
Prima gli «illuminati», poi le élite sconfitte dalla storia, infine i «cuochi che prendono il controllo della nave». Per capire il grande disordine che oggi investe le nostre vite, Giulio Tremonti prende spunto da tre profezie che emergono dal profondo della storia.
Quella di Marx sulla deriva del capitalismo globale, la previsione del Faust di Goethe sul potere mefistofelico del denaro e del mondo digitale (dove al posto del vecchio cogito vale un categorico digito ergo sum!), infine l’intuizione di Leopardi sulla crisi di una civiltà che diviene cosmopolita. Tre chiavi di lettura che l’autore, testimone diretto di tanti «misteri» della storia recente, intreccia con la personale esperienza di studioso e di protagonista della politica.
La storia, che doveva essere finita, sta tornando con il carico degli interessi arretrati e la giovane «talpa» del populismo sta scavando il terreno su cui, appena caduto il muro di Berlino, è stata costruita l’utopia della globalizzazione. Oggi sembra di essere tornati agli anni ’20 di Weimar, in una società stravolta e incubatrice di virus politici estremi. Ma non tutto è perduto, per l’Italia e per l’Europa.
Le piaghe che si sono abbattute sull'Egitto, secondo la Bibbia, erano dieci. Le piaghe che si stanno abbattendo sul mondo in cui viviamo sono almeno sette: il disastro ambientale, lo svuotamento della democrazia sversata nella repubblica internazionale del denaro, la società in decomposizione, la spinta verso il transumano, l'apparizione dei giganti della rete, la pandemia, la guerra alle porte d'Europa e la crisi nell'approvvigionamento di risorse, dal gas al grano. Ma è un numero destinato a salire: inflazione e recessione, crisi finanziarie, carestie, migrazioni, altre guerre. Tutti anelli sconnessi di una stessa catena, perché non siamo alla «fine della storia» ma alla fine della globalizzazione. Un esito che evidenzia la crisi di trent'anni del modello globalista cui l'Occidente ha aderito acriticamente. Il nuovo libro di Giulio Tremonti è una riflessione sulla deriva delle società occidentali ma anche un appello per evitare il disastro finale attingendo al vecchio «arsenale della democrazia»: «Oggi il rischio è che la divisione prevalga sull'unione, come replica della dividente maledizione dei guelfi contro i ghibellini, che lo smarrimento e la paura prevalgano sulla speranza, che la rassegnazione prevalga sull'orgoglio. E l'urlo sulla voce. Ci sono dei modi per evitarlo: uno è mettere a punto una cura che freni il dominio assoluto del mercato, l'altro è recuperare le risorse e i valori di fondo della nostra comunità».
In un'Italia segnata da un cambiamento politico a volte vorticoso, qualcosa rimane uguale: ci rimettono sempre gli stessi. Sono le donne e gli uomini che lavorano e fanno impresa, che pagano le tasse (e poi non ricevono i servizi), pagano le multe (e poi vedono arrivare i condoni), pagano le bollette (ogni mese più salate) e alla fine del mese vedono rosso: nel conto in banca e per la rabbia. Intanto, si diffonde un clima di paura e di incertezza che non solo non può favorire lo sviluppo di nuove iniziative e nuove aziende, ma mina la democrazia. Se infatti le persone non sono economicamente indipendenti, se sono costrette a dipendere dallo Stato, dalle sue provvidenze, dalle sue decisioni anche quando arbitrarie, l'ordine liberale non esiste più. Così si fondono in un unico magma soffocante crisi politica e crisi economica e dal Covid alla guerra, dai costi energetici all'aumento dei tassi, ondata dopo ondata, nella totale incapacità d'azione dei governi tanto di destra quanto di sinistra, le imprese falliscono, le aziende chiudono e la classe media rischia di diventare il nuovo proletariato. Con ricchezza di analisi e forza argomentativa, Giuliano Guida Bardi firma un vero e proprio reportage dal fronte della guerra alla borghesia, invocando un cambiamento non più rinviabile. Non sono, però, solo tinte fosche: brillano infatti in questo accurato quadro di storia e cronaca la resilienza, la creatività, la generosità con cui una spina dorsale di professionisti e imprenditori, con poche certezze e ancor meno tutele, continua a tenere in piedi il corpo del Paese. Nonostante tutto.
Questo libro si propone un compito tanto necessario quanto controcorrente: smontare il mito della decrescita come visione alternativa della società rivelandone di volta in volta i numerosi luoghi comuni, le ingenuità o addirittura la malafede. Ha davvero senso il nuovo mito del ritorno alla terra e l'elogio dei contadini del passato? È giusto considerare l'austerità un valore contrapponendola al "demoniaco" consumismo? Siamo proprio sicuri che lo slow food sia più etico e altruistico del tanto stigmatizzato fast food? E uno Stato in cui qualcuno decidesse cosa è necessario consumare per vivere, e cosa non lo è, non diventerebbe uno Stato totalitario? Non c'è il rischio che si tratti dell'ennesima, prepotente riemersione di un'ideologia antica che ha già avuto in passato esiti politicamente nefasti? Da Carlo Petrini a Serge Latouche, da Simone Perotti a Vandana Shiva, Simonetti passa in rassegna idee e proclami di tutti quei teorici della "decrescita felice" che in nome di una visione del passato nostalgica e sentimentale, e animati da diffidenza e ostilità nei confronti della scienza, della tecnica e del progresso, finiscono col "vedere l'apocalisse con ghiotta impazienza". Con ironia e passione, e uno stile limpido e acuminato, l'autore di questo libro ci dimostra che nessuna decrescita potrà mai essere felice, ma solo estremamente pericolosa.
Questo libro è un saggio di economia, ma si legge come un thriller. Come in un giallo l'autore indaga partendo dagli indizi (subprime, cartolarizzazioni, Collateralized Debt Obligations, identifica le prove (le scommesse fraudolente delle banche sulla pelle dei correntisti), cerca il colpevole (la crisi è morale), rintraccia il movente ("la legge del più forte"). Ma Gaël Giraud, che prima di esser gesuita è stato banchiere e conosce di persona il mondo degli hedge fund e delle Banche centrali, si spinge oltre. E traccia la strada per cercare un futuro di vita alla nostra società, rattrappita dentro lo schema del "paradigma tecnocratico" (papa Francesco) che mira a ottenere di più (risorse, prodotti, benessere) con meno (sforzi, investimenti, partecipazione).Transizione ecologica significa una società di beni comuni in cui il credito sia considerato mezzo e non fine per realizzare riforme a vantaggio di tutti e benefiche per l'ambiente: rinnovamento termico degli edifici, cambi di prassi nella mobilità, tasse più alte per chi inquina, in pratica "un'economia sempre meno energivora e inquinante". "La transizione ecologica sta ai prossimi decenni come l'invenzione della stampa sta al XV secolo o la rivoluzione industriale al secolo XIX - spiega Giraud -. O si riesce a innescare questa transizione e se ne parlerà nei libri di storia; o non si riesce, e forse se ne parlerà fra due generazioni, ma in termini ben diversi!".
La crisi è sotto gli occhi di tutti: è sociale ed ecologica, si esplica nelle disuguaglianze planetarie e nell'insostenibilità di un modello economico predatorio dell'ambiente. Che cosa ha causato questo? Nel serrato dialogo fra Gaël Giraud e Felwine Sarr, due intellettuali capaci di spaziare con sagacia dall'attualità alla filosofia, dalla teologia all'economia, la risposta emerge limpidamente: tutto deriva da «quell'utopia mortifera di privatizzazione integrale del mondo e di riduzione di ogni risorsa a un capitale», ovvero l'ideologia postliberale che ha conquistato la nostra immaginazione e colonizzato la prassi politica. La ragione strumentale, denunciano i due autori, ha occupato completamente la scienza economica, riducendola ad un'asfittica pratica contabile di stampo razionalistico, che non tiene in conto altre variabili: culture, popoli, pensieri, desideri... Appoggiandosi a pensatori come Jacques Derrida, Paul Ricoeur e Christoph Theobald, attingendo alla saggezza delle grandi spiritualità religiose, in queste pagine colte e appassionanti Giraud e Sarr disegnano un'altra mappa dell'economia. Una mappa più disordinata di quella che si studia nelle facoltà universitarie, spesso schiava di un sapere di tipo strumentale típico dell'homo homini lupus, ma molto più necessaria per la realtà in cui viviamo. Segnata da una pandemia da cui possiamo ripartire solo con un nuovo immaginario.
È possibile umanizzare l'economia? È possibile coniugare mercato e bene comune? E se sì, quale via percorrere? Tale domanda, oggi ricorrente in economia, guida la ricerca dell'Autore. Ciò che caratterizza il bene comune è il fatto che in esso l'interesse di ogni individuo si realizza assieme a quello degli altri, non già contro (come accade nel bene privato) né a prescindere dall'interesse degli altri (come nel bene pubblico). Partendo da questa analisi Zamagni individua nel principio di reciprocità - per cui "io ti do liberamente qualcosa affinché tu possa a tua volta dare, secondo le tue capacità, ad altri o eventualmente a me "- la chiave di volta di un nuovo sistema economico, basato sulla cultura della fraternità, capace di porre al centro e come fine dell'attività produttiva l'uomo, ed essere garanzia di una convivenza armoniosa e capace di futuro.
Il denaro non fa la felicità: questa massima della cultura popolare è oggi confermata dalle indagini sulla felicità che sottolineano il ruolo determinante dei beni relazionali. Eppure le scienze sociali continuano a proporre modelli riduzionistici della persona (dall'homo oeconomicus a quello sociologicus ecc.). È necessaria pertanto una rifondazione della persona che tenga conto di tutte le sue dimensioni. La prima parte del volume prende in esame gli studi sulla felicità per individuare gli elementi essenziali che fondano la felicità umana; nella seconda parte sono evidenziati i paradossi di una visione parziale dell'uomo che non integra tutti gli elementi costitutivi; infine si considerano alcune esperienze dell'economia sociale responsabile che, cercando di riportare la dimensione del "dono reciprocante" rappresentano esperimenti e tentativi di integrare il piano dell'essere e del fare, collegando operosità sociale e realizzazione della persona.
L'economia di comunione, progetto nato in Brasile nel 1991 su iniziativa di Chiara Lubich, fondatrice del movimento dei focolari, è espressione di un agire economico che coniuga le regole e i valori dell'impresa con i valori della comunione. Attualmente coinvolge più di 700 imprese in tutto il mondo ed è oggetto di interesse e studio da parte di insigni economisti, sociologi, filosofi. Il presente studio ne ripercorre l'origine e gli sviluppi; gli obiettivi delle aziende che aderiscono al progetto, quali le problematiche di governance delle stesse e quali direttrici si possono individuare per misurare, rendicontare e comunicare all'esterno e all'interno le loro risultanze aziendali. Nella parte finale si analizza la problematica delle aggregazioni aziendali, definite poli che stanno contribuendo allo sviluppo dei luoghi in cui hanno sede, diventando veri propulsori di crescita, economica, umana e culturale.
L'Altra metà dell'economia. L'economia invisibile agli occhi dell'economia, che ha per protagonista la gratuità. La gratuità intesa come Charis, come dono è una dimensione costitutiva della vita e dell'essere umano, anche dell'homo oeconomicus. Quando l'economia nasce nel 700/800, le virtù della gratuità, della libertà e del rispetto della persona erano una dimensione che faceva parte della cultura del tempo, presente e abbondante. Oggi riportare la gratuità dentro l'economia significa ribaltare le logiche del profitto e della finanza per rimettere al centro dell'economia la persona e le sue motivazioni, la sua dignità, gli ideali, i sentimenti, i poveri. Il libro sottolinea il contributo fondamentale e insostituibile svolto dalle comunità carismatiche religiose e dal genio femminile nello sviluppo economico, sociale, culturale della nostra civiltà. Ed evidenzia il fondamentale apporto offerto da imprenditori, politici, giornalisti, oggi capaci di quella Charis che dà loro la capacità di uno sguardo diverso sul mondo e nella società contemporanea.
La Chiesa e le sue finanze: questo binomio, di per sé contraddittorio, fonte di frequenti scandali e causa di lotte di potere, è stato al centro dell'attività riformatrice di papa Francesco nei primi due anni di pontificato. Del resto, in un arco relativamente limitato di tempo - dal 2009 al 2015 - si sono susseguiti molti degli eventi chiave che hanno portato a cambiamenti senza precedenti: la Santa Sede prima ha attraversato momenti di conflittualità e di crisi drammatici, poi si è incamminata su una strada di riforme non ancora conclusa e che sta adesso entrando nel vivo. Fra cronaca, retroscena, analisi e riflessioni, il libro racconta la svolta nella gestione e nell'organizzazione delle finanze vaticane, già cominciata con il pontificato precedente e proseguita dopo l'elezione di papa Francesco. Molti gli interrogativi e i nodi da sciogliere: in che misura la riforma finanziaria del Vaticano è stata imposta dall'esterno alla Santa Sede? Quali i "poteri forti" coinvolti in questo processo? Che ruolo hanno avuto le multinazionali esperte in antiriciclaggio e gestione finanziaria? Quanto ha pesato quest'insieme di fattori nel determinare le dimissioni di Benedetto XVI? Ancora, perché sta finendo il potere italiano nella Curia e nel papato? Infine, riuscirà Bergoglio a coniugare la sua idea di una Chiesa "povera per i poveri" con la trasparenza?
È diffusa la convinzione che all'origine dei problemi economici di questi anni ci sia una generale mancanza di principi etici, che dovrebbero invece orientare le dinamiche e gli scopi del mercato. Per porre fine al disordine sarebbe quindi sufficiente ripristinare la funzione originaria che, secondo tale visione, esso dovrebbe svolgere: il perseguimento del bene comune. Così esposto, il ragionamento sembra fondato e persino scontato. La realtà è ben diversa. Come dimostra Paolo Del Debbio in questo libro, basta porsi alcune semplici domande per far emergere le molte contraddizioni che si nascondono dietro un'apparente e seducente ovvietà. I disastri finanziari, l'assenza di un accordo sulla gestione dell'emergenza ambientale e di interventi efficaci nella lotta alla povertà sono frutto dei meccanismi perversi del mercato o forse dell'inadeguatezza dei pubblici poteri? A un'attenta osservazione il richiamo all'etica si rivela infatti un alibi per coprire le responsabilità di chi non compie il proprio dovere. Docente di Etica ed economia all'Università Iulm di Milano, Del Debbio costruisce un percorso che, partendo dalle origini della questione etica in economia, conduce all'analisi di alcuni tra i più recenti modelli e argomenti proposti per affrontarla (Stiglitz, Bergoglio, Latouche, Piketty, Deaton). In particolare, l'autore si interroga sulla possibilità di stabilire un'etica dei diritti.

