
L'agonia del capitalismo è irreversibile. Il prezzo della sua sopravvivenza è un futuro di caos, oligarchia e nuovi conflitti. La crisi economica scoppiata nel 2008 si è trasformata in una crisi sociale e infine in un autentico sconvolgimento dell'ordine mondiale: oggi, questo capitalismo malato e segnato dal predominio della finanza scarica i costi della recessione sui più deboli; si dimostra incapace di far fronte alle minacce del riscaldamento globale, dell'invecchiamento della popolazione e dell'incontrollato boom demografico nel Sud del mondo; e mette a rischio la democrazia e la pace. Ma superare il capitalismo è possibile. E mentre fra la popolazione serpeggia un senso di paura e rassegnazione, dalle tecnologie informatiche emerge la possibilità di una svolta radicale. La nuova economia di rete, fondata sulla conoscenza, mina infatti i presupposti stessi del capitalismo - riducendo la necessità del lavoro e abbassando sempre più i costi di produzione -, e i beni d'informazione erodono la capacità del mercato di formare correttamente i prezzi, perché se il mercato si basa sulla scarsità, l'informazione è invece abbondante. Nel frattempo, si sta affermando un nuovo modo di produzione collaborativo, che non risponde ai dettami del profitto e della gerarchia manageriale, ma ai principi della condivisione, della responsabilità reciproca e della gratuità.
Quali sono le grandi dinamiche che guidano l'accumulo e la distribuzione del capitale? Domande sull'evoluzione a lungo termine dell'ineguaglianza, sulla concentrazione della ricchezza e sulle prospettive della crescita economica sono al cuore dell'economia politica. Ma è difficile trovare risposte soddisfacenti, per mancanza di dati adeguati e di chiare teorie guida. In "Il capitale nel XXI secolo", Thomas Piketty analizza una raccolta unica di dati da venti paesi, risalendo fino al XVIII secolo, per scoprire i percorsi che hanno condotto alla realtà socioeconomica di oggi. I suoi risultati trasformeranno il dibattito e detteranno l'agenda per le prossime generazioni sul tema della ricchezza e dell'ineguaglianza. Piketty mostra come la moderna crescita economica e la diffusione del sapere ci abbiano permesso di evitare le disuguaglianze su scala apocalittica secondo le profezie di Karl Marx. Ma non abbiamo modificato le strutture profonde del capitale e dell'ineguaglianza così come si poteva pensare negli ottimisti decenni seguiti alla seconda guerra mondiale. Il motore principale dell'ineguaglianza, la tendenza a tornare sul capitale per gonfiare l'indice di crescita economica, minaccia oggi di generare disuguaglianze tali da esasperare il malcontento e minare i valori democratici. Ma le linee di condotta economica non sono atti divini. In passato, azioni politiche hanno arginato pericolose disuguaglianze, afferma Piketty, e lo possono fare ancora.
"Anche in queste ultime, angosciose settimane ho continuato a sperare che trovaste un modo qualunque per fare del trattato un documento giusto e realistico. Ma ora è troppo tardi, evidentemente. La battaglia è perduta". Il 7 giugno del 1919, con queste parole, John Maynard Keynes comunica a Lloyd George le proprie dimissioni dall'incarico di rappresentante del Tesoro alla Conferenza di Versailles. Poco dopo parte alla volta di Charleston, nel Sussex, apparentemente per un periodo di vacanza, in realtà per scrivere, in due mesi scarsi, un libro destinato ad avere vaste conseguenze: questo. Keynes non aveva mai sottoscritto la convinzione dei vincitori di avere combattuto, secondo la celebre formula di Wilson, la "guerra che avrebbe posto fine a ogni guerra"; e si era opposto invano alla miopia di Clemenceau, Lloyd George e dello stesso Wilson, distanti in tutto, ma concordi nel ridurre i problemi del dopoguerra a un mero fatto di "frontiere e sovranità". Prima ancora, era certo che le durissime riparazioni imposte alla Germania avrebbero portato il continente, nel giro di due o tre decenni, a un secondo conflitto e, come scriveva alla madre già in una lettera del 1917, alla "scomparsa dell'ordine sociale come lo abbiamo fin qui conosciuto". Se a distanza di nove decenni gran parte di tali questioni sono ancora all'ordine del giorno, si capirà immediatamente l'immensa fortuna del libro, e anche l'immenso scandalo che ha suscitato.
La forma del pamphlet si addiceva a John Maynard Keynes, autore per lo più di interventi brevi e spesso polemici, nei quali combatteva le opinioni prevalenti ed esplorava nuovi punti di vista. Era sostanzialmente un lungo pamphlet "Le conseguenze economiche della pace", il libro con cui nel 1919 aveva preso le distanze dalla "follia" del Trattato di Versailles, sostenendo profeticamente che avrebbe provocato una nuova guerra "a confronto della quale sarebbero apparsi trascurabili gli orrori di quella appena finita". E sarebbe stato un lungo pamphlet la stessa "Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta", con cui nel 1936 avrebbe rovesciato le dottrine invalse e trasformato per sempre la teoria economica. Per questo i saggi qui radunati propongono Keynes nella sua forma migliore e più stimolante. Scritti fra il 1923 e il 1942, nascono dall'insofferenza di un uomo di genio per le idee correnti, dalla sua ricerca di vie non ancora battute, e costituiscono insieme lo sfondo culturale e la premessa della rivoluzione che si attuerà con la "Teoria generale". Keynes vi affronta le contraddizioni di fondo del capitalismo, che per 'funzionare' deve magnificare uno dei grandi vizi dell'uomo, l''auri sacra fames', l'avidità di denaro' riferisce ciò che ha visto nella Russia comunista, di cui analizza con precisione la forza e le debolezze; coglie il tramonto del laissez-faire.
La profezia si è compiuta. Si apre un nuovo periodo per il management della comunicazione interna in cui il desiderio di eticità, il bisogno di affettività (individuale e collettiva), la voglia di riconoscimento autobiografico, il policentrismo esistenziale, richiedono nuovi approcci di governance e nuovi stili di gestione. Queste dimensioni connotano l'inequivocabile condizione professionale e persino civile del fare comunicazione dentro e anche fuori le organizzazioni. Una condizione "a quattro dimensioni", ora latenti, ora manifeste, intorno alle quali ruota l'auspicio costante di una nuova identità di impresa e di una comunicazione dalla voce umana, narrativa, esperienziale, comunitaria.
"il denaro deve servire, non governare". Con una delle sue sintesi omiletiche che ormai abbiamo ben imparato a conoscere e ad apprezzare, Papa Francesco non ha fatto che ribadire, in fondo, il primato dell'umana creatura su tutto quanto è stato creato per essere posto a suo servizio. In che direzione dobbiamo cercare, allora, la forma buona dell'uso del denaro? O, detto altrimenti, che relazione debbono avere l'economia e i sistemi economici in rapporto agli altri poteri e alle altre forze che determinano i sistemi sociali e la vita dei popoli? Quale dovrà essere il contributo specifico dei cristiani nella governance dei processi economici? Che ruolo, in particolare, deve occupare la politica, che così spesso ci appare succube e ancillare rispetto alle leggi del mercato e alle decisioni che esse le impongono? Sono queste alcune delle domande e delle tematiche oggetto dei lavori del Colloquio e alle quali ci si è accostati con un approccio interdisciplinare.
La lettura e l'analisi delle nuove superpotenze asiatiche, le interpretazioni economiche e politiche del presente e del futuro di Cina e India, sono state negli ultimi anni numerose ma tutte provenienti da un punto di vista occidentale. Formule come «Cindia» o «la speranza indiana» hanno introdotto un dibattito di grande importanza e popolarità, ma allo stesso tempo hanno evidenziato il limite di una comprensione incapace di colmare la distanza culturale e conoscitiva da una realtà radicalmente nuova e diversa.
Prem Shankar Jha esamina dall'interno i rapporti tra lo sviluppo economico e le trasformazioni politiche e sociali in Cina e India, i conflitti scatenati dal mercato, le prospettive di successo o di fallimento dei rispettivi paesi nel progettare la propria strada verso il futuro. Lo studioso indiano discute e smentisce una serie di luoghi comuni, prima fra tutti l'idea che India e Cina siano in competizione fra loro per dominare il resto del XXI secolo, o per dettare l'agenda dello sviluppo globale. Un'idea alimentata e sostenuta dai media internazionali che amano raccontare l'arrogante e determinata consapevolezza dei nuovi imprenditori di Delhi e Mumbai e la crescente irritazione da parte della leadership cinese verso i successi indiani.
Nel cuore polemico del libro è soprattutto la profezia, diventata moneta comune tra gli economisti e i politologi occidentali, che vuole i due paesi destinati a dominare l'economia globale da qui a cinquant'anni, in base alla loro attuale traiettoria di sviluppo. Prem Shankar Jha mostra come questa eventuale supremazia non si possa dare affatto per scontata, perché entrambe le nazioni sono ancora nelle fasi iniziali della trasformazione da società pre-capitalistiche a società capitalisticamente mature. Una transizione che non prevede dei cambiamenti solo nelle configurazioni economiche ma una profonda ristrutturazione delle relazioni politiche e sociali. Una mutazione che si può a ragione definire epocale, poiché ha bisogno della distruzione del vecchio mondo, della rottura di antichi legami e della stesura di regole innovative, in un processo che genera nuovi vincitori e centinaia di migliaia di nuovi sconfitti, senza dare alle istituzioni sociali il tempo di adattarsi. Con il rischio di una metamorfosi violenta, come in modo analogo ci ha già dimostrato l'evoluzione capitalistica del XX secolo in Europa, una delle epoche piú cruente e disumane della storia dell'umanità.
Prem Shankar Jha ha studiato filosofia, politica ed economia a Oxford, ha lavorato dal 1961 al 1966 per le Nazioni Unite a New York ed è poi tornato in India, dove ha collaborato come editor e giornalista alle pagine del Hindustan Times, del Times of India, dell' Economic Times e del Financial...
Gli interventi tenuti da Carlo Azeglio Ciampi nell'arco di quasi due decenni (dal 1981 al 1992 e dal 1996 al 1998) all'Assemblea annuale dell'Associazione Bancaria Italiana in qualità di Governatore della Banca d'Italia e, successivamente, di Ministro del Tesoro raccontano l'evoluzione economica e sociale del nostro paese. I quindici contributi riuniti in questo volume approfondiscono i temi di specifico rilievo per le banche e fanno il punto sul cammino di un'Italia impegnata ad evolvere verso una nuova dimensione europea, all'interno di un quadro civile e politico caratterizzato da eventi drammatici (le strategie stragiste, anche di stampo mafioso) ed epocali (la caduta del muro di Berlino e la costruzione dell'Europa unita). Ciampi scandisce in modo chiaro, rigoroso e documentato, i tempi del definitivo riconoscimento della natura imprenditoriale dell'attività svolta dalle banche e della necessità che essa si svolga in un regime di concorrenza; più in generale, sancisce la necessità che Governo e Parti sociali convergano nell'attivazione di un circuito virtuoso volto alla sconfitta del fenomeno inflattivo e al contenimento del debito pubblico. In tale contesto Ciampi, nella sua veste di Ministro del Tesoro, afferma l'impegno a costruire un quadro economico compatibile con l'ingresso a pieno titolo fin dal primo momento dell'Italia nel gruppo costitutivo dei paesi europei che avrebbero avuto moneta unica. Postfazione di Pier Carlo Padoan.
L'Italia è il paese del debito pubblico: da sempre alto e difficile da gestire, ha costantemente condizionato la nostra storia. Ma come abbiamo potuto crescere nonostante questo peso? Quali sono le conseguenze che ha prodotto sulla politica e sulla società? Fin dalla sua origine, il forte debito pubblico è stato uno dei grandi problemi dell'Italia unita. Un problema che ha accompagnato tutta la nostra storia, tanto da essere l'unico paese al mondo ad aver avuto un debito superiore al 60% del Pil per più di 110 anni. Dal 1992 è divenuto l'asse centrale di tutta la vita politica nazionale: prima con le ingenti misure e i 'tagli' per entrare nell'euro, poi con i limiti imposti dal rispetto dei parametri di Maastricht. Questo libro, oltre a ricostruire l'andamento storico delle politiche del debito e ad analizzare le responsabilità della classe politica e della società italiana che spesso del debito si sono alimentate, mostra altresì un'inaspettata dinamicità dello Stato, dello Stato 'debitore' italiano, di fronte alle sue crisi, a quelle dei decisori politici, al susseguirsi di squilibri e riequilibri dei conti. Tale dinamicità, tuttavia, dopo l'esplosione della pandemia pare non bastare più e ha bisogno di essere sostituita da una più organica visione che si misuri con la natura 'fisiologica' del debito stesso.
C'è stato un tempo, non così lontano, meno di cento anni fa, in cui l'idea di lavorare 'solo' cinque giorni alla settimana invece di sei sembrava una provocazione irrealizzabile, tanto da essere fortemente osteggiata. Abbiamo invece scoperto che due giorni liberi per tutti non hanno fatto precipitare la produttività né interrotto il progresso o messo in crisi il capitalismo. Oggi ci troviamo di fronte a una nuova sfida che potrebbe essere una risposta efficace rispetto agli enormi cambiamenti avvenuti nell'organizzazione del lavoro e che potrebbe consentire anche un miglior equilibrio tra tempi dedicati alla propria professione e tempi dedicati al privato, con benefici anche dal punto di vista dell'equilibrio di genere e della crescita armonica dell'intera società. Una settimana lavorativa di quattro giorni stimolerebbe la domanda, farebbe crescere l'innovazione e la produttività, ridurrebbe la disoccupazione, ridurrebbe le disuguaglianze, ci renderebbe più felici. Se vi piacerebbe poter dire: «Finalmente è giovedì!», questo libro è per voi.
In questo libro, l'integrazione europea viene studiata sulla base di un approccio interdisciplinare: economico e politico. L'ipotesi adottata è che l'integrazione europea è progredita a partire da un nucleo "sovranazionale" iniziale sino all'attuale Unione, che il Parlamento europeo definisce una "democrazia sovranazionale". Il carattere sovranazionale delle istituzioni europee ha consentito la creazione di importanti beni pubblici europei, come il mercato interno, l'euro e numerose politiche. Ogni capitolo discute di alcuni cruciali beni pubblici mostrando l'evoluzione delle istituzioni europee in relazione alla complessa realtà storica che le ha condizionate. Un approccio narrativo è indispensabile, perché le istituzioni europee sono in continua evoluzione. Tuttavia, nelle Appendici a ogni capitolo si approfondiscono i problemi teorici, mostrando come l'integrazione europea costringa a riformulare alcuni concetti fondamentali dell'economia e della scienza politica. Infine, si affronta la questione del ruolo dell'Unione europea nel mondo, caratterizzato dal processo di globalizzazione e dalla formazione di un nuovo multipolarismo. A questo proposito, si estende il metodo sovranazionale, già sperimentato in Europa, anche su scala mondiale. La creazione di alcuni beni pubblici mondiali (global public goods) - come ha fatto l'Unione europea con il Protocollo di Kyoto - favorirebbe la transizione verso un ordine multipolare cooperativo

