
"Il 15 maggio uscirà il primo numero di una rivista" scrive Giorgio de Chirico a Carrà nell'aprile del 1918. E precisa: "Sarà una rivista seria". Una rivista, va aggiunto, che segnerà le sorti dell'arte italiana e la farà conoscere in tutta Europa. A "Valori plastici", che prenderà avvio nel novembre, Savinio collaborerà con un gruppo di testi temerari, qui radunati per la prima volta. Basti pensare alla figura di artista che campeggia in "Arte = Idee moderne", quell'"amico della conoscenza" pronto a evadere dalla "torre d'avorio e di bestialità" e a penetrare in ogni dominio sociale, quel "mago moderno" (incarnato da Giorgio de Chirico) capace di giungere al di là dell'oggetto e di mettere a nudo "l'anatomia metafisica del dramma", giacché l'intuizione del mondo esterno non è solo "sensoria" ma soprattutto "cerebrale ". Il volume raduna per la prima volta i contributi pubblicati da Savinio su "Valori plastici" fra il 1918 e il 1921, ed è accompagnato da un saggio di Giuseppe Montesano.
Mare Egeo, tra il golfo di Salonicco e lo stretto dei Dardanelli. Il monte Athos: il destino vuole che questo lembo di terra venga a trovarsi nel corso della storia come una zona di frontiera tra oriente e occidente, tra Bisanzio e Roma, tra l’Islam e la cristianità, in quella linea di breve confine che divide l’umano e il divino. L’architettura, le strade, tutto è armonico con la vita condotta dai monaci. A Marco Polo che, diretto in oriente, passava davanti alla penisola dell’Athos, fu detto che in quella lingua di terra abitavano i discendenti degli antichi filosofi greci. La continuità tra la “vera filosofia” degli antichi greci e il “metodo” della meditazione esicasta, ovvero la dottrina e pratica ascetica diffusa tra i monaci dell’Oriente cristiano fin dai tempi dei Padri del deserto: da qui prende le mosse l’itinerario tracciato dall’autore.
A Roma politica e poesia non si sono mai potute dividere. I poeti mostravano ai governanti la strada oppure li contestavano. Con Augusto, Roma opera la grande rivoluzione artistica: l'armonia, la pace, l'ordine al posto dello strano e dell'esotico. E Virgilio che, cantando le origini di Roma, indica ad Augusto la strada per la rinascita artistica dell'Impero. L'arte diviene specchio di una nuova ideologia, che influenzerà la storia occidentale con corsi e ricorsi rispetto alla classicità augustea. Essa è presente nello stesso sguardo di Virgilio accompagnatore di Dante. La pace di cui gli uomini e i governanti si sono mostrati sovente incapaci è così "realizzata" da Augusto nel decoro dell'ara Pacis Augustae.
Concepire un’arte ornamentale proclamando, allo stesso tempo, l’intangibilità delle leggi della natura insieme con l’incontenibile ed esuberante fecondità che quest’ultima aveva ritrovato grazie alla pace: questa è la sfida apparentemente contraddittoria che Augusto ha lanciato a sé stesso e che ha saputo affrontare con successo. Fondata sulla riflessione dei filosofi , della creazione artistica dei Greci, la rivoluzione ornamentale augustea ha soprattutto beneficiato dell’incontro tra il principe e Virgilio, poiché il poeta aveva compreso, sin dall’epoca sanguinosa del triumvirato, che gli scontri che avevano diviso Roma e il mondo nel corso di un secolo dovevano trovare una risoluzione che fosse anche estetica. Non si può che rimanere colpiti, in effetti, dalla straordinaria efficacia dell’arte ornamentale augustea, che rimane una delle creazioni più durature del fondatore dell’impero. Le sue forme traggono certo la loro necessità dalle leggi della natura da esse stesse mostrate, dal geniale equilibrio dell’arte greca di cui rappresentano la continuazione, e anche dall’estrema semplicità del verso virgiliano che illustrano. Sembra che queste forme non vogliano morire, come se si ricordassero di esser state concepite per celebrare la rinascita del mondo.
Le analogie tra follia e modernità sono sorprendenti: sfida all’autorità e alle convenzioni, nichilismo e ironia dissacrante, rivolta a ogni cosa, un relativismo estremo, che può culminare nella paralisi, una disumanizzazione dilagante e la scomparsa della realtà esterna a favore di un Io onnipotente o, in alternativa, la dissoluzione di ogni senso dell’identità.
Secondo l’autore, i tratti fondamentali della follia schizofrenica sono esasperazioni di tendenze promosse dalla nostra cultura e tale affinità è messa in evidenza da un confronto con le opere di artisti e scrittori, tra i quali Giorgio de Chirico, Marcel Duchamp, Franz Kafka, Samuel Beckett, e prendendo in esame il pensiero di filosofi come Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger, Michel Foucault e Jacques Derrida. In quest’opera densa e sorprendente, che ha segnato un vero punto di svolta, Sass si rifiuta di ammantare lo schizofrenico di un’aura romantica, come un eroico ribelle, un mistico o un selvaggio veemente, sostenendo invece che in questa condizione riecheggiano molti dei più alienanti aspetti della vita moderna.
L'autore
Louis A. Sass insegna Psicologia clinica presso la Graduate School of Applied and Professional Psychology della Rutgers University, New Jersey. L’attività di ricerca e il lavoro clinico vertono sulla psicopatologia grave, soprattutto sulla condizione schizofrenica, schizoide e borderline. I suoi interessi interdisciplinari includono l’intersecarsi della psicologia clinica con la filosofia, l’arte, gli studi letterari e culturali.
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Che cos'è la bellezza? Crispin Sartwell riprende la domanda. E azzarda una risposta. Bellezza, egli dice, è l'oggetto del desiderio. Ma siccome tutto può essere oggetto del desiderio, ovunque può esservi bellezza. A questo punto si tratta di vedere a quali condizioni se ne faccia esperienza. E prima ancora che cosa accade quando la si incontra. Spesso non ci sono neppure le parole per dirlo. Allora bisogna forzare il linguaggio. Guardare in alto e in basso, nella luce e nell'oscurità. Esplorare tutte le vie della bellezza, sia la bellezza alta e perfetta sia la bellezza tormentata o magari ripugnante. Cercare altrove. In altri mondi, in altre culture. Dove scopriremo che la nozione di bellezza è stata declinata di volta in volta in forme differenti.
Racconto scritto e rappresentato da Sartre nel Natale del 1940 per i suoi compagni di prigionia nel campo di Treviri. La storia ruota intorno alla figura di Bariona, capo di un villaggio vicino a Betlemme, ed è ambientata nell'epoca in cui la Giudea era oppressa dai Romani e vessata da continue richieste di tributi. Il testo si offre al lettore come l'immagine di un'esperienza religiosa che raggiunge il suo apice nella descrizione del rapporto di intimità che lega la Madonna al Bambino, e nel contempo come esperienza politica che, nella chiara allusione alla Francia occupata dai nazisti, vuole creare aggregazione e solidarietà tra i prigionieri, credenti e non credenti, e sollecitarli alla resistenza contro gli invasori.
Questo libro raccoglie in un unico volume tutti gli scritti di Sartre sul Tintoretto. Si tratta della prima edizione autorizzata di un'opera alla quale Sartre lavorò per quasi un decennio, dal 1951 ai primi anni Sessanta, senza poi darle una forma definitiva. L'interesse per Tintoretto nasce probabilmente nel corso dei frequenti viaggi compiuti da Sartre a Venezia. L'approccio alla materia è originalissimo: la storia della città e della società veneziana, i rapporti con gli altri pittori (Tiziano, Veronese) e con la pittura fiorentina sono fatti ruotare attorno alla figura del Tintoretto, che Sartre definisce "braccato", in continua lotta con se stesso e con la sua città. "Tintoretto è Venezia - scrive Sartre - anche se non dipinge Venezia".