
"Per tutto quell'anno durante il quale continuai a chiedermi incessantemente se non fosse meglio farla finita impiccandomi o cacciandomi una palla in fronte, il mio cuore era continuamente assediato da un sentimento tormentoso che non posso chiamare in altro modo se non come ricerca di Dio. [...] Era un sentimento di paura, di solitudine, l'impressione di sentirmi orfano in un mondo completamente estraneo e la speranza che qualcuno mi aiutasse. [...] Cadevo preda del terrore e allora cominciavo a pregare colui di cui andavo in cerca perché mi aiutasse. E quanto più pregavo, tanto più mi era evidente che nessuno mi ascoltava, che non c'era nessuno a cui rivolgersi. Ma sempre di nuovo, sempre per nuove vie e nuovi ragionamenti, giungevo alla conclusione che non potevo trovarmi al mondo senza un motivo, senza una causa o un senso qualsiasi, come un uccellino caduto dal nido, quale appunto mi sentivo. E se anche fossi stato un uccellino caduto dal nido che se ne sta rovesciato sul dorso pigolando nell'erba alta, ebbene, avrei comunque continuato a pigolare perché sapevo di avere una madre che mi aveva portato in sé, mi aveva covato, riscaldato, nutrito e amato, e dov'era ora questa madre? Se qualcuno mi aveva abbandonato, chi era mai? Non potevo negare che qualcuno mi avesse generato con amore, ma chi era costui? Era Dio".
Laurinda è una domestica a ore. Chiama "padroni" i suoi datori di lavoro, ma nel suo tono di voce non c'è un briciolo di provocazione. Per lei il mondo va così e non ce n'è da lamentarsene. Si dice contenta di essere vedova, è conservatrice, bacchettona, pettegola, sboccata, superstiziosa e parla con i fantasmi. Eppure, quando varca la soglia di casa dei suoi quattro padroni e inizia a parlare con quel suo modo schietto e sincero tutti pendono dalle sue labbra. Come Celeste, una donna divorziata che passa da un flirt all'altro, l'ultimo dei quali con un bamboccio apatico interessato solo ai suoi soldi. O Vanda, sposa e madre esemplare che si annoia a morte e passa il tempo a cucinare, senza rendersi conto che nessuno mangia quello che lei si ostina a preparare. Oppure Ursula, una ceramista svizzera nella cui casa affollata da quadri si muovono anime e fantasmi che solo la domestica può vedere. E infine Emanuel, "il professore": uomo colto e scapolo. L'unico che Laurinda vizia e coccola nella speranza che ammetta la sua omosessualità e dia una raddrizzata alla propria vita. "Con rispetto parlando" è una commedia umana in cui la protagonista accompagna i propri "padroni" tra fidanzamenti, divorzi, scandali e viaggi improvvisi, confermando quanto sia vero uno dei ritornelli da lei più ripetuti: "gli uomini, in fondo, sono tutti uguali".
Un giorno, quando Sampat è ancora piccola e ha i piedi a mollo in una risaia, vede passare un gruppo di bambini. Ordinati e puliti, non sono certo diretti al lavoro nei campi. Vanno a scuola, le dice qualcuno. Sampat non sa bene cosa sia la scuola, ma sa che solo i ricchi ci vanno. Ai poveri, i figli servono nei campi. Sampat è più che povera, appartiene a una delle caste più basse dell’India, è quasi un’intoccabile, e vive in un poverissimo villaggio dell’Uttar Pradesh. Il suo destino sembra segnato.
Ma lei è una bambina sveglia e quel giorno decide di andare a scuola con gli altri. Ci andrà molte altre volte, all’inizio restando in disparte, dimostrando un’intelligenza pronta e un innato senso di giustizia.
Nulla può però contro le millenarie tradizioni del suo paese. Ha solo dodici anni quando, come è consuetudine, viene data in sposa a un uomo ben più vecchio. Non conosce il marito, non sa nulla del matrimonio, non ha ancora raggiunto la pubertà. Non è che una bambina. Da quel momento la consuetudine vuole che lei sia silenziosa e si sottometta al marito, alla suocera e ai soprusi di chiunque appartenga a una casta più elevata. Perché così si deve fare. Perché quello, le dicono, è il suo destino.
Ma Sampat non sopporta le prevaricazioni, e non accetta di essere considerata inferiore a nessuno. Quando osa reagire all’ennesima angheria, la suocera la caccia di casa, insieme ai due figli che intanto sono nati. Potrebbe essere la fine, e invece è un nuovo inizio. In poco tempo, diventerà la paladina degli oppressi, soprattutto delle donne. Che in migliaia, da tutta l’India, si uniscono a lei per dare il via a una rivoluzione rosa, dal colore del sari che hanno scelto come divisa. Un’onda rosa che fa paura a chi non vuole che le cose cambino.
Cosa può fare uno scrittore per aiutare il proprio paese a ritrovare la pace? David Grossman ha una risposta, semplice e profonda come tutte le grandi verità: scrivere, raccontare, creare storie e personaggi in grado di far entrare i lettori nella pelle di un altro, farli pensare con la testa di un altro, far loro guardare la realtà con gli occhi di un altro. Anche se l'altro è un nemico. "Quando abbiamo conosciuto l'altro dall'interno, da quel momento non possiamo più essere completamente indifferenti a lui. Ci risulterà difficile rinnegarlo del tutto. Fare come se fosse una "non persona". Non potremo più rifuggire dalla sua sofferenza, dalla sua ragione, dalla sua storia. E forse diventeremo anche più indulgenti con i suoi errori." I milioni di lettori di Grossman sanno che è possibile, per un personaggio inventato, diventare - come per miracolo - una persona vera, viva e intimamente familiare: un miracolo che solo la letteratura può compiere, e che incanta gli uomini da sempre. Ma che è anche un dono prezioso per chi vive in un paese in guerra, un dono capace di accendere una speranza e indicare una via di uscita dal tragico labirinto del conflitto tra israeliani e palestinesi. Scrivere diventa, allora, un mezzo per rendere il mondo meno estraneo e nemico, il dolore meno paralizzante e insopportabile, il linguaggio meno povero e fossilizzato dagli stereotipi dell'odio e della paura."
Nel 1964 Alberto Manguel, all'epoca sedicenne, lavorara in una celebre libreria anglotedesca di Buenos Aires, dove ogni pomeriggio passava Jorge Luis Borges, di ritorno dalla Biblioteca Nazionale. Un giorno lo scrittore, ormai cieco, chiese al giovane se fosse disposto a leggere per lui la sera. Manguel accettò e in questo libro racconta, con una passione tenuta a freno da un'affabile discrezione, l'ammaliante ironia di Borges, la sua passione per le epopee, per le saghe anglosassoni, Omero, i film gangster, i western, i romanzi polizieschi, la lingua tedesca e la mitologia dei bassifondi di Buenos Aires, le enciclopedie, le tigri e West Side Story, la repulsione per Proust, Mann, Tolstoj e Pirandello.
Pochi momenti restano impressi in ognuno di noi come quelli vissuti a scuola. È lì che per la prima volta si provano emozioni, passioni, delusioni e rancori che durano una settimana, ma così forti da restare indelebili nella memoria. È lì che, mentre impariamo a conoscere il mondo, il mondo impara a conoscere noi. È lì che nascono amicizie destinate a durare per sempre. Che li si ami o li si odi, gli incontri e gli scontri di quei giorni sono spesso destinati a cambiare una vita e per questo sono stati oggetto dell'attenzione di tanti scrittori, che hanno saputo raccontarli nei loro lati comici e in quelli tragici: gli imbarazzi e le risate, i piccoli drammi e i grandi amori, i misteri da risolvere e gli incubi paurosi. Da Edmondo De Amicis a Stefano Benni, da Edgar Allan Poe a Michael Crichton: un mosaico variopinto di storie su quel tempo che tutti vorremmo tornasse.
Dal tetto di un teatro in un porto africano un uomo contempla la città. Ai suoi piedi, sdraiato su un materasso sporco, c'è Nelio, bambino di strada e profeta. Ha solo dieci anni, ma la saggezza di un vecchio. Chi è Nelio? Da dove viene? Chi è stato a sparargli dal palcoscenico vuoto? E perché? Nove notti: è il tempo che serve a Nelio per raccontare la sua storia, la storia di un bambino africano, in un paese funestato dalla guerra civile. Ferito da un colpo d'arma da fuoco, sa che morirà non appena il racconto sarà finito.
"Balzac sembra un oste, Joyce il contabile di un'impresa di pompe funebri, Eliot il direttore di una clinica psichiatrica, e Heinrich Mann un farmacista che abbia appena deciso di avvelenare i suoi concittadini senza eccezione": sono le considerazioni suggerite alla Szymborska dalla lettura di un Piccolo dizionario degli scrittori di tutto il mondo. O meglio: dall'apparato iconografico, giacché è su quello che si è concentrata tutta la sua attenzione. Difficile immaginare un recensore più idiosincratico, inaffidabile, parziale. E più irresistibile. Le sue, d'altro canto, non sono neppure recensioni: piuttosto, letture "non obbligatorie", rapporti di un'impagabile lettrice amatoriale. Che ad ogni libro che le capiti fra le mani - libri che altri disdegnerebbero, del genere Il Guinness dei primati del cinema - sa guardare da un'angolatura che ci spiazza e ci conquista. Chi se non la Szymborska ammetterebbe, con disarmante franchezza, di aver colto, nei Sette stati della materia, solo qualche frase, e saprebbe poi trasformare la sconfitta in una geniale riflessione sullo snobismo di chi coltiva "l'antica aspirazione a sapere tutto, sia pure a grandi linee"?
Mori Ogai fu un grande scrittore e saggista giapponese e svolse un ruolo di primo piano nel rinnovamento culturale del Paese alla fine del XIX secolo. Introdusse in Giappone alcuni dei più importanti autori europei, da Goethe a Rilke e Ibsen. "Come Se", racconto presentato in questa edizione, narra la travagliata indagine del protagonista Hidemaru alla ricerca del significato della vita. Un significato sfuggente in cui individuo, storia e mito s'intrecciano con il profondo senso del dovere, che permea la cultura giapponese e la vita del protagonista, alter ego dello stesso Mori Ogai. Uno scritto di grande modernità, che trova il suo fulcro nel tema dell'individualismo. La dolorosa lacerazione tra singolo e società è infatti il tema centrale di tutta la riflessione di Ogai, nonché la chiave con cui accedere al suo modo di scrivere, che sotto le metafore e le espressioni poetiche, nasconde un profondo realismo critico.
Il nome di Proust suscita in voi un certo timore reverenziale? Non è il caso di sentirsi troppo intimiditi di fronte a lui, ci suggerisce Alain de Botton in questo libro. Vale la pena semmai di trarre profitto dalla sofferta esperienza del grande scrittore francese, perché nessuno meglio di chi è stato infelice può darci lezioni di quotidiana felicità: come avere un sacco di amici, come ridar vita a una liaison sentimentale che langue, quali sono i vantaggi e gli svantaggi della lettura... Con la verve del miglior umorismo inglese, e insieme una profonda sensibilità umana, Alain de Botton offre al lettore una guida di vita ispirata a uno scrittore che diventa un discreto, generoso, confortante "compagno dell'anima".
Secondo un'antica leggenda, il Paradiso terrestre si trovava in Sri Lanka, "l'isola splendente". Ma poiché, come dice la saggezza popolare, non esiste bellezza se non accompagnata da qualche forma di tenebra, un'altra leggenda vuole che l'isola sia nata da una "lacrima dell'India". Può il destino essere scritto nel nome? Di certo il suo corso è imprevedibile, come un vento che arriva all'improvviso a scuotere un giorno sereno e un giardino dorato. Quando la famiglia Herath si trasferisce a Sai Mal Lane, quel vicolo della città di Colombo è ancora un posto tranquillo. All'ombra dei grandi alberi dai fiori rosa, convivono pacificamente famiglie molto diverse per credo religioso ed estrazione sociale. Sono i bambini, con i loro giochi, a unire il vicinato. Mentre i grandi scrutano con una certa diffidenza i nuovi arrivati, è proprio la comunità dei più piccoli ad accoglierli per primi, coinvolgendo i figli degli Herath in gare di aquilone e di cricket, prime cotte e innocue rivalità. E lasciandosi contagiare da quei quattro fratelli così uniti e così speciali. Ben presto, però, la minaccia della guerra civile - fino ad allora solo una notizia letta sui giornali o udita alla radio - si addenserà anche su Sai Mal Lane, rischiando di aprire fratture latenti, spezzare legami profondi, travolgere destini in una furia inarrestabile che lascerà, di quella stagione di giochi, musica e risate, soltanto un'eco lontana.
È lei, Tat'jana Ivanovna, la vecchia nutrice, a preparare i bagagli di Jurij e di Kirill, i ragazzi che partono per la guerra; ed è lei a tracciare il segno della croce sopra la slitta che li porterà via nella notte gelata. Sarà ancora lei a rimanere di guardia alla grande tenuta dei Karin allorché la famiglia dovrà, come tanti, rifugiarsi a Odessa e ad accogliere Jurij quando tornerà, sfinito, braccato. Né si perderà d'animo, la vecchia nutrice, quando dovrà camminare tre mesi per raggiungere i padroni e consegnare loro i diamanti che ha cucito a uno a uno nell'orlo della gonna. Grazie a quelli potranno pagarsi il viaggio fino a Marsiglia, e proseguire poi per Parigi. Nel piccolo appartamento buio che hanno preso in affitto Tat'jana vede i Karin girare in tondo, dalla mattina alla sera, come fanno le mosche in autunno. Lei, che è stata testimone del loro splendore, che li ha visti crescere, che li ha curati e amati per due generazioni con fedeltà inesausta, li vedrà adesso vendere le posate, i pizzi, perfino le icone che hanno portato con sé. Sembra che nessuno di loro voglia ricordare ciò che è stato; solo lei, Tat'jana Ivanovna, ricorda: così una notte, quella della vigilia di Natale, mentre tutti sono fuori a festeggiare, si avvia da sola, avvolta nel suo scialle, verso la Senna.