
1046, Mantova. Tutto ebbe inizio con un sogno: un campo di battaglia, il fuoco, centinaia di morti. E poi una donna, i capelli rossi, l'armatura bianca, la spada in pugno, a ottenere la vittoria, riprendersi la sua terra. Questo sognò Beatrice di Canossa poco prima di dare alla luce la sua terza figlia, Matilde. Sapeva che la bambina avrebbe avuto un grande avvenire, ma mai avrebbe immaginato che potesse diventare un simbolo, la donna più temuta e rispettata del suo tempo, una combattente. Il suo destino, secondo la tradizione, era al fianco di un guerriero di nobili natali scelto dal padre. Solo una moglie, quindi, anche se blasonata, o una badessa di un importante convento. Ma le cose andarono diversamente. Dopo la morte prematura del padre, la cui posizione era considerata scomoda dall'imperatore Enrico III, e del fratello, avvelenato, Matilde si trovò costretta a governare, Grancontessa di tutte le terre italiche a nord dello Stato Pontificio, a combattere per difendere i suoi sudditi, al fianco del papa durante la Lotta per le investiture, a trattare per la pace tra Gregorio VII ed Enrico IV. Mai un giorno della sua vita venne speso per se stessa, ma la Storia la vede ancora oggi protagonista.
1412, Domrémy.
Il giorno in cui Giovanna d'Arco viene alla luce non è un giorno come gli altri, è un giorno straordinario. Il sole scompare per qualche ora, nascosto da un'eclissi, gettando nel panico i villani. E proprio quando la neonata emette un vagito, la luce torna. Questo non è che il primo segno di una vita che sarà breve e straordinaria. Giovanna, infatti, giovanissima, inizia ad avere delle visioni, a sentire la voce di Dio. Una voce che la spinge alla preghiera, alla devozione, al sacrificio del corpo prima, e poi a un'impresa che pare impossibile e assurda per una sedicenne di umili origini: salvare il regno di Francia, afflitto da decenni di guerra contro gli inglesi. La fugace ed eccezionale vita di Giovanna è scandita dalle parole di Dio, dal sostegno del suo popolo, dal favore delle truppe da lei guidate, dai miracoli praticati a chi chiede la grazia. Giovanna è il simbolo della rinascita contro la decadenza. E, forse per questo, viene condannata come eretica, il suo corpo dato alle fiamme, i suoi resti gettati nella Senna. Una condanna assurda e osteggiata da molti, vergata da quella stessa Chiesa che secoli dopo ne proclamerà la Santità.
Dopo Matilde, Rita Coruzzi narra le gesta e i segreti di un'altra eroina della fede cristiana, Giovanna d'Arco, guerriera, eretica, santa. Una donna che, in soli diciannove anni di vita, cambiò la storia.
Questo e' un libro che parla contemporaneamente alla testa e al cuore. Un romanzo semplice, molto scorrevole.
Il Fondo manoscritti creato da Maria Corti presso l'Università di Pavia nel 1968 è diventato una delle più vive realtà culturali italiane, il luogo dove si conservano e si studiano i testi autografi dei maggiori scrittori dell'Otto e del Novecento. La Corti racconta in questo libro molti aneddoti di prima mano che coinvolgono famosi scrittori, vedove votate alla gloria letteraria dei propri mariti, banchieri generosi, personaggi maggiori e minori che si incrociano come in un romanzo. Ma "Ombre dal fondo" è anche un libro di riflessioni sulla letteratura e una rassegna di interventi critici su una serie di autori fra i più amati dell'autrice, da Montale a Fortini, ad Amalia Rosselli.
Un romanzo di pendolarismo padano, i lunghissimi viaggi in treno tra Chiari e Milano, ammassati su carri-bestiame, per recarsi sul posto di lavoro, un universo composito e contraddittorio, un mondo apparentemente barbarico recuperato alla memoria storica, un impasto linguistico.
Prima raffigurate nell'antica Grecia come uccelli rapaci con testa e bionda chioma di donna, poi dal Medioevo in avanti come donne a coda di pesce, le sirene sono da sempre con insidioso canto simbolo della seduzione intellettuale. Nei quattro episodi del libro, che vanno dai remoti tempi omerici all'oggi, Maria Corti illumina quella strana avventura di seduzione per cui "Sirene e naviganti si desideravano reciprocamente". Gli esiti sono fabulosi, drammatici o ironici, tutti conditi da un sottile chiacchierio delle Divine. Prefazione di Cesare Segre.
"Il libro si può leggere - secondo P. Di Stefano ("Corriere della Sera") come un appassionato romanzo della cultura italiana del secondo Novecento, ricco di tic e di bizzarrie, di notizie e di storie. Una miscela ben sintetizzata sin dall'ossimoro del titolo." Maria Corti, scrittrice e storica della lingua, definita da Giorgio Petrocchi il "Perry Mason della letteratura", si racconta e racconta a Cristina Nesi i suoi amici poeti e scrittori tra "classici" e avanguardia (Montale, Gadda, Bilenchi, Manganelli, Porta...), le battaglie culturali degli anni Sessanta e Settanta, la creazione del Fondo Manoscritti di Autori Moderni e Contemporanei a Pavia, gli incontri nei caffè o nelle case editrici milanesi e l'impegno nella scrittura.
Il 9 giugno 1942 Eugenio Corti partì volontario per la campagna di Russia, l'esperienza decisiva della sua vita, in cui maturò la risposta alla vocazione di scrittore. Le immagini che vide, le storie che incontrò e il gelido calvario della Ritirata, si verseranno poi nelle pagine dei suoi capolavori, "I più non ritornano" e la grande saga del "Cavallo rosso". Ora, grazie a queste preziose lettere, qui pubblicate per la prima volta, possiamo conoscere particolari inediti di quella tragica avventura e del cantiere remoto di un narratore assetato di verità e di bellezza.
Le reducciones settecentesce del Paraguay offrono il lussureggiante ma anche drammatico contesto in cui si muove una storia tutta «visiva», costruita secondo i canoni insieme classici e moderni della sceneggiatura cinematografica e misteriosamente ancorata a un'efficacissima regia interiore (pp. 488).
L'autore del Cavallo rosso e de La terra dell'Indio si confronta con un mito moderno, quel pugno di marinai ribelli della nave inglese Bounty che nel 1789 volle riprodurre il paradiso in terra vivendo «secondo natura» in un'isola tropicale. Corti mette in scena quella vicenda utopistica e tragica rappresentando gli ammutinati e la trama dei loro comportamenti: una storia avvincente e un'impressionante metafora sociale (pp. 336, II ed.).
Dopo l’epopea del Cavallo rosso, il romanzo che ha fatto parlare di Eugenio Corti come del «Tolstoj italiano del Novecento», l’autore brianteo si era applicato ai «romanzi per immagini» La terra dell’indio e L’isola del Paradiso. Con Catone l’antico, Corti aveva fatto rivivere ai lettori un discrimine cruciale della storia romana, per tanti aspetti simile all’attualità che stiamo vivendo. Con questo nuovo libro, Corti può finalmente dedicarsi al periodo storico da lui più amato, il Medioevo, appunto, visto come paradigma realizzato della civiltà cristiana. E lo fa raccontando la storia della beata Angelina da Montegiove (1377-1435), lontana antenata della moglie dello scrittore e conterranea della più nota beata Angela da Foligno (1208-1309), premettendo un ampio excursus che valorizza il Medioevo nella storia dell’umanità. Il tono narrativo, saldamente ancorato alle fonti storiche, è lo stesso che Corti usa negli incontri con i numerosissimi studenti universitari che vanno a trovarlo nella sua casa in Brianza, che trovano «nell’aquila dei suoi 87 anni» (per parafrasare il poeta) uno straordinario testimone del Ventesimo secolo e un maestro per i tempi nuovi.
La seconda parte del volume racchiude una quindicina di testi brevi, scritti nell’arco di un quarantennio, che accanto agli indimenticabili ricordi di guerra, allineano interventi sulla contestazione del ‘68, istantanee di amici esemplari (don Carlo Gnocchi, in primis), un originalissimo ex-voto per san Michele Arcangelo e una suggestiva Apocalisse anno duemila.

