
Mosca, 20 settembre 1968. Rubén nasce affetto da paralisi cerebrale: le facoltà intellettuali sono intatte, ma non può muovere gli arti, salvo due dita. Dopo poco più di un anno sarà separato dalla madre e rinchiuso negli speciali orfanotrofi in cui vengono isolati, e sottratti allo sguardo, quelli come lui, considerati impresentabili da una società che esalta il mito dell'uomo nuovo e dichiara di muoversi verso un radioso futuro. Solo all'inizio degli anni Novanta Rubén riuscirà a fuggire dal suo gulag personale e, ritrovata la madre, comincerà a raccontare la sua storia, rivelandosi scrittore vero.
Quando il giovane Billy, in preda a una grande agitazione, irrompe nella sua agenzia investigativa per denunciare un crimine a cui crede di aver assistito da piccolo, Cormoran Strike rimane profondamente turbato. Anche se Billy ha problemi mentali e fatica a ricordare i particolari concreti, in lui e nel suo racconto c'è qualcosa di sincero. Ma prima che Strike possa interrogarlo più a fondo, Billy si spaventa e fugge via. Cercando di scoprire la verità sulla storia di Billy, Strike e Robin Ellacott - una volta sua assistente, ora sua socia - seguono una pista tortuosa, che si dipana dai sobborghi di Londra alle stanze più recondite e segrete del Parlamento, fino a una suggestiva ma inquietante tenuta di campagna. E se l'indagine si fa sempre più labirintica, la vita di Strike è tutt'altro che semplice: la sua rinnovata fama di investigatore privato gli impedisce di agire nell'ombra come un tempo e il suo rapporto con Robin è più teso che mai. Lei è senza dubbio indispensabile nel lavoro dell'agenzia, ma la loro relazione personale è piena di sottintesi e non detti...
Il corpo di una scrittrice, in apparenza integro eppure danneggiato, diventa lo specchio della fragilità umana e insieme della nostra inarrestabile pulsione di vita. Francesca Mannocchi guarda il mondo attraverso la lente della malattia per rivelare, con una voce letteraria nuda, luminosa, incandescente, tutto ciò che è inconfessabile. Quattro anni fa Francesca Mannocchi scopre di avere una patologia cronica per la quale non esiste cura. È una giornalista che lavora anche in zone di guerra, viaggia in luoghi dove morte e sofferenza sono all'ordine del giorno, ma questa nuova, personale convivenza con l'imponderabile cambia il suo modo di essere madre, figlia, compagna, cittadina. La spinge a indagare sé stessa e gli altri, a scavare nelle pieghe delle relazioni più intime, dei non detti più dolorosi, e a confrontarsi con un corpo diventato d'un tratto nemico. La spinge a domandarsi come crescere suo figlio correndo il rischio di diventare disabile all'improvviso e non potersi quindi occupare di lui come prima. Essere malata l'ha costretta a conoscere il Paese attraverso le maglie della sanità pubblica, e ad abitare una vergogna privata e collettiva che solo attraverso l'onestà senza sconti della letteratura lei ha trovato il coraggio di raccontare.
Il volume raccoglie un variegato e variopinto campionario di scritti di un decennio (1929-1938), i resoconti che il giovane cronista faceva degli avvenimenti, veri e verosimili della sua amata città e, anche, le storie inventate che tratteggiano profili indimenticabili di personaggi caratteristici. Il lettore potrà così scoprire la Parma dei caffè letterari frequentati dai giovanissimi Pierino Bianchi, Attilio Bertolucci, Cesare Zavattini, dai grafici e dai pittori Erberto Carboni, Atanasio Soldati, Carlo Mattioli. E soprattutto ritroverà nell'autore un attento critico letterario, curioso di ogni novità, grande consumatore di vocaboli stranieri stranieri e creatore di neologismi.
Se ti dicono che il mondo è sbagliato e non puoi fare nulla per aggiustarlo, hai due possibilità: ti rassegni a vivere una vita che non è la tua, con il dubbio dì sprecare tempo prezioso, o ti rimbocchi le maniche e provi a migliorare le cose, un bambino alla volta. È quello che sceglie Nicolò, vent'anni carichi di domande, di energia e di un'inestinguibile ricerca di senso. A casa, in Italia, mancano le risposte, le prospettive di un futuro che lo riempia, così sceglie di partire. Lo zaino che si porta è leggero: è convinto di trattenersi in India, nell'orfanotrofio di Dayavu Home, per qualche mese. Ma non sa che in quell'angolo remoto di mondo la sua vita è destinata a cambiare. Perché presto scoprirà che una vacanza da "volonturista" non è quello che sta cercando. I venti bambini che incontra sono stati abbandonati dalla società ma nonostante questo, ogni giorno gli insegnano che si può sempre rinascere. E anche se Nicolò sa bene che la battaglia contro il male è persa in partenza, capisce che vale la pena di rischiare tutto per regalare un solo sorriso ai suoi ragazzini. Così decide di restare: Dayavu Home diventa la sua Casa, Joshua, direttore dell'orfanotrofio e suo mentore, un secondo Padre e i bambini la sua Famiglia. "Bianco come Dio" è la loro storia, il racconto che Nicolò ha scritto - prima su un blog e poi su Facebook - per raccogliere fondi destinati alla struttura e agli studi dei ragazzi. È la testimonianza semplice e sincera di una passione contagiosa che vuole cambiare il mondo, sorriso dopo sorriso.
Se ti dicono che il mondo è sbagliato e non puoi fare nulla per aggiustarlo, hai due possibilità: ti rassegni a vivere una vita che non è la tua, con il dubbio dì sprecare tempo prezioso, o ti rimbocchi le maniche e provi a migliorare le cose, un bambino alla volta. È quello che sceglie Nicolò, vent'anni carichi di domande, di energia e di un'inestinguibile ricerca di senso. A casa, in Italia, mancano le risposte, le prospettive di un futuro che lo riempia, così sceglie di partire. Lo zaino che si porta è leggero: è convinto di trattenersi in India, nell'orfanotrofio di Dayavu Home, per qualche mese. Ma non sa che in quell'angolo remoto di mondo la sua vita è destinata a cambiare. Perché presto scoprirà che una vacanza da "volonturista" non è quello che sta cercando. I venti bambini che incontra sono stati abbandonati dalla società ma nonostante questo, ogni giorno gli insegnano che si può sempre rinascere. E anche se Nicolò sa bene che la battaglia contro il male è persa in partenza, capisce che vale la pena di rischiare tutto per regalare un solo sorriso ai suoi ragazzini. Così decide di restare: Dayavu Home diventa la sua Casa, Joshua, direttore dell'orfanotrofio e suo mentore, un secondo Padre e i bambini la sua Famiglia. "Bianco come Dio" è la loro storia, il racconto che Nicolò ha scritto - prima su un blog e poi su Facebook - per raccogliere fondi destinati alla struttura e agli studi dei ragazzi. È la testimonianza semplice e sincera di una passione contagiosa che vuole cambiare il mondo, sorriso dopo sorriso.
Leo è un sedicenne come tanti: ama le chiacchiere con gli amici, il calcetto, le scorribande in motorino e vive in perfetta simbiosi con il suo iPod. Le ore passate a scuola sono uno strazio, i professori "una specie protetta che speri si estingua definitivamente". Così, quando arriva un nuovo supplente di storia e filosofia, lui si prepara ad accoglierlo con cinismo e palline inzuppate di saliva. Ma questo giovane insegnante è diverso: una luce gli brilla negli occhi quando spiega, quando sprona gli studenti a vivere intensamente, a cercare il proprio sogno. Leo sente in sé la forza di un leone, ma c'è un nemico che lo atterrisce: il bianco. Il bianco è l'assenza, tutto ciò che nella sua vita riguarda la privazione e la perdita è bianco. Il rosso invece è il colore dell'amore, della passione, del sangue; rosso è il colore dei capelli di Beatrice. Perché un sogno Leo ce l'ha e si chiama Beatrice, anche se lei ancora non lo sa. Leo ha anche una realtà, più vicina, e, come tutte le presenze vicine, più difficile da vedere: Silvia è la sua realtà affidabile e serena. Quando scopre che Beatrice è ammalata e che la malattia ha a che fare con quel bianco che tanto lo spaventa, Leo dovrà scavare a fondo dentro di sé, sanguinare e rinascere, per capire che i sogni non possono morire e trovare il coraggio di credere in qualcosa di più grande.
Leo è un sedicenne come tanti: ama le chiacchiere con gli amici, il calcetto, le scorribande in motorino e vive in perfetta simbiosi con il suo iPod. Le ore passate a scuola sono uno strazio, i professori "una specie protetta che speri si estingua definitivamente". Così, quando arriva un nuovo supplente di storia e filosofia, lui si prepara ad accoglierlo con cinismo e palline inzuppate di saliva. Ma questo giovane insegnante è diverso: una luce gli brilla negli occhi quando spiega, quando sprona gli studenti a vivere intensamente, a cercare il proprio sogno.
Leo sente in sé la forza di un leone, ma c'è un nemico che lo atterrisce: il bianco. Il bianco è l'assenza, tutto ciò che nella sua vita riguarda la privazione e la perdita è bianco. Il rosso invece è il colore dell'amore, della passione, del sangue; rosso è il colore dei capelli di Beatrice. Perché un sogno Leo ce l'ha e si chiama Beatrice, anche se lei ancora non lo sa. Leo ha anche una realtà, più vicina, e, come tutte le presenze vicine, più difficile da vedere: Silvia è la sua realtà affidabile e serena. Quando scopre che Beatrice è ammalata e che la malattia ha a che fare con quel bianco che tanto lo spaventa, Leo dovrà scavare a fondo dentro di sé, sanguinare e rinascere, per capire che i sogni non possono morire e trovare il coraggio di credere in qualcosa di più grande.
Bianca come il latte, rossa come il sangue non è solo un romanzo di formazione, non è solo il racconto di un anno di scuola, è un testo coraggioso che, attraverso il monologo di Leo - ora scanzonato e brillante, ora più intimo e tormentato -, racconta cosa succede nel momento in cui nella vita di un adolescente fanno irruzione la sofferenza e lo sgomento, e il mondo degli adulti sembra non aver nulla da dire.
Contando su un recupero moderno e vitale della grande tradizione classica, il D'Avenia romanziere esordiente si allea con il giovane professore di liceo, questa la professione dell'autore, per offrire con energia al lettore più e meno giovane qualche risposta che, come ogni risposta vera, non aspira a essere definitiva, ma neppure esitante e rassegnata.
Leo è un sedicenne come tanti: ama le chiacchiere con gli amici, il calcetto, le scorribande in motorino e vive in perfetta simbiosi con il suo iPod. Le ore passate a scuola sono uno strazio, i professori "una specie protetta che speri si estingua definitivamente". Così, quando arriva un nuovo supplente di storia e filosofia, lui si prepara ad accoglierlo con cinismo e palline inzuppate di saliva. Ma questo giovane insegnante è diverso: una luce gli brilla negli occhi quando spiega, quando sprona gli studenti a vivere intensamente, a cercare il proprio sogno.
Leo sente in sé la forza di un leone, ma c'è un nemico che lo atterrisce: il bianco. Il bianco è l'assenza, tutto ciò che nella sua vita riguarda la privazione e la perdita è bianco. Il rosso invece è il colore dell'amore, della passione, del sangue; rosso è il colore dei capelli di Beatrice. Perché un sogno Leo ce l'ha e si chiama Beatrice, anche se lei ancora non lo sa. Leo ha anche una realtà, più vicina, e, come tutte le presenze vicine, più difficile da vedere: Silvia è la sua realtà affidabile e serena. Quando scopre che Beatrice è ammalata e che la malattia ha a che fare con quel bianco che tanto lo spaventa, Leo dovrà scavare a fondo dentro di sé, sanguinare e rinascere, per capire che i sogni non possono morire e trovare il coraggio di credere in qualcosa di più grande.
Bianca come il latte, rossa come il sangue non è solo un romanzo di formazione, non è solo il racconto di un anno di scuola, è un testo coraggioso che, attraverso il monologo di Leo - ora scanzonato e brillante, ora più intimo e tormentato -, racconta cosa succede nel momento in cui nella vita di un adolescente fanno irruzione la sofferenza e lo sgomento, e il mondo degli adulti sembra non aver nulla da dire.
Contando su un recupero moderno e vitale della grande tradizione classica, il D'Avenia romanziere esordiente si allea con il giovane professore di liceo, questa la professione dell'autore, per offrire con energia al lettore più e meno giovane qualche risposta che, come ogni risposta vera, non aspira a essere definitiva, ma neppure esitante e rassegnata.
«A sedici anni, nei versi di Majakovskij, lessi una storia che mi segnò per sempre. La ditta Van Houten, che produceva dell'eccellente cacao, ebbe una trovata macabra e geniale: comprare l'ultimo desiderio di un condannato a morte per pubblicizzare la sua polvere scura. L'uomo davanti alla folla curiosa avrebbe dovuto gridare come ultimo desiderio lo slogan: Bevete cacao Van Houten! In compenso, la sua famiglia avrebbe ricevuto una somma di denaro sufficiente a vivere con tranquillità almeno per un paio d'anni.
L'uomo gridò. La mia anima di sedicenne anche».
Quando si nasce nella «prigione chiamata Albania», esistono solo due modi di orientare lo sguardo. C¿è quello del pittore Petraq, che cammina chino sull¿asfalto e sembra rimpicciolire ogni giorno di più: è lo sguardo basso della colpa, di chi si vergogna della propria vecchiaia, ma anche della propria bellezza, o di un marito che ha troppa voglia di fare l¿amore. E poi ci sono gli occhi puntati dritti verso formidabili orizzonti: è lo sguardo di Gazi che attraversa l¿Adriatico e sogna di portare la sua musica in Italia, in Francia, negli Stati Uniti. Sono gli occhi di Teuta mentre stropiccia il foglietto su cui è segnato l¿indirizzo che dovrebbe accoglierla a Roma, quelli di Sabrina inghiottita dal mare, e di Lumturi che si nutre delle pagine di Proust e Stendhal.
Complice un tempo che sembra eterno, l¿Albania smette di essere prigione per diventare limbo, uno stato transitorio nel quale si sopravvive coltivando «promesse d¿altrove», fino al giorno in cui si parte davvero. Ed eccolo, finalmente, «il paese dei miracoli», un luogo in cui la bellezza femminile non è più dannazione ma fortuna, il pesce non ha le lische e le scatole di tè racchiudono prodigi mai sentiti.
Ma l¿autrice di questi quattordici racconti, che ha lasciato Tirana a ventidue anni e ha scelto di scrivere in italiano, di sguardo ne ha inventato un altro: obliquo, che gioca a ribaltare le ovvietà della lingua e dell¿esistenza.
Coniugando crudeltà e tenerezza, Ornela Vorpsi riesce a ritrarre quell¿essere meraviglioso e fragile che è l¿umano, capace di vendersi al prezzo di un sogno, persino nel momento del respiro ultimo. Una scrittura spietata e intrisa di ironia, animata da una lingua unica, ricca di potenza simbolica, che fa dell¿assenza di radici la sua forza e trasforma lo spaesamento in strumento di conoscenza.
È il 1987. Georges Simenon vecchio e malato decide di tornare per l'ultima volta nella sua isola preferita, Porquerolles in Costa Azzurra, per trascorrere qualche settimana in una piccola villetta dentro la macchia mediterranea. Sulla stessa isola compare una giovane donna, molto bella, con uno sguardo strano, che si fa chiamare Betty, come il personaggio di un celebre romanzo di Simenon, anche se non è il suo vero nome. Poco tempo dopo l'improvvisa apparizione, Betty viene trovata in mare. Non è un suicidio. È stata assassinata. Da chi, e perché? Simenon deve improvvisarsi Maigret, e decide di scrivere in prima persona questa storia. E attraverso questo caso giudiziario, quello di una donna ossessionata dai suoi romanzi, riapre vecchie ferite, come il suicidio della figlia Marie-Jo, e indaga fino in fondo le contraddizioni della sua vita. Ci fa entrare in quel mondo di perdenti che ha descritto nei suoi libri più belli. Fino all'epilogo, davvero sconvolgente, che è un modo crudele per tirare le fila di tutto, e chiudere i conti di un'esistenza segnata da un tarlo, da una ferita che nessuno potrà mai guarire. E che non gli dà pace.