
Da qualunque cosa fuggisse, Andrea Severi, e qualunque cosa andasse a cercare in Grecia, adesso che, nell'ovattato, inquietante silenzio di una clinica svizzera passa le notti a scrivere, tentando con una sorta di accanimento febbrile di ricostruire il racconto di quel viaggio per poter ritrovare in esso un filo logico e rassicurante, gli eventi di quelle settimane gli appaiono, a mano a mano che procede nella narrazione, come un'oscura sequenza di segni il cui senso rimane del tutto indecifrabile. Attraverso il suo racconto il lettore scoprirà come quello che gli era sembrato all'inizio un piacevole incontro con una donna bella e le sue tre figlie, si sia trasformato in una sorta di incubo, in una trappola.
Palermo, a metà degli anni '80, è una città abitata dalla violenza, dove l'unico principio ordinante è la legge del sangue di mafia. Dall'estate dell'85, nelle strade cominciano a cadere giusti diventati scomodi, come il poliziotto Ninni Cassare e il giornalista Mauro Rostagno, vittime ignare come il giovanissimo Gianmatteo Sole, industriali come il presidente del Palermo calcio Roberto Parisi, che coltivava il suo sogno sportivo. In una città che ride per le battute in tv di Franco e Ciccio, all'ombra dei lavori per il nuovo stadio, altri innocenti si aggiungono alla lista nera: a dare voce a tutti loro è il "cuntaru" per eccellenza, il cantastorie Colapesce. In equilibrio tra favola e inchiesta, e tra un castello e uno stadio, "Vivi da morire" racconta di eroi conosciuti e persone dimenticate, storie di mafia e coraggio, di lacrime e della forza di un sorriso, da leggere come un'appassionante ballata civile, che rivela ai genitori e ai figli dell'Italia di oggi come la Sicilia fu l'incubatrice e il laboratorio di tutti i mali di una nazione, e delle sue più grandi speranze.
Una felice storia d'amore, e un figlio, portano Anna, la protagonista di questo romanzo, a confrontarsi con un mondo tanto distante dal suo come quello di Dubai: sposata a un uomo musulmano, per quanto aperto, Anna si trova alla ricerca di un nuovo equilibrio. Così, la ragazza occidentale, si trova catapultata in una nuova realtà, in un mondo da sogno, che però rischia di trasformarsi in una gabbia dorata.
È l'alba. Anche stanotte Eva non riesce a dormire. Apre la finestra: l'aria pungente e dolce dell'aprile altoatesino sa di neve e di resina. All'improvviso il telefono squilla, la voce debole di un uomo che la chiama con il soprannome della sua infanzia: è Vito. È molto malato, e vorrebbe vederla per l'ultima volta. Carabiniere calabrese in pensione, ha prestato a lungo servizio in Alto Adige negli anni sessanta, anni cupi, di tensione e di attentati. Anni che non impedirono l'amore tra quello smarrito giovane carabiniere e la bellissima Gerda Huber, cuoca in un grande albergo, sorella di un terrorista altoatesino e soprattutto ragazza madre in un mondo ostile. Quando Vito è entrato nella sua vita, Eva la figlia bambina, ha provato per la prima volta il sapore di cosa sia un papà: qualcuno che ti vuole così bene che, se necessario, perfino ti sgrida. Sul treno che porta Eva da Vito morente, lungo i 1397 chilometri che corrono dalle guglie dolomitiche del Rosengarten fino al mare scintillante della Calabria, compiremo anche un viaggio a ritroso nel tempo, dentro la storia tormentata dell'Alto Adige e della famiglia Huber. La fine della prima guerra mondiale, quando il Sudtirolo austriaco venne assegnato all'Italia, quando Hermann Huber, futuro padre di Gerda, perse i genitori e con loro la capacità di amare.
Roma, agosto 2010. In un vecchio palazzo senza ascensore, Ilaria sale con fatica i sei piani che la separano dal suo appartamento. Vorrebbe solo chiudersi in casa, dimenticare il traffico e l'afa, ma ad attenderla in cima trova una sorpresa: un ragazzo con la pelle nera e le gambe lunghe, che le mostra un passaporto. «Mi chiamo Shimeta Ietmgeta Attilaprofeti» le dice, «e tu sei mia zia.» All'inizio Ilaria pensa che sia uno scherzo. Di Attila Profeti lei ne conosce solo uno: è il soprannome di suo padre Attilio, un uomo che di segreti ne ha avuti sempre tanti, e che ora è troppo vecchio per rivelarli. Shimeta dice di essere il nipote di Attilio e della donna con cui è stato durante l'occupazione italiana in Etiopia. E se fosse la verità? E cosi che Ilaria comincia a dubitare: quante cose, di suo padre, deve ancora scoprire? Le risposte che cerca sono nel passato di tutti noi: di un'Italia che rimuove i ricordi per non affrontarli, che sopravvive sempre senza turbarsi mai, un Paese alla deriva diventato, suo malgrado, il centro dell'Europa delle grandi migrazioni.
Roma, 46 a.C. Nel corteo trionfale di Cesare dopo la campagna d'Africa sfila un giovanissimo orfano di guerra: è Giuba, figlio del re di Numidia, sconfitto dai cesariani. Un triste futuro lo attende se non fosse che gli dèi, da cui dipendono le sorti degli uomini, hanno in serbo altri progetti per lui: a Giuba è riservato un destino che lo porterà a riconquistare gli onori del suo rango. Viene infatti accolto nella famiglia di Augusto e cresciuto secondo il costume romano. Nel 25 a.C. è lo stesso Ottaviano ad assegnargli il regno di Mauretania, in Nordafrica, e a dargli in sposa la bella e sensuale Cleopatra Selene, figlia di Cleopatra e Marco Antonio, una donna colta e raffinata, legata al marito da un sentimento profondo. Appassionato di arte e letteratura, di filosofia e geografia, non pago dei preziosi volumi custoditi nella sua immensa biblioteca, Giuba promuove diverse spedizioni esplorative, spinto dalla sua inestinguibile sete di conoscenza. Fra queste, la più avventurosa e rocambolesca lo condurrà, insieme ad alcuni amici fidati e a una settantina di marinai abili con i remi quanto con la spada, alla scoperta delle Isole Fortunate, le odierne Canarie. Lì, in quei luoghi sospesi fra mito e realtà, agli estremi confini del mondo conosciuto, i protagonisti della spedizione scopriranno una natura spettacolare e selvaggia, incontreranno un popolo che non conosce il denaro e l'avidità, assisteranno ai fenomeni prodotti dall'immane potenza dell'Oceano...
Il miglior tempo" segue le orme di un uomo che è cresciuto giocando con le automobili, si diverte a sfidare i limiti e da sempre cammina in bilico tra motori e donne (ma non tra donne&motori). Nella sua vita i primi - macchine, motociclette, aerei - sono tradizione familiare, lavoro, hobby, addirittura mania, culto, autocoscienza. Le seconde, invece, sono le nonne, la tata, la madre, la moglie, le figlie, le amiche, tutte figure femminili sagge e pazienti, loro sì rispettose dei limiti, capaci di curare le ferite ogni volta che il gioco si fa troppo pericoloso. Ed è proprio nell'equilibrio tra ragazzate e perdono, tra fughe liberatorie e carezze di conforto, che bisogna cercare il tempo migliore e che si raccontano le storie più belle... C'è il ricordo mitico della Millemiglia del '56 a bordo di una Fiat 1100-103 Zagato, gioiosa ma estenuante anarchia automobilistica. C'è la birichinata incendiaria di un bambino che rimette in moto una Renault Dauphine del '58 abbandonata. C'è la corsa forsennata di un Piaggio Sì 50 ce nelle vie di Milano per seminare qualcuno che ha cattive intenzioni. C'è un Cessna 172 che perde l'orientamento. C'è una notte d'amore in cui viene concepita la più bella delle automobili. In questo libro, sospeso tra realtà e sogni, tra riso, paura e nostalgia, Guido Meda ha saputo dare senso a una passione assoluta. Che è anche la voglia tutta maschile di vivere con leggerezza. Di partire per una scorribanda sapendo di poter sempre tornare sotto un tetto sicuro.
Con il "cinghialese" Meacci fa un capolavoro. Costruisce una lingua secondo il modello delle Cosmicomiche di Calvino.
Luca Serianni
La scrittura di Giordano Meacci non somiglia a quella di nessun altro. Questo libro è potente: Meacci ti porta nell'immaginario paese di Corsignano e te lo racconta pietra per pietra, persona per persona. Pura letteratura.
Diego De Silva
Candidato al Premio Strega 2016
Nell’immaginario paese di Corsignano – tra Toscana e Umbria – la vita procede come sempre. C’è gente che lavora, donne che tradiscono i propri uomini e uomini che perdono una fortuna a carte. C’è una vecchia che ricorda il giorno in cui fu abbandonata sull’altare, un avvocato canaglia, due bellissime sorelle che eccellono nell’arte della prostituzione e una bambina che rischia la morte. E c’è una comunità di cinghiali che scorrazza nei boschi circostanti. Se non fosse che uno di questi cinghiali acquista misteriosamente facoltà che trascendono la sua natura. Non solo diventa capace di elaborare pensieri degni di un essere umano, ma, esattamente come noi, diventa consapevole anche della morte. Troppo umano per essere del tutto compreso dai suoi simili e troppo bestia per non essere temuto dagli umani: «il Cinghiale che uccise Liberty Valance» si ritrova all’improvviso in una terra di nessuno che da una parte lo getta nella solitudine ma dall’altra gli dà la capacità di accedere ai segreti di Corsignano, leggendo nel cuore dei suoi abitanti. Giordano Meacci scrive un romanzo bellissimo, commovente, appassionante, che racconta l’eterno mistero dei nostri sentimenti e lo fa grazie all’antico espediente di trattare le bestie come uomini e gli uomini come una tra le molte specie viventi sulla Terra.
Aveva chiesto a sua madre di non dire a nessuno che sarebbe tornata a casa, e invece quando Manuela Paris scende dalla macchina, davanti al portone di casa sua, trova un comitato d’accoglienza grande quanto Ladispoli intera. È la vigilia di Natale, Manuela non ha ancora ventotto anni ed è alta e sottile, il suo sarebbe un corpo da atleta, non fosse che ora è fragilissimo - le ossa frantumate ricomposte dalle operazioni, la fisioterapia, le stampelle che chissà quando si potranno mettere via.
Manuela è tornata a casa, in Afghanistan era a capo di un plotone di trenta alpini – la realizzazione di un desiderio che nasceva nell’infanzia, il sogno di una bambina magra e selvatica con l’anima di una principessa guerriera - adesso è una sopravvissuta. Per caso. In balistica si chiama «teoria della divergenza»: Dovevo trovarmi in un punto, che era l’incrocio di una serie di linee, e queste linee sono sempre la conseguenza logica e matematica di una catena di azioni, decisioni, movimenti, gesti. Invece, per un caso, non c’ero. Ero dieci metri piú indietro, anche se non dovevo esserci, e l’esplosione mi ha fatto a pezzi, ma non del tutto. È per quella divergenza che sono viva.
Viva ma incapace di vivere, Manuela, incapace di pensare a un futuro che non sia tornare sul campo e far ripartire l’esistenza nel punto esatto in cui si è interrotta, un istante prima dell’attentato che adesso, invece di rassegnarsi a diventare passato, è intrusione continua nel presente. I medici le hanno detto che ricordare è importante, che ricostruire la sua storia fino al giorno del disastro può aiutarla ad andare avanti. E Manuela, che della disciplina ha imparato a non poter fare a meno, fa i compiti: ricorda, racconta dell’Afghanistan, della guerra, di un popolo sprezzante del pericolo e che più di tutto amava la libertà, scrive del deserto delle pietre e del sangue. Anche se le parole, le sembra, non servono a dissolvere i fantasmi: piuttosto li evocano, ne mettono a fuoco i dettagli.
Ogni sera, quando la casa è già silenziosa, Manuela esce sul balcone e accende una sigaretta. Dall’altra parte della strada, sul balcone dell’hotel Bellavista, un uomo nascosto dal buio fa la stessa cosa. Lui sa che lei si alza prima di tutti e va a letto per ultima, che dorme con la luce accesa, che a volte di notte si sveglia e cammina, che al posto del pigiama usa una maglietta bianca. Lei di lui sa che corre tanto e bene, che beve acqua gassata, che prima di spegnere la luce legge un libro e che fuma troppo. Non sanno nulla del passato che li ha costruiti, di quello che vogliono dimenticare, o magari nascondere, ma ognuno, dal suo limbo, studia il limbo dell’altro: le azioni minime, le espressioni, i gesti che parlano al posto della voce. E forse proprio nell’incontro con quest’uomo che sembra appena venuto al mondo, e che come lei sembra paralizzato in un presente di speranza e attesa, Manuela riuscirà a trovare il punto in cui si ricomincia a vivere. Un punto che dovrebbe stare lì, nell’incrocio delle linee determinate dalle azioni e dalle decisioni, ma che invece, contro ogni previsione logica e matematica, forse va cercato dieci metri più in là.
A sette anni dal successo di Un giorno perfetto, Melania Gaia Mazzucco (Premio Strega nel 2003 per Vita) passa a Einaudi con una storia epica e appassionante, che ci parla del nostro tempo e ci interroga sulle nostre responsabilità di uomini. Il grande romanzo contemporaneo di una delle autrici italiane più conosciute e amate nel mondo.
Annemarie fu scrittrice, fotografa, giornalista; colta, ricca e bellissima, "sembrava incarnare tutta la storia d'Europa". Sullo sfondo della società letteraria cosmopolita degli anni Trenta fu una donna sempre in attesa, in fuga, che non smetteva mai di cercare: parole per i suoi libri, immagini per i suoi reportage, donne da sedurre, uomini da incantare. Senza realizzare mai il suo sogno di vivere di scrittura. Avrebbe potuto avere una vita agiata e oziosa invece ha scelto di portare il suo corpo androgino, il volto nobile, i fluenti capelli biondi tagliati corti continuamente in viaggio: ha attraversato l'Europa in guerra, l'Afganistan, l'Iran, il Congo da sola per far fotografie, alla ricerca di un senso. Scelse di essere fedele a se stessa pagandone le conseguenze. Ruppe con la famiglia, con una madre che detestava la sua libertà, e scivolò in una vita errabonda, in amicizie appassionate e distruttive, come quella con i terribili figli di Thomas Mann che la iniziarono alla tossicodipendenza, fino alla morte. Melania Mazzucco, con "Lei così amata", toglie dall'oblio "una vita che riassume in sé i grandi classici delle esperienze della gioventù del '900: dalla ribellione contro la società borghese, al desiderio di essere eterni adolescenti, senza doveri e responsabilità. Eppure è anche la storia di un'utopia: di essere salvati dalla scrittura. Quella che si infila nelle crepe della vita"
Giovanni Briccio è un genio plebeo, osteggiato dai letterati e ignorato dalla corte: materassaio, pittore di poca fama, musicista, popolare commediografo, attore e poeta. Bizzarro cane randagio in un'epoca in cui è necessario avere un padrone, Briccio educa la figlia alla pittura, e la lancia nel mondo dell'arte come fanciulla prodigio, imponendole il destino della verginità. Plautilla però, donna e di umili origini, fatica a emergere nell'ambiente degli artisti romani, dominato da Bernini e Pietro da Cortona. L'incontro con Elpidio Benedetti, aspirante scrittore prescelto dal cardinal Barberini come segretario di Mazzarino, finirà per cambiarle la vita. Con la complicità di questo insolito compagno di viaggio, diventerà molto più di ciò che il padre aveva osato immaginare. Melania Mazzucco torna al romanzo storico, alla passione per l'arte e i suoi interpreti. Mentre racconta fasti, intrighi, violenze e miserie della Roma dei papi, e il fervore di un secolo insieme bigotto e libertino, ci regala il ritratto di una straordinaria donna del Seicento, abilissima a non far parlare di sé e a celare audacia e sogni per poter realizzare l'impresa in grado di riscattare una vita intera: la costruzione di una originale villa di delizie sul colle che domina Roma, disegnata, progettata ed eseguita da lei, Plautilla, la prima architettrice della storia moderna.