
È il 1578. Il giovane missionario gesuita Matteo Ricci trascorre alcuni anni in India, a Cochin, porto del Malabar, emporio delle spezie, città di coabitazione tra comunità religiose ed etniche diverse. È inviato dai superiori del collegio in cui vive a rintracciare un antico missionario, Padre Alvaro Penteado. Abbandonato dai connazionali, ma considerato un uomo santo dagli indiani, il vecchio, che non ha quasi più nulla di europeo, sembra confuso e schiacciato dai suoi fallimenti. Ma il suo racconto trascina il giovane, lo sommerge come le acque torbide della laguna di Cochin, guidandolo alla scoperta di un mondo smisurato e conturbante, conducendolo dove egli, con tutta la sua scienza e la sua razionalità, non avrebbe mai voluto o pensato di spingersi.
L'autrice racconta la storia di una nonna (nonna della narratrice), della sua vita, del suo matrimonio e dei suoi amori. In quest'ordine, appunto, perché alla nonna tutto capita un po' in ritardo, quando ormai non ci spera più. Il matrimonio sembrava una possibilità sfumata (per via di una sentimentalità troppo accesa che faceva fuggire i pretendenti), quando a Cagliari, nel '43, arriva un uomo che viene ospitato dalla famiglia e si sdebita sposandone la figlia. Ma non è ancora l'amore, quell'amore vagheggiato e sognato da tutti i personaggi di Milena Agus, con tanto sfortunato ardore. Ed ecco che sembra arrivare inaspettato, durante un viaggio in Continente, durante una cura termale per curare il "mal di pietre", i calcoli renali.
L'autore racconta questa avventura di esplorazione, sul piano sensoriale e su quello intellettuale, fatta di scosse e di rimescolamenti, di un europeo trapiantato con tutto il proprio carico concettuale dal Vecchio Mondo nella sconosciuta Chicago. Come un detective, l'autore si trova d'improvviso a indagare i vari piani di realtà, esterni e interiori, che scopre via via che si addentra nella città che più di tutte porta i segni dell'"americanità". Il racconto ci trasmette un misto di sconcerto e commozione, ma il sentimento prevalente resta la meraviglia che afferra il lettore davanti ai protagonisti della storia americana, a questo popolo nuovo e giovane, e lo stupore non privo di sgomento innanzi alla potenza del capitalismo.
C'è una fiaba in questo libro, e la fiaba racconta di una bambina e di una creatura misteriosa. La Creatura d'acqua scura che striscia nella soffitta è forse il fantasma di un uomo ucciso durante la Resistenza e il cui corpo è stato occultato nello stagno. La Creatura d'acqua scura somiglia - dal buio nel quale la bambina la incontra - al lupo che attende Cappuccetto Rosso, al ginepro che conserva vita e morte nei suoi rami, al fuso di Rosaspina bella addormentata nel bosco, alla mela avvelenata di Biancaneve. La Creatura d'acqua scura torna, come in una favola nera, ad avvertire, raccontare, raccordare la vita adulta e l'infanzia, le colpe e le assoluzioni, i morti propri e quelli degli altri, gli amici perduti e i luoghi ritrovati. Simona Vinci, raccoglitrice di erbe per l'arrosto, fichi per le conserve e storie per queste pagine, continua a dire della sua paura e della nostra, svelando perché abbiamo tutti vissuto nelle fiabe dei fratelli Grimm e come, qualche volta, torniamo a viverci. Un viaggio dentro e fuori "il gusto della paura" di una scrittrice italiana che, per sua stessa ammissione, talvolta vede ancora l'invisibile.
Nel 1993 una ragazza si uccide gettandosi dal tetto di una palazzina, all'interno della comunità di recupero per tossicodipendenti di MaiPiù, in Romagna. Paolo Mormino, al suo primo incarico nella polizia, si occupa delle indagini. Il caso è semplice. Il suicidio è avvenuto davanti a numerosi testimoni, mentre il capo della comunità, Ernesto Magnani, tentava di dissuadere la ragazza dai suoi propositi. Mormino rimane colpito dalla personalità di Magnani, discusso fondatore di MaiPiù. Impara a conoscerne meglio le ragioni e i metodi poco ortodossi attraverso gli occhi di Roberta Ceredi, che lavora nella comunità, con la quale inizia una storia d'amore. Mormino chiude l'inchiesta ma la scoperta, nelle paludi vicino al mare, del cadavere di un uomo pestato a morte, lo riporta a MaiPiù. Questa volta il poliziotto incontra molti ostacoli, sia dentro la questura che in ambienti politici legati alla comunità, e deve scontrarsi con l'omertà che impera tra gli ex tossicodipendenti. A costo di perdere il lavoro e la ragazza, Mormino troverà le risposte che cerca nella palude, la terra di nessuno dove i fiumi finiscono per arenarsi in cerca di uno sbocco verso il mare.
La solitudine dell'infanzia e lo stupore della vecchiaia, i film visti e i libri letti, il lavoro, la musica lirica (il titolo è tratto dal libretto del Lohengrin), la politica, il credere o il non credere in Dio: i brevi saggi qui raccolti somigliano alle pagine di quel diario che l'autrice dichiarava di non essere mai riuscita a tenere. Di certo sono vicini, per affinità tematica e sapienza di racconto, a "Lessico famigliare" e, come altrove nell'opera di Natalia Ginzburg, sono inseparabili dalla vocazione del narrare di sé. Nella loro casualità, nel loro placido disordine quotidiano, affrontano questioni che appartengono a ciascuno di noi. Singolare autoritratto di donna, "Mai devi domandarmi" diventa cosi un'esperienza familiare, un oggetto destinato a farci compagnia giorno dopo giorno. L'edizione è corredata da un saggio di Domenico Scarpa e da un apparato comprendente le notizie sul testo, un'antologia della critica, una bibliografia e una cronologia della vita e delle opere. Introduzione di Cesare Garboli.
Quando "Mai ci eravamo annoiati" balzò sulla scena editoriale americana, alla fine degli anni Settanta, a nessun lettore era mai capitato di leggere niente di simile. Un libro che faceva saltare tutte le regole e imponeva con leggerezza un'irresistibile carica di novità e anticonformismo, una boccata d'aria fresca nei locali chiusi di una festa mondana dove gli elegantissimi ospiti hanno iniziato da un po' ad annoiarsi. Soprattutto è la voce a incantare, la voce della giovane Jen Fain, una ragazzina di provincia appena sbarcata a New York e decisa a conquistarsi il suo posto sul palcoscenico più desiderabile dell'epoca, sotto le mille luci di una città che non è mai stata così scintillante. Ci sono le feste nei loft di Brooklyn dove si incontrano galleristi, intellettuali francesi, editori spregiudicati, l'intero bel mondo della cultura. E poi le esercitazioni di volo con biplano, i molti amori fugaci e turbolenti, i viaggi, le lunghe serate nelle redazioni dei giornali, e una certa nostalgia per le notti in collegio con le amiche quando il mondo era più piccolo. Renata Adler, autrice icona della cultura newyorkese degli ultimi cinquant'anni, ci stuzzica riuscendo a essere allo stesso tempo amorevole e sfuggente. E ci racconta, in questo romanzo-non-romanzo, il nostro tempo frammentario, le nostre molteplici identità, le idee, le esperienze e le emozioni della contemporaneità - feroce, amara e in tutto e per tutto splendida.
Il Messico è il paese dei contrasti estremi. E all'estremo di tutto, c'è Mahahual: dove finisce la penisola dello Yucatán, sorge questo paesino di mille abitanti, a pochi chilometri dalla frontiera con il Belize. Angolo di paradiso tra palme e mangrovie, di fronte ha la barriera corallina seconda al mondo per estensione, il Mar dei Caraibi e lo scorrere lento del tempo: siamo nello stato del Quintana Roo, che a nord vanta la celebre Cancún, mentre qui c'è l'opposto assoluto, non solo geografico, perché a Mahahual il cemento non ha ancora invaso la vista, tra casupole, palafitte e hotel con il tetto di palme. Ma un'insidia minaccia costantemente questi litorali: per un capriccio delle correnti oceaniche, la plastica vi arriva da tre continenti, e ogni mattina all'alba, una miriade di volenterosi la raccoglie dalle spiagge, rendendole splendidamente bianche e pulite per un altro giorno, in un incessante "mito di Sisifo". Mari e terre ricchi di storia e leggende, dove i corsari ingaggiarono sfide mortali con i dominatori spagnoli, e i fieri maya non si lasciarono assoggettare da nessuno dei contendenti stranieri. Qui si narra di Gonzalo Guerrero che si schierò con gli indios, di Diego Grillo, il Mulatto, che si unì a Francis Drake per odio contro chi lo fece nascere schiavo, di Elvia Carrillo Puerto, indomita ribelle, che non attese la Revolución per affermare la propria libertà individuale e gli ideali di emancipazione collettiva.
Mentre i bagliori dei bombardamenti continuano a punteggiare il cielo di Baghdad, un giovane uomo cammina sui tetti a terrazza della città che sembra avvolta in un tempo dilatato e sospeso. Nessuna voce, nessun rumore se non quello dei tuoni sordi che rimbombano confusi e intermittenti sullo sfondo della scena. L’uomo avanza nel nulla, come un miraggio, poi con la mano afferra un bastone lungo e sottile celato dietro a un muretto. Non appena lo alza, decine di piccioni spuntano dal niente del cielo e iniziano a danzare attorno a quel bastone, al ritmo di una musica che nessun altro può sentire.
Fahim, questo è il nome del giovane uomo, a un tratto si ferma e guarda il cielo. Una piccola piuma bianca scende svolazzando e lui apre la mano per accoglierla. Un gesto semplice, che lo riporta indietro nel tempo, a quando era un bambino. Al giorno in cui suo fratello Ali gli ha regalato una fionda fatta con le sue mani, per sottrarlo ai suoi sogni a occhi aperti. Quello è il giorno in cui tutto è cambiato. Un piccolo dramma in mezzo a quelli grandi della sua terra, un evento che ha trasformato per sempre la sua vita, chiudendogli una strada e aprendogliene altre, inaspettate.
Raccontando la storia di Fahim e della sua famiglia, il suo prezioso mistero, i suoi dolorosi e deliziosi segreti, queste pagine narrano anche quella di un paese millenario, in bilico tra la raffinatezza e la sensibilità delle tradizioni mistiche sufi e il dramma insensato della guerra.
Immaginate un condominio, un condominio molto sui generis, che si allarga o si restringe, che è un palazzo con tanto di portiere, che è un quartiere (ma debordante), che è una città (con molti elementi partenopei) e finisce per ospitare tutta la sgangherata Italia dell'ultimo decennio. Montesano procede per tipologie chiamando all'appello il suddito televisivo, il consumatore globale, l'uomo medio assoluto, lo schiavo della pubblicità, e poi i risanatori dell'economia nazionale, i venditori di lavoro, i venditori di spiagge... Il libro prende le mosse dalla collaborazione dell'autore con "Il Mattino" su cui molti di questi severi (ma anche divertiti) esercizi di satira sociale hanno trovato una prima forma e una prima sede.
1936. Leo Piccioni ha appena superato l'esame di maturità. Ha il corpo sbilenco e fuor di squadra dell'ultima adolescenza, ma ha anche un temperamento eccitabile e nervoso. La sua famiglia medio borghese è soddisfatta e protettiva. Il padre si perde nei suoi studi e nei suoi esperimenti di biologia, la madre si compiace della merlettata rispettabilità delle convenzioni. Per fortuna c'è la zia Ester. Matura signorina con molta pratica del mondo, cova nella sua stanza i segreti incipriati di una femminilità a suo modo libera e ribelle. Antimussoliniana, lettrice di Freud in originale, cinefila, si lascia corteggiare da uomini sposati e non. E ha grandi idee in testa. Idee che arrivano quando scopre che il nipote ha, non si sa come, il potere di far scomparire cose. E persone. Durante la trasferta del padre in campagna per il periodico approvvigionamento di rane-cavie, nel casolare dove ha provato i primi spasimi d'amore, Leo ha sorpreso l'amor suo, la bella Argentina, e l'amico suo, Adriano, pomiciare forte. Ha guardato Adriano con intensità e collera e Adriano è sparito. Leo ha poi riprovato con portacenere e soprammobili e si è confidato con zia Ester. E zia Ester l'ha trasformato in mago: malgrado l'opposizione famigliare, gli ha costruito una carriera nei teatri d'avanspettacolo. Mentre sorpresa e sconcerto superano le pareti della casa Piccioni restano pur tuttavia inquietanti interrogativi...
A Lullina piace moltissimo passeggiare con il nonno e ascoltarlo mentre racconta storie incredibili inventate apposta per lei. Ma un giorno il nonno si accorge che la sua picciliddra è distratta e pensierosa e quando le chiede cosa non va lei confessa: tutto dipende da un sogno, il più bizzarro e stravagante che abbia mai fatto. Un omino minuscolo, tutto vestito di giallo, le ha rivelato la formula magica per far scomparire le persone, e Lullina muore dalla voglia di fare una prova! Fi ri ri ri, borerò, parupazio, stonibò, qua non sto: appena le sette parole misteriose escono dalla sua bocca la bambina scompare. Prima incredulo e poi disperato, il nonno si mette a cercarla dappertutto, invano. Possibile che quelle sette parole mammalucchigne abbiano sprigionato una magia tanto potente? Provare per credere! In questa favola sorprendente, con tre possibili finali, il Maestro Andrea Camilleri celebra la fantasia e la curiosità dei bambini. Nelle smaglianti illustrazioni di Giulia Orecchia risplendono i colori di una Sicilia piena di fascino e magia. Età di lettura: da 7 anni.