pensieri che lievitano e che, di deriva in deriva, vanno lontano, passando dall'amore alla giustizia, dal senso della vita a Sharon Stone, dai becchini al frigorifero che la sua nuova ragazza continua a riempirgli, fino alle canzoni di Raffaella Carrà. E proprio mentre seguiamo il filo dei suoi pensieri stravaganti e fuori luogo e i suoi tentativi di analisi fai-da-te, ci accorgiamo che De Silva con questa raccolta ("Non avevo capito niente", "Mia suocera beve" e "Sono contrario alle emozioni"), non ci racconta soltanto le vicende tragicomiche di un avvocato anomalo ma ci porta in giro per un mondo e una società incomprensibili, e che Vincenzo Malinconico è la lente da cui guardare, lo strumento per capire dove stiamo andando.

