
Paese del neorealismo con i suoi attori «presi dalla strada» è anche un set favolistico per le produzioni hollywoodiane, da Guerra e Pace girato in Piemonte alla Passione di Cristo in Basilicata, all'Inferno nella Firenze dei nostri giorni. Trame, luoghi, volti e avventure produttive con cui il nostro cinema ha continuato a ispirare generazioni di cineasti. L'Italia oggi ha ripreso a vincere premi e a far parlare nel mondo della sua Grande Bellezza. Una bellezza sfaccettata e contraddittoria, mai convenzionale, che vibra nel racconto di dieci «città del cinema»: Torino col suo Museo, Milano borghesissima e proletaria sullo schermo, Venezia decadente e festivaliera, Bologna e la sua Cineteca, Firenze con vista sulla storia, Roma eterno caos calmo, Napoli da Totò a Gomorra, Palermo gattopardesca e «paradisiaca», Bari capitale di Lamerica e Matera della cultura europea nel 2019.
Solo un groviglio di casualità a anche una direzione, un progetto? È la domanda che ci poniamo tutti guardando agli eventi della nostra vira. Il senso della eterna dialettica fra ordine e caso lo mette bene in scena Jackson Pollock. Quegli spruzzi di colore sono caduti casualmente a sono intenzionali e vogliono esprimere qualcosa? Azzardiamo una risposta: come nel quadro Number 1A, la vita si gioca su un terreno di mezzo, nel quale alle nostre intenzioni razionali si sovrappone continuamente il caos delle innumerevoli possibilità. Ma alla fine il puzzle si compone e ciò che è accaduto si rivela sempre anche destino.
Impalpabili, evanescenti, i sogni sono creature fragili, che svaniscono nella memoria pochi momenti dopo la loro apparizione. Sono nostri, li facciamo noi («stanotte ho fatto un sogno...»), e però questi grandi suscitatori di immagini, sensazioni, emozioni, visioni sfuggono completamente al nostro dominio. Il libro accompagna il lettore in un viaggio nella terra dei sogni, là dove abitano quelli degli antichi, quelli dei moderni, e quelli che da tempo immemorabile visitano le notti dell'umanità, perché comuni a tutte le epoche. Nitidi o vaghi, enigmatici, spaventosi quando assumono i contorni dell'incubo, confusi o assurdi, spesso sono più emozionanti di un film, più commoventi di una poesia, più comici di qualsiasi gag che la mente (conscia) possa escogitare, donano momenti di perfetta felicità oppure di scorato smarrimento. A differenza di noi, che i sogni li «facciamo», i Greci e i Romani li «vedevano»; per loro i sogni cadevano prima di tutto sotto l'organo della vista. Anche per questo il nostro viaggio è accompagnato da un ricco corredo di immagini che dispiegano il modo in cui i sogni sono stati «visti» da una miriade di artisti, dall'Antichità al Medioevo e al Rinascimento, dall'Ottocento fin dentro l'epoca contemporanea, a testimonianza dello straordinario potere germinativo della materia onirica, serbatoio simbolico inesauribile.
Dal modello classico all'estetica dell'assenza di regole: la storia dell'idea di bellezza è segnata dal progressivo disgregarsi del paradigma armonico di un perfetto ordine cosmico in cui il bello si collega al vero e al bene. Se in età moderna si fa esperienza del molteplice e dell'individuale, a fine Settecento si approda a una netta rivincita del sublime e del brutto. Ma è soprattutto il Novecento che rivendica il valore estetico della deformità e delle dissonanze come generatori di ordini sconosciuti. Malgrado il discredito che in alcune teorie colpisce oggi il concetto di bello, sorprendentemente esso continua a rinnovarsi, sottraendosi a qualunque definizione univoca e conclusiva.
Questo sintetico profilo definisce dapprima ambiti e oggetti di indagine dell'estetica musicale; poi presenta una breve storia del pensiero musicale dall'antichità ai giorni nostri. Questa edizione aggiornata offre preziosi spunti per ulteriori approfondimenti, in particolare sui rapporti tra natura e cultura nella musica e sulla fruizione dei nuovi linguaggi del nostro tempo.
Potrà mai risorgere quel piccolo Cristo smarrito, che Bruegel nasconde tra la folla, ignorato e affondato nell’indifferenza degli uomini? Qui la croce non sembra aprire il movimento della storia, ma piuttosto precipitare nella lunga notte del mondo. Con Rembrandt, nell’atmosfera sfibrata della «Cena in Emmaus», anche l’evento della resurrezione si stempera: il risorto, seduto al tavolo dei viandanti, viene risucchiato indietro dalle tenebre verso un’esile luce. La sparizione del Cristo, l’assenza di ogni Dio su questa terra sono forse segni con cui oggi dobbiamo confrontarci.
Gabriella Caramore è autrice della trasmissione di cultura religiosa di Rai Radio 3 «Uomini e Profeti». Per il Mulino ha pubblicato «Pazienza» (2014).
Maurizio Ciampa, saggista, ha pubblicato tra l’altro «L’epoca tremenda. Voci dal Gulag delle Solovki» (Morcelliana, 2010). Sono autori di «La vita non è il male» (Salani, 2016).
Di che cosa ci parlano i Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer? Che cosa additano, se non il fallimento di una modernità che ha ormai perduto la sua energia di Età nuova per eccellenza? Edifici solidi e pericolanti ad un tempo, quelle torri sembrano riflettere un'ansia arcaica nel rimandarci l'immagine della nostra epoca, alle prese con la sua forza distruttiva, con il terrore che la dilania e la frustra. La molteplicità di immagini senza misura che oggi popola il mondo produce sconcerto e disorientamento, ma proprio in un tale semi-barbaro proliferare di immagini - sembra dirci Kiefer - possiamo scoprire la traccia di nuove risorse simboliche, o forse addirittura una chance di salvezza.
Quel pensiero non sarebbe venuto alla sua luce, o alla sua ombra, senza essere provocato da quella immagine, che diviene essa stessa sintesi sensibile di una dimensione dell'umano. Da Mantegna a Kiefer, una sequenza di incontri ravvicinati e rischiosi con icone irrinunciabili della nostra civiltà.
«Siamo tutti imbarcati», dirà Pascal. Dove? Sulla Nave dei folli, risponde Hieronymus Bosch. A inseguire vanità delle vanità, dominati dalla «maledetta lupa» dell’invidia e dell’avarizia. Ci salveremo dalla perdizione e dal naufragio? Sarà la misura dell’ironia e la ragionevole fede dell’umanista Erasmo a offrirci una speranza? O soltanto la follia della fede nel Cristo deriso e crocefisso potrà riscattarci? Ma negli inverni e nei sinistri carnevali di Bruegel il Vecchio regnano unicamente la violenza e la lotta per sopravvivere, in un gioco tremendo e crudele che nessuno ormai ha la forza di trascendere.
Luogo di ricreazione e di svago, di ozio, di gioco, di piacere estetico, e inoltre: regno degli dèi, tempio a cielo aperto, angolo di paradiso, microcosmo simbolico, scuola di filosofi, scenografia del potere, teatro di rappresentazioni drammatiche e di concerti, attrazione turistica, sede d'istallazioni idrauliche, di sperimentazioni botaniche, di piante esotiche, di perfezionamento colturale, d'attività didattiche e sportive. Il giardino è tutto questo, e molte altre cose ancora. Il volume ne ripercorre la storia dalle origini fino al Quattrocento, esaminando i momenti cruciali di formazione e di sviluppo degli spazi verdi, e illustrandone gli aspetti sociali, religiosi, politici, architettonici, artistici e letterari.
ALESSANDRO CARRERA
Il colore del buio
Una cripta ultraterrena dalla quale si esce più vivificati che mai, una camera oscura dove la luce si fa oscurità e l’oscurità si fa luce: la Rothko Chapel è dedicata a nessuna religione, a tutte le religioni, ma soprattutto celebra il credo dell’artista che l’ha concepita, la religione della luce in ogni suo apparire, inclusa la sua assenza, incluso il nero. Nel percorso interiore tracciato dalla geometria ottagonale del luogo essa insegna a riconoscere il colore del buio, cogliendo quella che è l’altra faccia dell’ossessione occidentale per lo splendore del sole: il mistero potente dell’ombra.
Alessandro Carrera è professore di Italian Studies e di World Cultures and Literatures alla University of Houston, in Texas. Tra i suoi libri ricordiamo «La consistenza della luce» (Feltrinelli, 2010) e «Fellini’s Eternal Rome: Paganism and Christianity in Federico Fellini’s Films» (Bloomsbury, 2019). Ha tradotto le canzoni e le prose di Bob Dylan (Feltrinelli, 2016-17).
La Marilyn Orange di Andy Warhol è un quadro semplice: un viso apparentemente statico e popolare diventa mobile, pulsante e raffinato, pienamente inserito nella storia della pittura e teso a parlarci del desiderio. Non soltanto del desiderio erotico, ma più generalmente del desiderio dell'altro. Una tensione che si traduce in azione e reazione, attrazione e paura, impulso alla tenerezza ma anche all'aggressività. Quasi una voglia di divorare e divenire l'altro, destinata, proprio per i suoi lati complessi e pericolosi, a rimanere sempre incompiuta. Ma proprio questa mancata soddisfazione spinge al fare, al pensare, al volersi perfezionare. Come accadde ai due protagonisti di questa icona, Marylin Monroe e il suo autore, e come anche ci insegnano secoli di letteratura sul percorso amoroso.