Esito necessario di una contraddizione più che secolare (quella tra "la sostanza umana e naturale" della società e il generalizzarsi dei rapporti mercantili), la "grande trasformazione" subita dalle istituzioni liberali negli anni Trenta del secolo precedente è al tempo stesso per Polanyi la dimostrazione della falsità delle tesi dell'economia politica classica e neoclassica, con la loro apologia dell'homo oeconomicus e del "mercato autoregolantesi". Ricorrendo largamente ai dati dell'antropologia e della storia (il discorso di Polanyi spazia dall'economia primitiva degli isolani delle Trobriand studiati da Malinowski alla vastissima letteratura sulla Rivoluzione industriale in Inghilterra), Polanyi dimostra il carattere alla lettera "singolare", non "naturale" delle società di mercato, che critica anche radicalmente dall'interno. Logico sbocco di questo rifiuto di un mondo in cui il fascismo costituisce una "mossa" sempre possibile, è il successivo passaggio di Polanyi a quelle ricerche di antropologia economica ed economia comparata che gli assegnano un posto di primo piano nella costruzione di una scienza unificata delle società umane. (Introduzione di Alfredo Salsano)
Nessuno più di Hannah Arendt si è reso conto che "le grandi crisi politiche del Novecento - lo scoppio della guerra totale nel 1914; l'ascesa dei regimi totalitari in Russia e in Germania, con il relativo annientamento di intere classi e razze di esseri umani; l'invenzione della bomba atomica...; la Guerra fredda; la Corea; il Vietnam e via dicendo tutti gli altri eventi che precipitano come le cascate del Niagara della storia - potevano essere viste come altrettanti sintomi di un generale collasso morale. Ma il nocciolo duro e controverso della diagnosi arendtiana sta nell'attribuire questo collasso morale non all'ignoranza o alla malvagità degli uomini, incapaci di far proprie le antiche verità morali, ma all'inadeguatezza di queste stesse verità morali intese come norme o criteri di giudizio su ciò che gli uomini sono ormai in grado di fare. Questa è la sola conclusione generale che Arendt si sia mai permessa di trarre: la generalità del collasso, la generalità del cambiamento che ha travolto tutto ciò che la nostra lunga tradizione di pensiero ha sempre considerato sacrosanto". Così Jerome Kohn, curatore del volume, commenta gli interventi contenuti in Responsabilità e giudizio, nove tra saggi, appunti, riflessioni ad alta voce e discorsi pubblici nei quali la Arendt intenta un vero e proprio processo alla parola "coscienza", bersagliandola di domande che, pur seppellite nel nostro passato, continuano ad assillare lo spirito.
Tre anni dopo la pubblicazione del "Cigno nero", un "racconto filosofico" acclamato in tutto il mondo, Nassim Nicholas Taleb fa il bilancio della vita del suo libro. L'idea talebiana del Cigno nero ha conquistato milioni di lettori e fecondato la ricerca in campi molto diversi, dalla filosofia alla statistica, dalla sociologia alla psicologia, agli studi sul clima, alla medicina. Meno feconda questa idea si è rivelata invece in economia, l'area più immediatamente vicina agli interessi dell'autore. Sulla crisi del 2008, e sugli economisti che dovrebbero analizzarla e curarla, Taleb si sofferma in questo nuovo libro, con annotazioni che hanno il sapore dell'ironia e dello scetticismo. E, ancora una volta, ribalta i sedicenti "esperti di rischi" che in questi tre anni hanno risposto all'autore con ostilità, dimostrando la loro inguaribile cecità ai Cigni neri. "Robustezza e fragilità" riassume tre anni di vita di un'idea forte, in grado di modificare i nostri paradigmi mentali; tre anni che hanno anche trasformato, in meglio, la vita dell'autore. Taleb ha incontrato filosofi, scrittori, scienziati, uomini di stato, lettori comuni e persino buoni economisti, si è confrontato con loro, ne ha ascoltato conferme e obiezioni, ha visto crescere e svilupparsi la sua idea nel mondo. Da questi incontri è nato "Robustezza e fragilità", il suo nuovo racconto filosofico dove, fornendoci una carta topografica dell'Estremistan, Taleb ci insegna come muoverci in un mondo dominato dal caso e dall'incertezza.
Oltre a La persuasione e la rettorica , al Dialogo della salute e alle Poesie, Michelstaedter ha lasciato un’im pres sio nante mole di scritti. Impressionante tanto più se si pensa alla brevità di una parabola esistenziale conclusasi con il suicidio a soli ventitré anni, e in cui è impossibile non cogliere il segno di un audace programma: «... e farai di te stesso fiamma». E sono proprio questi ‘scritti vari’ – ovvero il laboratorio segreto di Michel staedter –, di cui il suo maggiore specialista ci offre ora una silloge che copre il cruciale periodo 1905-1910, a fornirci una chiave per penetrare l’enigma di un’at tività speculativa solitaria e radicale, che pareva, con la tesi di laurea, essere giunta a maturazione per vie misteriose, e che invece si rivela qui tumultuosamente ma caparbiamente preparata. Che rifletta sulla catarsi tragica o sulla «via della salute», che si sperimenti in favole o parabole, che reagisca a caldo a una pièce di Ibsen o di D’Annunzio o a un concerto, infatti, il pensiero di Michelstaedter sembra accanirsi intorno a un nucleo rovente, a una dolorosa certezza: contro ogni scuola che parli nel nome dell’assoluta verità, contro la voce della philopsychía, che mette «un empiastro sul dolore per lenirlo», l’uomo «deve ricrearsi nell’at tività col suo spirito per creare il valore individuale, per giungere alla ragione di sé stesso – alla vita, per portar l’at tualità all’atto; per esser persuaso; poiché da nessuno e da niente egli può sperar aiuto che dal proprio animo, poiché ognuno è solo nel deserto».
Con eleganza e sobrietà, ma senza tacere le complesse questioni che s'intrecciano all'elaborazione di un metodo che comporta il coinvolgimento della soggettività del pensatore nell'elaborazione della dimostrazione, Gombay fornisce una introduzione del tutto originale a Descartes, il cui pensiero viene esposto secondo i mutevoli problemi di una riflessione che, pur aspirando a una ricostruzione dell'intero sistema del sapere, costituisce sempre anche un'esperienza intellettuale e morale che interviene direttamente sull'elaborazione della prima e al contempo sull'assise di tutta un'epoca. Da questo punto di vista, pur con la parzialità dichiarata delle scelte e dei punti di vista, André Gombay ci offre un ritratto vivido e rigoroso di una filosofia nuova e di un pensatore alle prese con i problemi della philosophia perennis, ma anche con la questione delle passioni dell'anima e la possibilità di fondare un'etica sulla loro conoscenza e sul loro controllo razionale. Siamo cosí introdotti a un pensiero tutt'altro che astratto e disincarnato, e invitati ad accostarci con rinnovata curiosità alla filosofia di un pensatore decisivo di cui qui si mostra la dimensione molteplice.
Pochissimi filosofi come Michel Foucault hanno visto nel folle non un malato mentale, quanto il depositario di una differente accezione del senso e della libertà, titolato ad autodeterminarsi nella propria originarietà. Tuttavia sino a che punto, nei fatti, questa meritoria posizione accredita al pazzo un'inviolata autonomia e piuttosto non lo rinserra in un isolamento dalla compagine sociale e dai suoi scambi, che in buona parte prevedono norme da condividere e ordini a cui conformarsi? Nel ripercorrere lo sfaccettato confronto del 1971 tra Foucault e il linguista Noam Chomsky, per il quale la pazzia è un'alterazione della natura mentale anzitutto da curare e da assistere, il presente volume perviene all'esigenza pratica di una sintesi delle due visioni: trattare il pazzo non soltanto come un paziente, ma pure come un'occasione per la cosiddetta normalità d'interrogarsi sui luoghi comuni del proprio "benessere", contestualmente evitando però che la differenza del folle sia esasperata in una diversità che non si aiuta anche mediante la terapia a entrare in dialogo con la maggioranza sociale.
In questa raccolta di saggi Maurice Blanchot dà prova di uno straordinario lavoro di critica ma anche di scrittura, che unisce alla chiarezza del linguaggio una profondità di stimolante complessità. Si tratta dell’esplorazione più importante, accanto a quella di Sartre, dedicata alle relazioni tra letteratura, arte e filosofia.
La nascita dell’arte, il ruolo della letteratura, le aporie della politica e l’eterna nterrogazione dell’ebraismo: ecco solo alcuni dei fili conduttori lungo i quali si sviluppa una riflessione che incrocia i nomi più importanti del Ventesimo secolo (Georges Bataille, George Duthuit, André Malraux, Louis-René des Forêts, Pierre Klossowski, Roger Laporte, Marguerite Duras, Michel Leiris, Robert Antelme, André Gorz, Jean Paulhan, Albert Camus, Claude Lévi-Strauss, Henri Lefebvre, Dionys Mascolo, Lev Trotski, Edmond Jabès, Emmanuel Levinas, Martin Buber e Franz Kafka).
GLI AUTORI
Blanchot Maurice (Quain, 1907 - Le Mesnil-Saint-Denis, 2003), scrittore e filosofo. L'influenza dei suoi testi ne ha fatto una figura di assoluto rilievo nel panorama culturale del Novecento. Tra i suoi scritti, oltre Il passo al di là, pubblicato da Marietti nel 1989, ricordiamo Lautréamont e Sade, Lo spazio letterario, Il libro a venire, L'infinito intrattenimento, La folla del giorno e La scrittura del disastro.
La comunicazione è uno dei grandi temi del nostro tempo perché accompagna ogni tipo di attività umana. La politica, l’economia, la ricerca scientifica, l’educazione, lo sport e il mondo dello spettacolo vivono grazie ai rapporti intersoggettivi che si stabiliscono attraverso la comunicazione. Ma la sua imprescindibilità non la rende “buona” di per sé: solo quando gli uomini decidono di rivolgersi la parola reciprocamente mettono in gioco la loro libertà e il loro essere.
La comunicazione, pertanto, influisce sulla dimensione conoscitiva, affettiva e comportamentale dell’uomo e, con ciò, su quella ontologica.
«Stabilire relazioni, gettare ponti: questo, in realtà, è il compito della filosofia. Essa, se vuole ancora far valere la sua vocazione ermeneutica, si configura come “filosofia di”: come una filosofia rivolta a quel qualcosa d’altro che la stimola a sempre nuovi approfondimenti. Questo “altro”, come accade in questo libro, può essere rappresentato dall’ambito comunicativo. Ecco perché il libro di Mariano Ure – una vera e propria “filosofia della comunicazione” – ha in effetti, nell’implicito, un’ambizione ancora più grande: quella di approfondire filosoficamente, seguendo il filo conduttore della comunicazione, il legame fra essere ed agire, nonché di definire l’ambito d’indagine di quelle discipline che tradizionalmente hanno riflettuto su questi concetti, cioè l’ontologia e l’etica».
Dalla Premessa di Adriano Fabris
Mariano Ure insegna Etica del giornalismo all’Università Cattolica Argentina di Buenos Aires.
Proseguendo nella ricerca iniziata con "La città originaria, Metafisica della politica, Metafisica del giusto", l'autore si interroga sui fondamenti della democrazia nel tempo della globalizzazione. Uno spazio che obbliga a considerare non i singoli ma i popoli - i "molti" - come soggetti dei processi di democratizzazione, tanto che anche gli altri concetti chiave della filosofia politica - giustizia, diritti, libertà - vanno rideclinati al plurale, in un tentativo di pensare la democrazia sotto la forma di un "esistenziale": condizione affinché ciascuno, in dialogo con i tanti volti del prossimo, trovi nel convivere la forma più autentica di riconoscimento.
La prima riflessione sulla figura dello straniero in quanto tale, sul suo ruolo ambivalente, di minaccia e insieme di dono. Oltre ogni schematica contrapposizione tra rifiuto e accoglienza, emerge nell’analisi dell’autore l’irriducibile duplicità di una presenza con la quale ciascuno di noi è chiamato a confrontarsi.
Un testo asciutto e scritto con grande chiarezza, per capire a fondo l’inquietante prossimità dello straniero.
L'autore
Umberto Curi insegna Storia della filosofia all’Università di Padova. Tra le sue pubblicazioni, Meglio non essere nati (Bollati Boringhieri 2008) e, nelle nostre edizioni, Lo schermo del pensiero (2000).
Tutto cade dentro una fuga di sguardo. Quando guardiamo ci lasciamo prendere. E ciò che ci prende ci affascina. In qualche modo ci sentiamo attratti e come trascinati via. È così che nasce la fuga dello sguardo.
Si fissa un punto dal quale nascono come delle linee o fasci che legano la visione. Nell’arte si chiama prospettiva. In filosofia si chiama punto di vista. Nell’uno e nell’altro caso il risultato è un quadro, un disegno, una visione. Le cose che si vedono sono sempre le stesse, ma il modo nel quale le si vede cambia. La filosofia è un continuo esercizio prospettico mirando un punto di fuga. La fuga è il rifugio delle cose che si guardano: il mondo, la vita, l’Occidente e l’Oriente, la musica di Bach, la poesia e la sua logica di immagini, l’anima con la sua sensibilità e i suoi temperamenti. E guardare altrove mentre si vive il presente è un modo per viverlo integralmente. Lo si vede nell’intero, come in un quadro complessivo dove tutto è centrato prospetticamente. Anche Dio cade in questa fuga di sguardo.
Ma allora la filosofia è costretta a un capovolgimento: perché il punto di fuga è lo stesso sguardo di Dio nel quale ci accorgiamo di essere guardati e in cui noi guardiamo il nostro essere visti.