
Ispirato dalla leggenda di una setta "segreta" veramente esistita, composta da sicari e vendicatori, il romanzo di appendice «I Beati Paoli» venne scritto da Luigi Natoli tra il 1909 e il 1910 e pubblicato a puntate sotto lo pseudonimo di William Galt sul «Giornale di Sicilia». Il romanzo, ambientato nella Sicilia del primo XVIII secolo, mescola elementi di fantasia e personaggi realmente esistiti, come don Girolamo Ammirata, l'unico membro della setta finora identificato con certezza. Natoli profuse una cura scrupolosa nel ricostruire fedelmente l'ambiente della Palermo del tempo, utilizzando rigorosamente fonti storiche e le relazioni a stampa apparse all'epoca su feste e cerimonie pubbliche, e la sua narrazione si discosta solo in pochi momenti dalla realtà storica. Un «romanzo popolare», quindi, come lo definì Umberto Eco, importante quanto «I Viceré» e «Il Gattopardo», essenziale a vario titolo nella costruzione identitaria siciliana.
Pubblicato a puntate sul "Giornale di Sicilia" tra il maggio del 1909 e il gennaio del 1910, I Beati Paoli. Grande romanzo storico siciliano innalzava a epopea letteraria un'antica leggenda del popolo siciliano. Ma Luigi Natoli faceva qualcosa di più che scrivere, da una favola popolare, le puntate straordinariamente avvincenti e misteriose, capaci di inchiodare nelle portinerie il popolo attorno a chi era in grado di leggere e che "quasi con prepotenza salivano negli appartamenti della borghesia siciliana". Di fatto creava il mito compatto di una società segreta a protezione degli oppressi: la setta tenebrosa dei Beati Paoli e il loro tribunale implacabile, entrava nelle dicerie e nelle fantasticherie popolari come verità storica indiscussa e nostalgia segreta di riscatto. Un successo enorme, dovuto sì all'aderenza ad un sentire popolare, ma anche all'arte di avvolgerlo in un intrico fittissimo di vicissitudini private derivanti da segreti inconfessabili, da odi di famiglia o di società; di imprese coraggiose e cospirazioni vili; di sentimenti e passioni invincibili; di personaggi tragici nel bene e nel male. Raccontati in un linguaggio sensibile a tutti i vari ritmi e le tensioni della trama, e soprattutto così ricco e moderno da spiegare come mai la tenuta ne sia straordinariamente duratura, rispetto alle opere del genere.
Un'epica storia corale, tessuta di inganni e travestimenti e capovolgimenti e cospirazioni, e insieme (e soprattutto) la storia della rivincita personale di Blasco di Castiglione, intricata e perigliosa quanto quella dumasiana del Conte di Montecristo. Questo e molto altro è "I Beati Paoli", il capolavoro di Luigi Natoli. Tra riverberi di lame nell'oscurità dei vicoli palermitani (nella città settecentesca, ricca di miserie e di sfarzi, mirabilmente ritratta in un vivido contrasto di luci e di ombre), prende le mosse una tragica vicenda di amore e odio, di vendetta e di rivalsa sociale. Qui, nel cuore della Sicilia barocca, illuminate da fioche candele, hanno luogo le riunioni della misteriosa setta dei Beati Paoli: hanno sempre indosso un cappuccio, perché neanche tra loro devono riconoscersi, tanto è alto l'ideale di giustizia che li anima. Cari alle fantasticherie del popolo, questi figuri intendono imporre con ogni mezzo le loro sentenze, animate da una mistica volontà di ristabilire un ordine superiore in favore dei deboli e degli oppressi. Per la ricchezza dell'intreccio e la felice leva sulle ambizioni e le passioni dei lettori, il romanzo ebbe successo sin dalla sua prima pubblicazione, a puntate, tra il 1909 e il 1910.
Dopo le prime prove di ispirazione civile, la crisi del 1819 ("dal bello al vero") segnò una svolta nella produzione leopardiana; alla stesura delle successive canzoni si associò la composizione dei cosiddetti "piccoli idilli", le une e gli altri supportati da un pensiero sempre più lucido sul valore della scrittura letteraria e, in generale, dell'esistenza. Infine, a partire dall'aprile del 1828, Leopardi trovò un'originale misura lirica, che fu capace di rivestire di bellezza una tematica arida e desolata e che culminò negli accenti eroici e polemici del periodo napoletano. Sedimentazione attiva di questa straordinaria vicenda poetica e umana furono i "Canti", caposaldo imprescindibile della nostra tradizione letteraria e testo fondante della nuova sensibilità romantica. Essi furono pubblicati in primis nel 1831, quindi nel 1835 e, postumi, nel 1845, subendo da una redazione all'altra significative modifiche e aggiunte e definendo così il senso di un'opera aperta, di un capolavoro d'introspezione psicologica e di riflessione esistenziale.
È stato senza ombra di dubbio uno dei più grandi autori del Novecento italiano, Cesare Pavese, animatore della vita culturale del Paese non solo come narratore e poeta ma anche come traduttore e redattore della casa editrice Einaudi, capace di raccontare i tormenti e le contraddizioni tra antico e moderno del secondo dopoguerra, lo spaesamento di una generazione che aveva attraversato il fascismo, la Resistenza e la Liberazione senza venire a capo dei propri drammi intimi e sociali. Vale oggi decisamente la pena ripercorrere le tappe di uno scrittore che fu protagonista del suo tempo pur essendo naturalmente schivo e riservato, attraverso i suoi capolavori: a partire dai romanzi La spiaggia (1942), Il compagno (1947) e La casa in collina (1948) e dal trittico con il quale vinse lo Strega, La bella estate , Il diavolo sulle colline e Tra donne sole ; fino a quello che è forse il suo più amato, La luna e i falò (1949), e in cui è condensato il tema dell'impossibilità del ritorno alle radici; senza tralasciare la ripresa e rielaborazione del mito nei Dialoghi con Leucò (1947) e le due raccolte poetiche maggiori, Lavorare stanca (1936) e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (uscita postuma nel 1951), in cui è rifiutato il ricorso al metro tradizionale in favore di una confidenziale e originale commistione con il ritmo e le cadenze della prosa. Prefazione di Paolo Di Paolo.
Il libro, che propone la sceneggiatura dell'omonimo film, racconta la storia di un giovane di Cinisi, un piccolo paese nei pressi di Palermo. Si chiama Giuseppe Impastato. Forte della sua formazione comunista rompe i rapporti con un padre troppo ossequioso verso il boss locale e comincia la sua battaglia contro il silenzio e le diffuse connivenze mafiose. Dalla protesta in piazza ai giornali volanti, alle manifestazioni improvvisate, Peppino arriva infine all'uso politico di una radio libera. Fa nomi e cognomi, denuncia gli interessi che ruotano intorno all'ampliamento dell'aereoporto di Punta Raisi, mette spalle al muro il boss Tano Badalamenti. Peppino Impastato viene ucciso il 9 maggio 1978 e la notizia sepolta sotto il clamore del delitto Moro.
«La macchina puzza di fumo vecchio e cane bagnato, ogni tanto Carella pensa che quello sia l’odore della polizia». Si è messo a caccia. Da solo, senza dirlo a nessuno. Ferie arretrate, un po’ di soldi da parte, una vecchia faccenda da sistemare. Una di quelle per cui Carella - lo sbirro, il segugio che contesta gli ordini e fa sempre di testa sua - può perderci il sonno. Si è appostato con la macchina di fronte al carcere di Bollate, a osservare il suo uomo mentre esce dalla galera dopo cinque anni di reclusione. Carella chiude gli occhi, si sente calmo, freddo e calmo. «Ti prendo», si dice. «Sono la Franca, Ghezzi, si ricorda?». Il sovrintendente Ghezzi se la ricorda bene. Era l’inizio della sua carriera, sono passati trent’anni, un’indagine che l’aveva portato al suo primo arresto. Per il giovane Ghezzi quella donna era stata bellissima. Le fossette scavate nelle guance, il mistero e l’erotismo di una che faceva le marchette, simpatica e innamorata del suo uomo. Erano una bella coppia. E ora l’uomo è scomparso, e la donna è tornata, davanti casa addirittura, e vuole l’aiuto di Ghezzi. Come fa a tirarsi indietro? Persino la Rosa, la moglie, l’ha capito subito. «Tu fai il difficile, ma domani mattina sei già lì che fai domande, ti conosco».
Inverno 2012. Uno scrittore cammina tra le rovine di quella che, negli anni Trenta, è stata una delle più belle ville d'Europa, cuore di infinite serate mondane dell'aristocrazia: il Carinhall, la maestosa costruzione fatta erigere da Hermann Göring in memoria della sua prima moglie, la baronessa Carin von Fock. Hermann e Carin si erano conosciuti durante una tempestosa notte svedese del 1920. La neve che avvolgeva Stoccolma in un manto bianco impediva a Hermann di librarsi in volo. La famiglia von Fock era stata felice di offrire alloggio e ospitalità al giovane aviatore, l'erede del Barone Rosso. Uno sguardo, e tra la principessa delle nevi e l'acrobata dei cieli sbocciò l'amore. Poco importava che Carin fosse sposata, che fosse già madre. Hermann la portò via con sé, sfidando sul suo biplano la tormenta e lo scandalo. Arrivarono in Germania, Carin ottenne il divorzio e poterono sposarsi. Erano innamorati e splendidi come dèi della mitologia scandinava, il loro amore divenne "il romanzo del popolo". Fino all'incontro che avrebbe cambiato la loro vita: Hitler, al cui fianco tentare il colpo di Stato. Ma il Putsch di Monaco fallì e Hermann fu bandito dai patri confini. Cominciò così il loro esilio europeo, che li tenne lontani dalla Germania fino al 1927. Carin, già malata, si aggravò. Si spense nell'ottobre del 1931, quattro giorni prima del suo quarantunesimo compleanno. Hermann, grasso e morfinomane, l'ombra del giovane che l'aveva fatta innamorare, non era con lei...
Gli improbabili investigatori isolani immaginati da Gaetano Savatteri sempre dentro situazioni strane e incontri un po' paradossali eppure non insoliti in Sicilia, scivolano nella trama gialla quasi involontariamente, ma sempre spinti dalla curiosità di entrare nei segreti più profondi della loro terra. Al di là dell'indagine il vero scopo del raccontare è quello di disegnare una giostra di caratteri umani nella loro irripetibile originalità. E a sostegno di questo osservare, indagare e rappresentare la vita, Savatteri gioca la carta dell'ironia, campione senza pari di un sarcasmo che usa come antidoto contro i luoghi comuni sulla Sicilia e la retorica dell'isola. Saverio Lamanna, giornalista disoccupato e freddurista incallito, e Peppe Piccionello, siciliano di scoglio, quello di Màkari, infradito, mutande e maglietta con gli slogan made in Sicily. Accanto ai due, chiude un triangolo di segugi ficcanaso, Suleima, la cameriera di Marilù proveniente da Bassano del Grappa, fiamma di Saverio e ora tornata al Nord a lavorare come architetto. Investigazione dopo investigazione, Saverio Peppe e Suleima, con passo farsesco, risalgono il filo di quattro casi precedentemente usciti nelle antologie a tema e che qui, riuniti sotto la stessa copertina, si leggono quasi come un unico romanzo in cui si ride senza sosta, ci si commuove talvolta, e sempre sotto il velo comico va in scena mascherata la miseria umana.
Tornano in un unico grande volume «Emmaus», «Mr Gwyn», «Tre volte all'alba», «La Sposa giovane». Quattro romanzi da leggere uno dopo l'altro, intimamente connessi fra loro dal filo conduttore che dà il titolo alla raccolta. In una prefazione originale, scritta appositamente per questa collezione, Alessandro Baricco racconta perché le quattro opere, che costituiscono i suoi ultimi romanzi, formino in realtà un ciclo narrativo che racchiude nei corpi il proprio recondito senso. Quattro nuove copertine interne, pensate per dialogare fra loro e con la copertina del libro, impreziosiscono il volume, rendendolo un regalo ideale da fare e da farsi.
Una ricostruzione d'epoca, una galleria di personaggi scavati con la precisione fotografica del reporter. Un vivido, dolente racconto corale di un capitolo tristemente esemplare della storia del nostro Paese. Un testimone racconta e profetizza il Vajont prima della catastrofe che il 9 ottobre 1963 causò oltre duemila morti fra Longarone e dintorni. Il romanzo, "I corvi di Erto e Casso. Voci dal Vajont", vede la luce solo oggi, a quasi cinquanta anni da un disastro rimasto impresso a caratteri cubitali nella storia del Paese per cause legate all'incuria delle istituzioni, alla cattiva gestione della cosa pubblica, allo sfruttamento più inconsulto dell'ambiente e delle sue risorse. Il testimone è un giornalista, che si chiama Armando Gervasoni, è nato a Vicenza nel 1933, e fino ai primi mesi del 1963 lavora alla redazione di Belluno del Gazzettino. Un ruolo professionale che gli consente di seguire "in diretta" la costruzione della grande diga commissionata dalla società elettrica Sade, esprimendo nelle pagine di questo suo romanzo le inquietudini, le paure, i dubbi e i sospetti generati dalla costruzione di un'opera di colossali proporzioni. Armando Gervasoni, che intanto aveva iniziato a scrivere per il settimanale Panorama, nel 1968, a soli 35 anni di età trova la morte in un incidente stradale.
Una formidabile macchina da indagine: il pettegolezzo. Questa scoperta Marco Malvaldi la applica a un brodo primordiale particolarmente fertile. Un bar sulla costa tra Pisa e Livorno. Quattro anziani dalla battuta pronta, spesso indecente, e dalla morbosa curiosità che sanno tutto dei loro dintorni e delle loro tradizioni (civili, folcloriche, di cronaca). Un sagace «barrista» paziente a sufficienza per trasformare i vaneggiamenti dei vecchietti in intuizioni investigative. Una folla di tipici «attori» dalla Toscana profonda riadattati a un turismo invadente. Infine, tanti misteri criminali puramente paesani. Da questa serie di romanzi la fiction televisiva Sky I delitti del BarLume.
La carta pi√π alta
«Non è che tutti gli anni possono ammazzare qualcuno per farvi passare il tempo!». E invece quando è la stagione giusta impossibile distrarre Nonno Ampelio, il Rimediotti, il Del Tacca del Comune, Aldo il Ristoratore dalla loro mania. È un delirio senile che la morte del ricco proprietario di una tenuta, ufficialmente avvenuta per cause naturali, sia un delitto?
Il telefono senza fili
«“Ora, Ampelio, secondo lei io mi metto a parlare del caso qui, al bar, di fronte a tutto il paese?”. “Ma ci siamo solo noi quattro”. “Appunto”, confermò la commissaria». È scomparsa Vanessa Benedetti che gestisce un traballante agriturismo. E muore anche un cartomante che ne aveva preannunciato la sorte. Al BarLume i vecchietti sentenziano nonostante la canicola.
La battaglia navale
«Aldo aveva detto: “Ho trovato la lavapiatti, è una ragazza ucraina, si chiama Natasha” e tutti i vecchietti lì a immaginarsi la gemella della Stefanenko, per poi ritrovarsi davanti la versione femminile del compagno Černenko». Ai Sassi Amari, il litorale, viene trovato il cadavere di una bella ragazza, con uno strano tatuaggio. È una badante ucraina. Subito i sospetti si accentrano sul marito violento. E il caso sembra facilmente concluso, con grande delusione dei vecchietti. Per fortuna un vecchio «compagno» conosce le usanze delle ucraine.