
Possono esistere felicità trascurabili? Come chiamare quei piaceri intensi e volatili che punteggiano le nostre giornate, accendendone i minuti come fiammiferi nel buio? Sei in coda al supermercato in attesa del tuo turno, magari sei bloccato nel traffico, oppure aspetti che la tua ragazza esca dal camerino di un negozio d'abbigliamento. Quando all'improvviso la realtà intorno a te sembra convergere in un solo punto, e lo fa brillare. E allora capisci di averne appena incontrato uno. I momenti di trascurabile felicità funzionano così: possono annidarsi ovunque, pronti a pioverti in testa e farti aprire gli occhi su qualcosa che fino a un attimo prima non avevi considerato. Per farti scoprire, ad esempio, quant'è preziosa quella manciata di giorni d'agosto in cui tutti vanno in vacanza e tu rimani da solo in città. Quale interesse morboso ti spinge a chiuderti a chiave nei bagni delle case in cui non sei mai stato e curiosare su tutti i prodotti che usano. A metà strada tra "Mi ricordo" di Perec e le implacabili leggi di Murphy, Francesco Piccolo mette a nudo i piaceri più inconfessabili, i tic, le debolezze con le quali tutti noi dobbiamo fare i conti. Pagina dopo pagina, momento dopo momento, si finisce col venire travolti da un'ondata di divertimento, intelligenza e stupore. L'autore raccoglie, cataloga e fa sue le mille epifanie che sbocciano a ogni angolo di strada. Perché solo riducendo a spicchi la realtà si riesce ad afferrare per la coda il senso profondo della vita.
"Oggi questo celebre resoconto di un semplice sottoufficiale alpino che si trova a combattere nel settore centrale del fronte russo, proprio quando l'esercito dell'Unione Sovietica sferra il suo potente attacco demolitore, acquista rilievo speciale. Man mano che i fatti narrati si allontanano nel tempo, il diario del sergente diventa più intenso e assume i caratteri dell'esperienza perenne. La testimonianza scritta, rispetto agli eventi storico-geografici da cui è scaturita, intrattiene lo stesso rapporto che potremmo supporre fra la moneta e il suo conio." (Dalla postfazione di Eraldo Affinati)
Un'inchiesta in cui la personalità della vittima è la chiave per arrivare al colpevole? Succede, più spesso di quanto si creda. Mai come in questo caso, però, il commissario Melis ne sembra convinto. Manrico Barbarani: una laurea in architettura, uno studio affermato, un socio da trent'anni al suo fianco, tante amiche, alcuni affezionati nemici, una passione per l'alpinismo, due mogli, anzi: due ex mogli. E un figlio di cui potrebbe essere il nonno. Già. E tre proiettili piantati in corpo. E dove, poi! Nella più squallida delle periferie di Milano. Qualcosa però non convince Melis, a cominciare dal fatto che l'auto di Barbarani è in garage. E allora? E allora, nel sereno settembre milanese del 1981, quando già s'annunciano i toni dell'autunno, il commissario e i suoi uomini iniziano un'indagine che, muovendosi fra i luoghi del potere più o meno occulto e le feroci dispute di una difficile separazione fra coniugi, sembra condannata ad arenarsi. Fino a quando, inatteso, l'assassino colpisce di nuovo. Allora, ecco, tutte le tessere del mosaico sembrano andare lentamente al loro posto, disegnando una vicenda di grande amarezza, di grande solitudine, di grande amore. Quell'amore per il quale un uomo può persino tradire sé stesso.
Da quando è uscito il primo "Dizionario delle cose perdute", Francesco Guccini non può fare un passo, per strada, senza che qualcuno lo fermi per suggerirgli con entusiasmo e commozione qualche oggetto "del tempo andato" che merita di essere ripescato dal veloce oblio dei nostri anni e celebrato dalla sua penna. Dall'idrolitina ai calendarietti profumati dei barbieri, dal temibile gioco del Traforo alle cabine telefoniche, dal deflettore all'autoradio passando per i "luoghi comodi" e i vespasiani, le letterine di Natale piene di buoni propositi da mettere sotto il piatto del babbo, le osterie (quelle vere, senza la H davanti per darsi un tono) e molto altro, Guccini torna a scavare nel passato che ha vissuto in prima persona per riportarcelo intatto e pieno di sapore. E con questo suo catalogo delle cose perdute dà vita a un personalissimo genere letterario nel quale l'estro del cantautore - capace di condensare in poche strofe un universo intero di emozioni -, la sua passione storica e filologica e la sua vena poetica trovano sintesi piena: regalandoci pagine in cui ogni oggetto, ogni situazione, suscita intorno a sé un intero mondo, sempre illuminato dalla luce di un'insuperabile ironia.
Il giorno in cui il maestro insegna ai bambini l'alfabeto è la fine e l'inizio di un mondo. La fine di un mondo in cui le cose succedevano e basta, e l'inizio di uno in cui possono essere messe in fila indiana in forma di parole. La vita intera passa attraverso le molteplici combinazioni di quelle ventuno lettere: sorprese, delusioni, imprevisti, nascita e crescita, persino la morte. Trentotto storie brevi, trascinanti e poetiche, piene di profonda leggerezza. Ciascuna di loro, una parola. Ciascuna di loro, il mondo. Sono epifanie scovate quasi per caso negli interstizi del quotidiano: lo smarrimento di una donna di fronte alla rottura di un braccialetto dei desideri, l'impossibilità di resistere dal prendere a calci un pallone che rotola per strada, il sollievo con cui si consegna a uno sconosciuto la propria storia sapendo che non lo si vedrà mai più, il piacere perverso di rimettere in circolazione una banconota falsa ricevuta chissà dove. Andrea Bajani compone una commedia umana in miniatura, in cui ogni piccolo gesto può diventare una chiave per capirsi, e rendersi conto che la felicità, alla fine, sta dentro la piega che di colpo prendono le cose.
C'è qualcosa di vischioso nel Condominio R39. Un'aria viziata che toglie il respiro. Varcarne la soglia è come entrare in una gabbia di cui solo i bambini possiedono le chiavi. Un vecchio biologo infermo ossessionato dalla decomposizione. Una giovane che lavora in un night club e il suo fidanzato, dediti a pratiche erotico-esoteriche. Un'ex attrice di grandi speranze la cui mente è ora preda di fantasmi. Un ragazzino di dieci anni oppresso dall'affetto morboso della madre. Sono gli inquilini di una palazzina di Milano dove si consuma un atto violento e all'apparenza inspiegabile. Delle indagini è incaricato un commissario dal passato oscuro e dal presente tormentato. La realtà prende forma un tassello alla volta, in un'atmosfera che si fa sempre più tesa, fino a comporre un mosaico gotico che costringe i protagonisti a fare i conti con ciò che davvero sono.
Nel suo letto di morte, in uno stato sospeso fra il sogno e iI ricordo, sperando di ricevere notizie del figlio Raul disperso, il leggendario moschettiere Athos rivede la sua vita tempestosa, in perpetua relazione con il mistero, l'intrigo, il pericolo. Fra tutte, torna a lui la prima avventura che segnò il suo destino: quando, poco più che ragazzo, dopo un fortunoso naufragio rifiutò l'invito a entrare nell'Ordine dei Cavalieri di Malta e accettò invece un incarico assai più rischioso. Sfidando il mistero del momento ineffabile dell'ultimo passaggio, Alberto Ongaro fa proprio il personaggio di Dumas, amatissimo insieme agli inseparabili Porthos, Aramis e D'Artagnan, in un romanzo che interroga il senso dell'avventura umana di fronte all'ineluttabilità della sua fine.
Elena non è soddisfatta della sua vita. Il suo matrimonio si trascina stancamente, senza passione né curiosità. Suo marito è diventato ormai come un fratello: "Non viviamo insieme, insieme ammazziamo il tempo. Abbiamo stupidamente pensato che due infelicità unite potessero dar vita a una felicità". Ha sempre deciso in anticipo come doveva essere la sua vita: la scuola da fare, l'università, l'uomo da sposare... perfino il colore del divano. È diventata moglie prima di diventare donna. Finché un giorno sente che qualcosa inizia a scricchiolare. La passione e il desiderio si affacciano nella sua quotidianità, costringendola a mettersi in discussione. Elena si rende conto che un altro modo di vivere è possibile. Forse lei si merita di più, forse anche lei si merita la felicità. Basta solo trovare il coraggio di provare, di buttarsi, magari di sbagliare. "Per anni ho aspettato che la mia vita cambiasse, invece ora so che era lei ad aspettare che cambiassi io". Un libro sincero e intenso, capace di affrontare i sentimenti senza trucchi o giri di parole, e di portarci faccia a faccia con le nostre emozioni più vere.
Una donna: Adele. Una passione prorompente, insopprimibile, quasi gesto d'obbedienza a un comando biologico: i libri, la lettura, i fantasmi che popolano l'universo della grande invenzione letteraria universale, Emma Bovary, Madame Chauchat, il principe Myskin, il capitano Achab, Henry Esmond, don Giovanni. Siamo negli opachi, anzi rischiosi, anni settanta, in una cittadina dell'entroterra campano dove tutto sembra fermo e addormentato. E invece... Adele ha soltanto quattordici anni quando si innamora di Fausto, lettore accanito a sua volta nonché fervido militante del Partito comunista. Amori e divergenze bruciano la loro giovinezza. Finché Adele, inquieta e delusa, abbandona la sua "Macondo" per Napoli, dove si fa "maestra di strada" in uno dei quartieri più degradati della città. I libri insomma continuano a essere la sua ossessione. La sua ragione di vita. A scandire, come un tempo le speranze, adesso le delusioni. Tra cui la più grande di tutte: l'irrimediabile perdita dell'uomo amato. Ora Adele vive isolata nell'appartamento ereditato dalla nonna, trasformato in una vera e propria biblioteca pubblica, tra migliaia di libri rari, pregiati, antichi e moderni, una sorta di sacrario all'interno del quale si muove come una vestale e si intrattiene con gli interlocutori di sempre: caro don Chisciotte, caro Renzo, caro don Giovanni... Adele brucia sino alla fine, ma il suo amore per la letteratura non ha nulla di cerebrale, anzi in esso si consuma la sua irresistibile sensualità.
"La dismissione" è opera che ha guadagnato nel tempo una bruciante attualità. Vi si leggono le sorti dell'Ilva di Bagnoli e della Napoli operaia attraverso la vicenda di Vincenzo Buonocore, entrato all'Ilva come semplice manovale e diventato, con gli anni, tecnico specializzato alla guida delle Colate continue. A lui viene affidato l'incarico di smontare il suo reparto, venduto ai cinesi. Al colpo durissimo reagisce in maniera imprevedibile. In preda a uno stato di esaltazione nevrotica, decide di eseguire il compito assegnatogli con una precisione e un rigore "assoluti". Questa dismissione, dice a se stesso, dovrà avvenire "bullone per bullone", dovrà essere il mio "capolavoro", la prova tangibile del mio genio operaio. La meravigliosa dedizione di Buonocore non cancella il lavoro negato né tantomeno la sconfitta, che è la sua ma anche quella di tutta Napoli e del Paese nel suo insieme. Il romanzo si chiude con un corteo funebre, tanto straziante quanto simbolico, e con il presagio di futuri disastri: dal dilagare della disoccupazione all'imperio di una camorra destinata a non avere più freni. A Napoli si è aggiunta Taranto, ma il quesito rimane lo stesso: perché tanta cieca improvvisazione? La risposta di Buonocore - di tutti i Buonocore d'Italia, vecchi e nuovi - non muta: perché abbiamo un capitalismo straccione e una classe dirigente inetta e famelica.
A Srebrenica l'unico modo per restare innocenti era morire. Marco Magini era un ragazzino durante i terribili fatti della ex Jugoslavia, li conosceva solo dai telegiornali. Ma quando da studente si imbatte nella storia di Drazen quella vicenda diventa un'ossessione. Quella storia raccontava di un ventenne costretto a combattere una guerra voluta da un'altra generazione e messo davanti a decisioni che nella loro eccezionalità mostrano a nudo l'animo umano come in un antico dramma greco. La rievocazione del massacro e del successivo processo presso il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia è affidata a tre voci che si alternano in una partitura ben scandita. La voce del magistrato spagnolo Romeo González che rievoca lo svolgersi del processo, evidenziando le motivazioni non sempre etiche e limpide che determinano una sentenza. Nell'eterno dibattersi tra ubbidire a leggi fratricide o ribellarsi appellandosi ai diritti inviolabili dell'uomo, viene fuori solo un'immagine povera e burocratica dell'esercizio della legge. Al giudice González si affiancano le voci di Dirk, casco blu olandese di stanza a Srebrenica, rappresentante del contingente Onu colpevole di non avere impedito la strage, e quella del soldato serbo-croato Drazen Erdemovic, vero protagonista della storia, volontario nell'esercito serbo, che fu l'unico a confessare di avere partecipato al massacro, l'unico processato e condannato.
Sotto la cupola di vetro della Royal Albert Hall, nel cuore pulsante di Londra, due uomini giocano a tennis nel silenzio di una sala da cinquemila persone, vuota. Derek Morgan, trader di una grande banca americana, può avere per sé qualsiasi posto. È uno che può tutto. All'italiano che saltella dall'altra parte della rete, Massimo De Ruggero, sta per annunciare che tornerà alla casa madre di New York e che ha scelto lui come successore: significa cinquanta milioni di dollari all'anno e un potere enorme, superiore a quello di qualunque politico. Quando è partito da Roma, Massimo voleva salire in alto, fino alla cima della piramide, e vedere il futuro prima degli altri. Adesso ce l'ha fatta, la City è ai suoi piedi. È arrivato il momento di volare, ma la caduta è iniziata da tempo, e lui lo sa bene. Ha capito che la finanza non è soltanto un vertiginoso gioco di prestigio, il livello dello scontro si è alzato oltre i limiti, e quello per cui si lotta non è più un profitto con molti zeri. È la sopravvivenza dell'Occidente così come lo conosciamo. Si dice sempre che i tessitori del nostro destino non hanno volto, che il loro trucco più diabolico è farci credere che non esistano. Guido Maria Brera ce li mostra per la prima volta da vicino, portandoci esattamente al centro della zona grigia dove nascono le decisioni, dove si esercita l'unico vero potere del nostro tempo. Questo è il romanzo che vi fa vedere dall'interno il ciclone che sta arrivando e dal quale nessuno potrà ripararsi.