
È un lunedì mattina quando lo scrittore Massimo Senise riceve nel suo attico romano un pacco da Madrid contenente le dieci copie della versione spagnola del suo ultimo romanzo. Attratto dalla bella copertina, si immerge nella lettura, ma d'improvviso s'interrompe, disorientato. Nel primo capitolo compare un personaggio di nome Marta che nell'originale - ne è certo - non esisteva. Camminando lieve e triste sulla battigia, la ragazza entra ed esce dal libro nello spazio di una frase. Incuriosito, Senise legge oltre e altri interventi arbitrari gli saltano all'occhio, tra cui due aggiunte lapidarie: "muere" e "Por tu culpa". Sembra un messaggio criptato, inserito nel libro a suo uso e consumo. Da chi, se non dalla traduttrice Magdalena Vegas Palacio, il cui nome è citato in frontespizio? Chi è questa donna? E chi è Marta? Senise decide di partire, intraprendendo un viaggio nei ricordi fra i quali riemerge prepotente la figura di una bambina incontrata una sera a Murano, nel giardino di sua zia. Volitiva, spiazzante, sconcertante, quella bambina aveva popolato a lungo i suoi sogni di ragazzo e poi di adulto. Massimo ne insegue invano le tracce a Venezia, poi vola a Madrid, e di lì a Toledo, nel vano tentativo di incontrare se non altro la misteriosa traduttrice. E mentre a ogni passo misteriose coincidenze gli svelano sempre più della vita della bambina di Murano, Senise con sgomento si rende conto che quella vita sembra ricalcare un tragico racconto da lui scritto in prima gioventù.
Francesco Soria è un musicista. Scrive colonne sonore per il cinema e ha un certo successo. Una sera, mentre sta cercando di telefonare a Roma, la comunicazione viene interrotta da un'interferenza. All'altro capo una voce di donna. Sta parlando con qualcuno che Soria non può sentire ma che, dal tono della conversazione, deve essere un amante. E una storia finita, ma lei gli chiede un ultimo incontro «a quel ponte di legno, alla solita ora». Forse è la nota di rimpianto nelle parole della donna a scatenare in lui un'irrefrenabile curiosità. Deve conoscerla, deve dare un corpo a quella voce. È l'inizio di congetture e appostamenti, che lo portano a identificare la sconosciuta. È Frederika, una giovane di grande bellezza, sposata con un nobile tedesco, che frequenta Venezia di tanto in tanto. Quando il conte Andrea dal Fumo, uomo affascinante e grande seduttore, viene trovato morto, Francesco si convince che sia lui l'uomo della telefonata e che sia stata Frederika a ucciderlo. Evidentemente anche la polizia la pensa allo stesso modo, perché la giovane viene incriminata. Ma le cose non sono come sembrano e l'autore, trasportandoci in un dedalo che assomiglia a un intrico di calli veneziane, ci condurrà lentamente a scoprire l'impensabile verità.
Sospesa fra Venezia e Parigi, la vita di Stefano Pietra è quella di un giovane pittore che non è ancora riuscito ad affermare il proprio talento e si barcamena in attesa di una grande occasione. A offrirgliela è l’amica Hélène de Surgérès, che lo presenta a Emmanuel Cordier, noto mercante d’arte. Per Stefano una mostra da Cordier vorrebbe dire la svolta tanto attesa e, forse, un trampolino per riconquistare anche lei, la bella enigmatica Hélène, che lui ha amato dal primo istante in cui l’ha vista, e che l’ha riamato intensamente per poi lasciarlo senza motivo apparente, come rapita da un rivale che in silenzio aveva sempre abitato nel suo cuore.
Da Cordier Stefano fa conoscenza con François Ronan, un critico d’arte. L’uomo sembra molto interessato a lui e le sue attenzioni, che inizialmente lusingano Stefano, finiscono in breve per allarmarlo, cariche come sono di un presagio funesto che il giovane pittore non sa come interpretare.
Ronan, che per l’aspetto gli ricorda un ufficiale nazista, si rivela indecifrabile proprio come il pezzo più prezioso della sua collezione privata: un’antica maschera funebre di origine micenea alla quale tiene sopra a ogni cosa. Quel che è certo è che l’uomo cova un oscuro segreto ed è preda di una misteriosa ossessione. Il suo istinto di prevaricazione sembra trascinare tutto ciò che tocca e non tarderà a travolgere anche Stefano in un gorgo di angoscia e mistero, gelosia e vendetta, al cui centro vi è un arcano rituale dallo sconcertante potere.
Francesco Sacredo, giovane nobiluomo veneziano, torna nella sua città dall'esilio a Corfù, cui è stato costretto dall'Inquisizione. La laguna, trasformata dal gelo in una trappola di ghiaccio, lo accoglie lugubre come la sorte che lo attende. Durante la sua assenza il vecchio padre ha infatti perso al gioco tutti i suoi averi, vinti dalla contessa tedesca Matilde von Wallenstein. La nobildonna, vedova e smodatamente ricca grazie a una sfacciata e diabolica fortuna al gioco, concede al giovane una possibilità: recuperare d'un colpo, in un'ultima partita, tutti i beni persi dal padre. La posta in gioco è però altissima, perché ciò su cui il giovane Sacredo deve puntare è la sua vita stessa. Se perde, infatti, diverrà anch'egli uno dei beni acquisiti dalla contessa, che ne "prenderà possesso". Sconfitto, Sacredo fugge per sottrarsi al destino che tragicamente incombe, cercando nell'avventura il contrappunto alla solitudine. Una fuga che si trasforma anch'essa in una partita senza fine contro il destino.
Damiano Zaguri, capo della squadra Anticrimine di Venezia, viene svegliato in piena notte: in fondamenta San Trovaso un uomo è stato ucciso, un neonato - suo figlio - rapito dalla culla. All'apparenza non vi è alcun movente: la famiglia è abbiente ma non ricca, impensabile un riscatto, né si può immaginare un regolamento di conti. Il padre del bambino è stato ammazzato per sbaglio: se non avesse sorpreso il rapitore, ne sarebbe uscito incolume. Indagando fra gli informatori della malavita nella Baia del Re, Zaguri segue le tracce del criminale e dei suoi mandanti: è una corsa contro il tempo, e una personalissima sfida con un suo lontano antenato, Signore di Notte nella Venezia del Seicento, che si lasciò sfuggire i colpevoli della sparizione del piccolo erede di una contessa. A mettere Zaguri sulla giusta strada sarà un talismano, non unico elemento magico in una Venezia nebbiosa e palpitante, la cui laguna, secondo un'antica leggenda, sembra in grado di esprimere funesti presagi ingrossando le sue acque.
Nel suo letto di morte, in uno stato sospeso fra il sogno e iI ricordo, sperando di ricevere notizie del figlio Raul disperso, il leggendario moschettiere Athos rivede la sua vita tempestosa, in perpetua relazione con il mistero, l'intrigo, il pericolo. Fra tutte, torna a lui la prima avventura che segnò il suo destino: quando, poco più che ragazzo, dopo un fortunoso naufragio rifiutò l'invito a entrare nell'Ordine dei Cavalieri di Malta e accettò invece un incarico assai più rischioso. Sfidando il mistero del momento ineffabile dell'ultimo passaggio, Alberto Ongaro fa proprio il personaggio di Dumas, amatissimo insieme agli inseparabili Porthos, Aramis e D'Artagnan, in un romanzo che interroga il senso dell'avventura umana di fronte all'ineluttabilità della sua fine.
Come è potuto accadere che lo slogan femminista "il corpo è mio e lo gestisco io" si sia ribaltato in una forma di schiavitù volontaria? Una lettera appassionata e delicata sull'adolescenza, la scoperta del corpo, del sesso e della libertà. Senza moralismo, con rispetto e amore. Una donna di 87 anni, ex partigiana, scrive una lunga lettera a una ragazza di 14 anni incontrata in un parco. Una lettera sulla libertà, la bellezza e la dignità delle donne. L'autrice racconta la guerra partigiana, la propria anoressia, i rapporti tra ragazzi e ragazze in montagna, e il senso di pericolo e futuro da cui tutti si sentivano uniti. Il ricordo della lotta di liberazione delle donne si contrappone, così, al disagio di vedere che, oggi, per molte ragazze, libertà significa libertà di mettere all'incasso la propria bellezza.
"Ho bisogno della bellezza, così come amo ogni anelito dell'uomo per compararsi a essa. Rinuncerei a qualsiasi merito artistico pur di riuscire a fare della mia vita un'opera d'arte." È il principio che guida Ermanno Olmi in questa esplorazione di una vita, delle sue poche certezze e dei suoi molti incontri. Cresciuto nel pieno della disfatta fascista e testimone critico della rinascita nazionale, Olmi è stato giovanissimo fornaio, impiegato ragazzino, regista precoce. Ha vissuto direttamente l'abbandono delle campagne e l'esplosione della società dei consumi e per questo, divenuto protagonista della stagione d'oro del cinema italiano, ha scelto di rappresentare non i lustrini del Boom, ma la cecità di uno sviluppo che ha strappato il nostro Paese alle sue radici contadine. Proprio questa ferita è il cuore filosofico della sua illuminante autobiografia. L'"Apocalisse è un lieto fine" non è infatti solo il racconto di una vita densa e affascinante, degli incontri e dei successi che l'hanno segnata. È soprattutto la profonda, urgente riflessione con cui l'artista che ha saputo cogliere gli ultimi echi della civiltà rurale ci mette in guardia davanti al declino di un'altra epoca umana: la nostra. Abbiamo dimenticato cosa vuol dire "far bene" e coltivato a dismisura l'etica del male minore. Produttività, arricchimento e potere continueranno a rinchiuderci nelle loro gabbie fino a quando non saremo pronti a imparare l'eterna lezione della terra.
Una donna viene investita sotto casa e di lì a poco muore al Policlinico, dopo aver pronunciato una sola parola incomprensibile, forse un nome. Paola, Pola, ma potrebbe essere anche Paolo, tanto la voce era flebile, sostiene l'infermiera che l'ha assistita. La nebbia è fitta, sulla città come sulle indagini: non ci sono testimoni attendibili, e l'incidente rimarrebbe archiviato. Ma il nome di via Catalani, la strada in cui è avvenuto l'incidente, evoca nel vice commissario Giulio Ambrosio ricordi e nostalgie. Decide così di occuparsi direttamente del caso, in cui qualcosa non torna: forse non si è trattato solo di una sventura, forse la povera signora Kodra non è stata vittima di un pirata della strada ma di un assassino. Chi era Anna Kodra? Chi poteva volerla morta? E perché?
Didone ha conquistato con l'astuzia una terra per il suo popolo, i Fenici, sulle coste africane. Regina senza re, ha fondato Cartagine, l'ha cinta di mura, l'ha dotata di leggi. Ma è assediata dall'avidità dei capi nomadi, stanca delle quotidiane fatiche diplomatiche, preoccupata per il futuro e si sente sola. Un giorno approdano le navi degli stranieri: sono fuggiti da Troia in fiamme e li guida un eroe di cui lei ha udito cantare le gesta, Enea. Comincia così una delle più grandi storie d'amore, tradimento e disperazione mai raccontate, immortalata nell'Eneide di Virgilio. Ma c'è una voce da cui non l'abbiamo mai sentita narrare: quella della protagonista, Didone stessa, donna forte e sopravvissuta a mille traversie che pure si uccise per amore. O almeno, questo è ciò che sappiamo. Ma come sono andate «davvero» le cose? Qual è la versione al femminile dietro alla partenza di Enea da Cartagine e al suo viaggio verso la penisola italica, che portò alla fondazione di Roma? Meglio di chiunque altra lo sanno forse due dee, Giunone e Venere: l'una è la guida agguerrita di Didone, l'altra è l'amorevole protettrice di Enea. E un conflitto divino farà da sfondo a una sorprendente avventura umana sulle due sponde del Mediterraneo, che cambierà le sorti del mondo. Marilù Oliva entra nei pensieri e nei sentimenti di una delle più appassionate e tragiche eroine della letteratura d'ogni tempo. Arricchendone la vicenda non solo di sfumature e intuizioni, ma di avvincenti e inattese svolte narrative, dimostra ancora una volta l'inesauribile potenza del mito. E delle donne.
Chi combatte sotto le mura di Troia? Gli eroi, ma anche gli dèi e, con molto accanimento, le dee. Dopotutto, questa immane contesa è stata scatenata da una rivalità tra divine: la famosa mela d'oro assegnata da Paride ad Afrodite, che in cambio gli ha dato Elena. E così, con occhi femminili stavolta è raccontata l'Iliade. È Atena a parlarci dell'ira di Achille, ed è la madre dell'eroe, Teti, a spiegare i moti dell'animo di suo figlio, le sue scelte che tanto sangue costeranno ai due eserciti. Afrodite tiene un occhio sul campo di battaglia e un altro sui suoi protetti Paride ed Enea, di cui ci narra le gesta, senza nascondere le proprie ingerenze. La sua rivale Era, per contro, tifa per i Greci e cerca di favorirne la vittoria. E poi ci sono due donne speciali, l'una figlia di Zeus, l'altra toccata da Apollo: Elena e Cassandra, che da dietro le mura di Troia testimoniano il fato atroce dell'altra metà del cielo in ogni conflitto. Ma di chi è la voce che grida la sua disperazione e si predispone al sacrificio, mentre la città brucia? È la moglie di Enea, Creusa, una protagonista che la storia ha lasciato indietro ma che ha qualcosa di molto importante da rivelare. Riportando in vita l'Iliade come un coro di voci femminili, Marilù Oliva ribalta la prospettiva sulla più maschile delle vicende, la guerra, riappropriandosene a nome di tutte: delle troppe vinte, umiliate, violate, ma anche delle poche vincitrici apparenti, destinate ad afferrare trionfi effimeri come la vendetta. Un'epica potente, commovente, palpitante: indimenticabile.