"Tra il 9 e l'11 aprile avvenne una delle stragi più efferate di tutta l'occupazione dell'Etiopia. Un gruppo di ribelli, inseguito da una colonna italiana, si asserragliò all'interno di una grande grotta. Si trovava nella regione del Gaia Zeret-Lalomedir. L'assedio durò diversi giorni. Per avere la meglio sui ribelli si chiese l'intervento di un plotone del reparto chimico. Quando i superstiti decisero di arrendersi gli italiani divisero gli uomini e i ragazzini dalle donne e dai bambini. I primi vennero mitragliati a gruppi di cinquanta sul ciglio del burrone. I bambini e le donne non sopravvissero a lungo a causa dell'iprite." Stragi sconcertanti, deportazioni, lager: ecco l'Italia fascista in Etiopia. Dominioni ricostruisce le operazioni belliche della "più grande campagna coloniale della storia" e la mattanza che portò allo sfascio l'effimero, inutile impero voluto da Mussolini, conquistato male e governato peggio.
La battaglia di Mosca, tra l'ottobre 1941 e l'aprile del 1942, fu il punto di svolta nella Seconda guerra mondiale, la prima sconfitta strategica della Germania. Nel giugno del 1941 Hitler ha conquistato quasi tutta l'Europa continentale: l'unica potenza in grado di contrastarlo, con l'Inghilterra sottoposta a un bombardamento martellante, è l'Unione Sovietica, con cui è stato stipulato un trattato di non aggressione. Per eliminare ogni minaccia alla sua supremazia, il Fuhrer prende la decisione fatale: occupare i territori sovietici. In pochi mesi la Wehrmacht arriva alle porte di Mosca, in una campagna fulminea e vittoriosa, ma quello che sembra il culmine della gloria si trasformerà nell'inizio della sconfitta. In una lotta dove sette milioni di uomini e donne si trovarono impegnati a combattere, e in cui morirono circa novecentomila soldati russi, l'esercito sovietico e il popolo di Mosca riuscirono in quella che sembrava un'impresa impossibile: fermare l'esercito di Hitler. Il diplomatico inglese Rodric Braithwaite, ambasciatore in Russia dal 1988 al 1992, ricostruisce i fatti di quei mesi dal punto di vista dei sovietici, raccontando le storie di soldati e intellettuali, contadini e politici, e offrendo il ritratto di Stalin e dei suoi generali mentre gettano le basi per la vittoria finale, che arriverà solo dopo altri quattro anni di guerra.
Il 3 ottobre 1935 il regime fascista attaccò l'Etiopia. Dopo sette mesi di combattimenti, nell'isolamento internazionale, nel maggio 1936 truppe italiane entravano in Addis Abeba e Mussolini dichiarava costituito l'Impero, l'Africa Orientale Italiana. Ma la conquista di fatto non fu mai portata a termine: dal 1936 al 1940 si susseguirono continue operazioni militari di "pacificazione coloniale". Poi il Corno d'Africa divenne uno dei teatri della seconda guerra mondiale e nel 1941 fu il primo territorio perso da un regime dell'Asse. In fondo, la guerra d'Etiopia non era finita nel maggio 1936: finì con la sconfitta italiana del 1941. Nel frattempo però all'AOI, alla nuova colonia italiana del fascismo, erano state imposte una legislazione ed una normazione razziste.
Il 10 luglio 1941, a Jedwabne, un paese di circa tremila abitanti nel nord est della Polonia, una folla di cattolici uccise la maggior parte dei loro vicini di casa ebrei. Il numero delle vittime varia a seconda delle stime: da trecentoquaranta a milleseicento. Qualunque sia la cifra corretta, pochissimi ebrei sopravvissero. Utilizzando asce, bastoni e coltelli, la folla assassinò in piazza circa quaranta uomini. I restanti ebrei - uomini, donne e bambini, molti dei quali neonati - furono ammassati in un fienile nella periferia della città. Poi, mentre la folla osservava con scherno le future vittime, vennero sbarrate le porte e l'edificio fu dato alle fiamme. Morirono tutti. Le case degli ebrei furono saccheggiate. La giornalista polacca Anna Bikont ha ricostruito nei dettagli questo crimine, dando al tempo stesso conto del tentativo da parte delle famiglie dei discendenti degli assassini, dei politici di destra, degli storici, dei giornalisti e dei sacerdoti cattolici di nascondere nei decenni l'accaduto, deviando la colpa sui nazisti o perfino sulle stesse vittime. Un crimine doppiamente efferato ricostruito attraverso le voci dei protagonisti. Una riflessione sulla memoria collettiva: cosa succede a una società che rifiuta di ammettere una verità che distrugge la sua buona coscienza? Come convivere con un passato cosí orribile?
Le chiamavano Streghe della notte. Nel 1941, un gruppo di ragazze sovietiche riesce a conquistare un ruolo di primo piano nella battaglia contro il Terzo Reich. Rifiutando ogni presenza maschile, su fragili ma duttili biplani, mostrano l'audacia, il coraggio di una guerra che può avere anche il volto delle donne. La loro battaglia comincia ben prima di alzarsi in volo e continua dopo la vittoria. Prende avvio nei corridoi del Cremlino, prosegue nei duri mesi di addestramento, esplode nei cieli del Caucaso, si conclude con l'ostinata riproposizione di una memoria che la Storia al maschile vorrebbe cancellare. Il loro vero obiettivo è l'emancipazione, la parità a tutti i costi con gli uomini. Il loro nemico, prima ancora dei tedeschi, il pregiudizio, la diffidenza dei loro compagni, l'oblio in cui vorrebbero confinarle. Contro questo oblio scrive Ritanna Armeni, che sfida tutti i «net» della nomenclatura fino a trovare l'ultima strega ancora in vita e ricostruisce insieme a lei la loro incredibile storia. È Irina Rakobolskaja, 96 anni, la vice comandante del 588° reggimento, a raccontarci il discorso, ardito e folle, con cui l'eroina nazionale Marina Raskova convince Stalin in persona a costituire i reggimenti di sole aviatrici. È lei a descriverci il freddo e la paura, il coraggio e perfino l'amore dietro i 23.000 voli e le 1100 notti di combattimento. E a narrare la guerra come solo una donna potrebbe fare: «Ci sono i sentimenti, la sofferenza e il lutto, ma c'è anche la patria, il socialismo, la disciplina e la vittoria. C'è il patriottismo ma anche l'ironia; la rabbia insieme alla saggezza. C'è l'amicizia. E c'è - fortissima - la spinta alla conquista della parità con l'uomo, desiderata talmente tanto -e questa non è retorica - da scegliere di morire pur di ottenerla».
Il diario a lieto fine di una giovane Anne Frank.
«L'odissea della sua vita è davvero simile a quella dell'autrice del diario più conosciuto dell'Olocausto, ma con una differenza fondamentale: Carry sopravvisse all'invasione nazista.» - El País
1941. La quindicenne Carry Ulreich vive a Rotterdam e conduce una vita come quella di tante altre ragazzine, godendo dei piccoli piaceri e delle libertà comuni a tante famiglie dell’epoca. Ma la libertà di Carry è destinata lentamente a svanire a seguito dei divieti imposti dai nazisti durante l’occupazione: la requisizione delle biciclette e delle radio, la riduzione degli orari in cui gli ebrei possono uscire di casa, l’obbligo di indossare la stella di David, il divieto di esercitare molte professioni (tra cui quella del padre di Carry, che è sarto), l’imposizione agli studenti ebrei di frequentare scuole solo ebraiche. E, nel giro di pochi anni, lo spettro dei campi di concentramento… Esauriti gli espedienti per evitare la deportazione, agli Ulreich viene offerta un’inaspettata ancora di salvezza: gli Zijlmans, una famiglia cattolica di Rotterdam, invitano Carry e i suoi a nascondersi nella loro casa, correndo un rischio altissimo. E così inizia la loro vita nell’ombra, costantemente avvolti dalla minaccia che li attende al di fuori delle mura della casa che li ospita. Con uno sguardo acuto e lucidissimo sui disagi e i timori affrontati, Carry ci restituisce lo spaccato di vita di una ragazza ebrea costretta a crescere e a formarsi nel momento più terribile del Novecento europeo.
A settant'anni dai fatti e nonostante lavori fondamentali di importanti storici del colonialismo italiano, "l'Impero fascista" in Etiopia rimane un terreno esplorato ancora solo in parte. I meccanismi dell'occupazione, i processi di modernizzazione delle società nell'Africa orientale, le repressioni e le stragi della "polizia coloniale", le pratiche di politica razziale e sessuale dei vincitori contribuiscono, con l'ausilio anche di qualche sondaggio sul campo, a rappresentare in questo volume il quadro della dominazione italiana, descritta tenendo conto del punto di vista degli africani. Numerosi saggi approfondiscono poi il contesto italiano della "conquista dell'Impero", arricchendolo di elementi nuovi sulla base d'inedite fonti d'archivio: esse svelano le tecniche dell'occupazione militare in Etiopia e quelle della fabbrica del consenso all'interno, in un quadro di grave rottura degli equilibri internazionali. Si ripropone infine il tema delle rimozioni e dei "vuoti di memoria" sul nostro passato coloniale che hanno caratterizzato, anche nel dopoguerra democratico e repubblicano del nostro paese, le relazioni coi paesi ex-coloniali e più in generale la politica estera italiana nel Corno d'Africa.
Riccardo Bottoni, responsabile della biblioteca "Ferruccio Parri" e membro del direttivo della Scuola superiore di studi di storia contemporanea dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, è autore di contributi sulla storia religiosa di Milano tra Cinque e Settecento. Più recentemente si è dedicato alla storia dell'educazione e della cultura antifascista e nel 2005 ha curato per il Mulino, assieme a M. Franzinelli, il volume "Chiesa e guerra. Dalla 'benedizione delle armi' alla 'Pacem in terris'".
La guerra partigiana in Jugoslavia, combattuta tra 1941 e 1945, viene raccontata in questo volume dal punto di vista di chi la visse da protagonista. È il diario di Milovan Djilas, figura chiave del movimento di Liberazione e della scena politica jugoslava nel secondo dopoguerra. L'autore rievoca con grande efficacia eventi di alta drammaticità, approfondendone la lettura con un sapiente lavoro di introspezione psicologica unito a una lucida analisi politica.
"'Fascismo di confine' è la formula di grande pregnanza simbolica con cui il fascismo costruisce la propria identità alla frontiera nord-orientale d'Italia. Il confine orientale è esibito agli occhi della nazione come luogo per eccellenza in cui la patria si riconosce: da quella sorgente, che si veste di sacralità, essa può trarre la sua forza, le sue potenzialità espansive verso l'Europa centro-orientale e i Balcani, i suoi diritti di conquista, la sua tenacia difensiva contro il nemico interno ed esterno. Alla fine della Grande guerra, le 'terre redente' rappresentano un sacrario a cielo aperto per tutti i simboli del passato irredentista e dell'epopea bellica che vi sono inscritti: a essi, durante tutto l'arco del ventennio, il fascismo attinge per costruire la sua storia e le sue ritualità. Qui si tocca con mano la reinvenzione della tradizione e la nascita di una nuova cultura politica di cui il regime si fa portatore." Annamaria Vinci analizza, a partire dal 1918 e fino alle soglie della seconda guerra mondiale, i percorsi politici e sociali di una periferia laboratorio': qui la vicenda fascista elabora in modo esasperato una violenza politica straordinaria, che introietta nelle persone uno stato d'animo di aggressività e bellicosità che si prolunga negli anni. Il nodo cruciale del rapporto tra maggioranza e minoranze nazionali, che in tutta Europa è giocato con estrema difficoltà, ha al confine orientale il suo maggiore 'esempio italiano'.