"Telefonami tra vent'anni" diceva una bellissima canzone di Lucio Dalla. "Promemoria italiano" parte da qui ed esprime l'auspicio che tra vent'anni, nel 2032, non accada più quello che è successo nel 2012 rispetto a Mani pulite del '92. Per evitare di tornare a constatare che la corruzione si è ampliata e uscire stabilmente dalla sua lunga crisi civile, l'Italia dovrà ritrovare lo spirito del Dopoguerra. Avremo bisogno di uomini della tempra di un De Gasperi o di un Vanoni, di un Costa o di un Mattioli e di uno o più eredi del pragmatismo contadino di Di Vittorio. Avremo bisogno di ritrovare i valori cattolici e laici di un tempo custoditi in piccole storie familiari, cose semplici che si tramandano di generazione in generazione, e costituiscono l'anima più profonda di un popolo. Soprattutto, avremo bisogno degli italiani. Che dovranno credere in se stessi, recuperare l'orgoglio, il gusto della fatica, il senso dello Stato, l'entusiasmo e la determinazione che consentirono, in pochi anni, di trasformare un'economia agricola in una delle più grandi economie industrializzate del mondo. Uomini e fatti di ieri e di oggi, raccontati in questo Promemoria con una scrittura narrativa, ci dicono che l'Italia ha tanti vizi ma è un grande Paese e può farcela. Dipende solo da noi.
"Questo libro non è una vera e propria apologia dell'egoismo, ma un invito a pensare di più a se stessi. O se volete: a non farsi male ogni giorno più di quanto ce ne fanno gli altri. In un mondo dove lo Stato ormai rapina i contribuenti con le tasse e non restituisce i servizi che i politici promettono durante le campagne elettorali (l'Italia insegna) e in cui le religioni predicano cose tanto belle ma non offrono esempi edificanti, vale la pena riscoprire l'amor proprio. O, quanto meno, arrangiarsi per sopravvivere. Insomma, non lasciamoci schiacciare da questo o quello, perché nessuno alla fine ci ringrazierà. Le opere buone, dopo aver dato agli altri quel che ci è possibile, è giunto il tempo di compierle anche e soprattutto per noi. I periodi di crisi inducono alla legittima difesa. Poi penseremo meglio anche al prossimo. Come? Con filosofia o con qualcosa che le assomiglia." (Armando Torno).
"Sono un disordinato assolutamente refrattario al lavoro di team e animato da uno spirito d'indipendenza che spesso sconfina nella riottosità: non conosco remore di cautela e di diplomazia; non credo che riuscirei a imporre la disciplina per il semplice motivo che non l'ho mai rispettata io stesso." Così scriveva Indro Montanelli in una lettera del 1967, pochi anni prima di fondare "il Giornale". Per tutta la vita il grande giornalista ha tenuto una fitta corrispondenza, pubblica e privata, con i protagonisti della politica, della cultura e del giornalismo, da Andreotti a Cossiga, a Nenni e Pertini, da Buzzati a Prezzolini, a Longanesi e Guareschi, ma anche con la prima moglie, gli amici, i familiari. Dalla lettera al suo professore di liceo, in cui un Montanelli ventenne rivela le sue aspirazioni di giornalista, a quelle inviate ai genitori dal fronte africano nel 1935 e dal carcere nel 1944. E naturalmente i lunghi anni al "Corriere", quelli al "Giornale" fino allo scontro con Berlusconi. Questi testi inediti ci rivelano il lato più intimo di Montanelli, ricostruendone l'intera parabola esistenziale attraverso la sua viva voce. Il risultato è un'autobiografia postuma che completa le note dei suoi diari, offrendo ai lettori il ritratto di un uomo che a novant'anni dichiara "So di avere scritto sull'acqua. Ma ciò non mi ha impedito di continuare a scrivere, impegnandomi tutto in quello che scrivo".
I figli dei bancari ereditano il posto del padre. Le mogli dei ferrovieri viaggiano in treno gratis. I sindacalisti sono esentati dai contributi pensionistici. I giornalisti non pagano nei musei. Piccole cose, rispetto agli scandali dei nostri conti pubblici? Tutt'altro: sono i segni rivelatori di una rete di privilegi e ingiustizie, in gran parte sommersa, che copre l'intero Paese e blocca ogni riforma. Così paghiamo conti salatissimi imposti dai cartelli delle varie categorie. Così lo Stato foraggia - con le nostre tasse notai, giornalisti, farmacisti e mille altre lobby. Così uno spaventoso 53 per cento degli italiani rimane intrappolato nel suo ceto d'origine e dagli anni Ottanta la disuguaglianza sociale è cresciuta del 33 per cento. E l'Italia si disgrega in mille rivoli di interessi privati. In questo libro documentato e appassionato, Michele Ainis individua il ganglio fondamentale su cui si gioca la prossima, decisiva, partita dell'Italia: liberarci dalla dittatura degli interessi privati per diventare un Paese dinamico e competitivo. Come? Grazie a una vera liberalizzazione, con leggi ferree e senza eccezioni. Come scrive Ainis, "Non resta che la rivoluzione. Pacifica, ordinata; ma senza dispense né indulgenze, senza salvacondotti per i vecchi vassalli e valvassori. Di eccezioni, fin qui, ne abbiamo sperimentate troppe. Ora è il tempo della regola".
Il Borgo Bello non era un brutto posto dove crescere, con l'aria buona della campagna a due passi, ma anche quella più fine di città. E se i vicini non erano proprio tipi comuni, di certo erano tutta gente perbene, vere colonne di una provincia uscita dalla guerra un po' ammaccata, ma decisa a ripartire. Erano gli anni Quaranta, e a lui che ci era nato il Borgo Bello pareva bello sul serio, con i suoi eleganti quattro "villini" e il barometro tirolese che diceva il tempo, con l'omino e la donnina a fare cucù. Poi con gli anni si cambia, si cresce e arrivano i primi dubbi. Così quella "gente perbene" che si dava per scontata inizia a mostrare una facciata diversa, incrinata da crepe sottili che mostrano quello che c'è sotto. Tra eccentrici periti chimici, signore che si attribuiscono titoli nobiliari abusivi, vecchi fasci estroversi, preti petomani e giovani cameriere dall'inesauribile spirito di iniziativa, una storia di formazione delicata ed esilarante, ritratto di un'Italia che mette ancora allegria.
L'Italia è un Paese che si sottovaluta, fermo sulla soglia del mondo, abitato da irrimediabili Peter Pan. Perché non siamo capaci di salire sul "cavallo bianco" della Storia? Perché viviamo in un luogo pieno di memorie ma senza memoria? Perché abbiamo costruito il futuro e non riusciamo a viverlo? Tutte le volte che ce l'abbiamo fatta è una passeggiata in un caleidoscopico Paese sempre in bilico; una terra, tuttavia, dalle straordinarie avventure e ricca di biografie esemplari. Dopotutto noi italiani siamo figli di Collodi e Manzoni, siamo capaci di volare con Domenico Modugno e di correre con Pietro Paolo Mennea; di riconoscerci in Alberto Sordi e nello stile delle sorelle Fontana. Siamo sognatori come Federico Fellini, ma anche geniali scienziati come Enrico Fermi o Guglielmo Marconi: come sarebbero le nostre vite oggi senza le loro scoperte? Eppure, parlando al telefono, nessuno ricorda che il suo inventore è stato un italiano, Antonio Meucci; utilizzando un oggetto di plastica, non si pensa a Giulio Natta e, seguendo una partita di calcio, il pensiero non va al "metodo" di Vittorio Pozzo, con il quale la Nazionale vinse due mondiali consecutivi. Con stile brillante, Mario Sechi ci racconta l'Italia attraverso questi personaggi eccezionali, facendo emergere, sullo sfondo, la storia e l'economia, le visioni e le previsioni.
Giustizia, libertà, diritti delle persone sono ideali cui Moni Ovadia ha dedicato tante delle sue battaglie. Ma la dignità li precede tutti, ne è il fondamento, senza il quale gli uomini, nella loro concreta vita di ogni giorno, sono in balia della sopraffazione, della schiavitù, del nichilismo. Il merito di questo breve libro è proprio quello dì sbatterci davanti agli occhi il rischio che corre la dignità nel discorso comune quando viene banalizzata e data per ovvia. La dignità prescinde dalle nostre origini, dalla condizione sociale, dal censo, dall'etnia. È un attributo etico universale. Essa è un dono dell'assoluto. Stranieri, ribelli, reietti, fuorilegge, la "schiuma della terra", tutti partecipano di questo dono, che è prima di tutto "onore verso sé stessi". Passando dal commento dei testi sacri delle grandi religioni monoteistiche, alle storie di ogni giorno, ai conflitti etici, alle parole dei poeti, fino a "La dignità del carnefice", Ovadia ci consegna un breve prontuario contro l'abisso spalancato sotto di noi. Non solo nei grandi eventi della Storia, ma nel compiersi quotidiano della propria missione di esseri umani.
Un'indagine avvincente e meticolosa sul luogo più discusso e concupito da ricercatori, curiosi, fan del cospirazionismo e cronisti: l'Area 51, nel deserto del Nevada, cuore di mille intrighi e segreti, in cui si intrecciano storia, politica, spionaggio, test nucleari, esperimenti militari inconfessabili, e perfino gli Ufo. Basandosi non su illazioni ma su colloqui con piloti, scienziati, ingegneri e agenti in pensione che hanno lavorato per anni nell'Area - e che nonostante il vincolo di segretezza hanno accettato di parlare -, il libro fa luce su decenni di misteri e rivela verità assolutamente inedite, a volte davvero sconvolgenti. A partire dalla spiegazione del celebre incidente di Roswell del 1947, il crash di un oggetto volante non identificato con i suoi stranissimi e inquietanti passeggeri, che ha alimentato innumerevoli ricostruzioni e altrettante leggende.
Vista oggi come un oggetto familiare e un po' démodé, la radio è stata in realtà una delle più dirompenti invenzioni tecnologiche dell'epoca moderna: figlia dell'elettricità, è nata da uno straordinario concorso di talenti e fantasie e si è subito imposta per la novità rivoluzionaria del suo modello di comunicazione "immateriale". Questo libro ne racconta la storia e il movimentato percorso alla ricerca di una collocazione culturale: concepita all'inizio come anti-mass medium destinato non all'ampia divulgazione ma alla trasmissione di messaggi in codice, la radio diventa nei primi decenni del Novecento lo status symbol del ceto medio desideroso di aprire una finestra sul mondo dall'intimità dei suoi salotti. Felicemente promossa a democratico mezzo di intrattenimento domestico grazie ai programmi musicali, alle cronache sportive e alle nuove forme dello storytelling popolare come le "riviste" le soap-opera, la radio diventa anche strumento politico di propaganda facendo risuonare "discorsi del caminetto" di Roosevelt e la voce di Mussolini nelle case di tutti i cittadini. Nuovo focolare di aggregazione domestica negli anni venti e oggetto-feticcio dei movimenti giovanili anni sessanta, veicolo istituzionale dei bollettini di guerra e irriverente strumento delle burle fantascientifiche di Orson Welles, la radio ha accompagnato i momenti decisivi dell'ultimo secolo e gode ancora di un'insospettabile vitalità.
Ventisei chilometri di scaffali, oltre trenta milioni di fascicoli, mappe, disegni, grafici, quaderni, liste, effetti personali, fotografie: le stanze segrete dell'ex caserma delle Ss di Bad Arolsen custodiscono l'archivio definitivo dell'Olocausto, il registro più completo dell'ossessione nazista di documentare e catalogare ogni singolo aspetto dello sterminio. Un inferno di carta. Perché delle loro vittime gli aguzzini annotavano tutto, in bella calligrafia e su appositi moduli: i particolari agghiaccianti delle loro reazioni agli esperimenti scientifici e alle ispezioni, le inclinazioni sessuali, i comportamenti durante gli interrogatori e le torture, la composizione del rancio, i trasferimenti, gli orari dei decessi fino nel dettaglio dei minuti. Solo nel 2007, a più di sessant'anni dalla fine della guerra, e dopo un estenuante braccio di ferro diplomatico tra gli undici Paesi firmatari di un accordo sull'archivio, la Germania ha finalmente deciso di togliere i sigilli e di aprirlo al pubblico. Marco Ansaldo è il primo italiano a essersi addentrato in questo labirinto di fogli e storie. Quelle ignote degli internati illustri - Anna Frank, Primo Levi, i Finzi-Contini, Mike Bongiorno diciannovenne in fuga verso l'America - e quelle travagliate dei molti anonimi dimenticati. Vite spezzate, famiglie distrutte, gesti, vicende e destini che trasformano questo libro in un romanzo corale sulla forza dell'uomo e la sua costante ricerca della salvezza.
C'è il re delle cliniche romane che compra un ospedale da don Verzè e pochi mesi dopo lo rivende allo Stato guadagnandoci quasi il 20 per cento. C'è il "very powerful executive chairman" che fa precipitare le azioni della Telecom appena privatizzata e una decina d'anni dopo torna alla carica per rilanciare un marchio automobilistico decotto grazie a improbabili investitori indiani, o forse cinesi, risultato: fallimento. C'è il finanziere amico dei politici che fa crac dopo aver intascato per sé e regalato ai figli decine di milioni della società quotata in borsa. C'è l'imprenditore turistico che ricicla i soldi dei boss, il faccendiere che era iscritto alla P2 in affari con un ex assessore di Cl... Insomma, la razza padrona degli anni Settanta si è trasformata nella razza stracciona di oggi. Intrecci pericolosi tra banche, fondazioni, assicurazioni e poteri pubblici locali e nazionali, connivenze tra controllori e controllati, meccanismi di selezione che premiano familiari e amici indipendentemente da meriti e capacità, una concezione distorta dell'impresa, incompatibile con le regole del capitalismo evoluto e moderno: sono solo alcuni dei vizi della nostra economia e della nostra società che Sergio Rizzo analizza in questo romanzo horror in forma di inchiesta. Non ci è rimasto molto tempo, per evitare che a finire in liquidazione sia tutta l'Italia.