La Repubblica, secondo l'articolo 3 della Costituzione, ha fra i suoi compiti quello di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti all'organizzazione dei diversi aspetti della vita del Paese. La democrazia è cosi proposta come un'esperienza di libertà e di legami, di diritti e di doveri, di individui e dei rapporti ai quali la Costituzione dedica la sua prima parte: civili, etico-sociali, economici, politici. Questi rapporti, che dovrebbero generare e sostenere pratiche "inclusive", diventano spesso strumenti di disuguaglianze insostenibili, di mortificazione del merito, di umiliazione delle vulnerabilità, di omologazione di saperi e valori, di distorsione del mercato ad esclusivo vantaggio di pochi, di un potere del quale non si riconosce più lo spirito di servizio. Questo libro parte dalla consapevolezza che la sfida della costruzione di una democrazia che sia davvero di tutti e di ciascuno è ancora aperta e cerca una via alternativa tanto alla rassegnazione che la vuole ormai perduta quanto al cinismo che la lascia all'ingenuità delle anime belle. Ci vogliono proposte concrete, a partire da alcune premesse: la libertà dallo Stato ha bisogno anche della libertà attraverso lo Stato; mettere la persona al centro significa partire dalle garanzie fondamentali della casa, di ospedali e scuole.
Marc Augé esplora in questo libro il gran teatro del bistrot con tutti i suoi attori. Considerato con gli occhi dell'etnologo, il bistrot è il regno delle relazioni "di superficie" quelle in cui il gesto dello scambio importa assai più di ciò che lo motiva. Un grande bistrot nell'ora di punta è un luogo straripante di vita, di emozioni, in cui si scambiano parole per non dire nulla, gesti appena accennati, occhiate passeggere. Spazio relazionale ma anche spazio letterario: Maigret sarebbe impensabile senza le soste al bistrot. La Francia ha esportato in tutto il mondo questo modello di civiltà: da quel nome sprigiona ovunque il carattere amabile che ne contrassegna l'immagine. Non pura immagine, tuttavia: il bistrot è un oggetto del paesaggio urbano che rivendica di possedere una propria storia, una geografia e, d'ora in avanti, anche una propria etnologia.
Primi anni Settanta. A pancia in giù e sollevato sui gomiti, un ragazzino legge su una rivista frasi impenetrabili, rabbiose, attraenti. Sono tutte di Pier Paolo Pasolini. Il tempo passa e, quasi inavvertitamente, dentro quel bambino che oggi è uno scrittore sedimenta qualcosa di profondo: non è solo la passione per la parola, è l'istinto di un mestiere. "Seguire quello che succede, immaginare quello che non si sa o che si tace, rimettere insieme i pezzi disorganizzati e frammentari, ristabilire la logica dove regnano l'arbitrarietà, la follia e il mistero." Perché il Pasolini che ci parla dalle pagine di questo libro non è il poeta né il letterato, è quello della narrazione civile, lo stesso che confessò di sapere e che è stato assassinato. È proprio lì che torna Carlo Lucarelli, agli anni più violenti della nostra storia recente, ai pestaggi, ai morti ammazzati e alle stragi. Torna al Pasolini intellettuale e all'odio che lo circondava. Attraverso un tessuto di impressioni intime, analisi politiche e ricostruzioni storiche, torna a quella notte di novembre del 1975 in cui si è consumato un delitto comunque politico. Ciò che resta, una volta disintegrata la versione ufficiale e rimessi in ordine i fatti, è la certezza di trovarci di fronte a un Segreto Italiano.
Nell'anno di Expo l'idea di una vita secondo natura affascina sempre di più l'uomo moderno. Dal suo rifugio montano, lontano dai clamori della manifestazione milanese dove tutti si muovono e fanno polvere rimestando nel gran calderone della Green Economy, l'autore tenta una via più autentica e meno immediata alla sostenibilità. Il suo percorso parte dall'esperienza di contadino in felice decrescita per elaborare il manifesto del buon selvaggio. Nel suo podere, un frutteto che ricorda il Giardino dell'Eden fa da cornice a campi di cereali e legumi. Sulla tavola porta un'alimentazione scarna, integrale e frugale a prevenzione delle malattie del benessere. Tra le sue priorità il senso di appartenenza ai luoghi e alla comunità, e tempo per annoiarsi. Il buon selvaggio non rifiuta la tecnologia ma accetta la sfida di un suo uso equilibrato, non lancia dogmi come macigni ma si pone domande e sperimenta uno stile di vita sempre aperto al confronto. Si districa tra gli inganni del vivere quotidiano elaborando una personalissima via alla felicità. A fare da sfondo, l'estremo rifugio di sempre: la montagna - quelle Alpi segrete dove il buon selvaggio dei tempi moderni potrà rintracciare la solitudine terapeutica che in un continente sovrappopolato è un bene assai raro.
"La ricerca dell'ideale" e "Un messaggio al Ventunesimo secolo" possono a buon diritto essere considerati scritti testamentari, giacché in questi due limpidi discorsi Berlin ha voluto esporre i punti che riteneva essenziali del suo pensiero e della sua esperienza, quello che egli stesso definiva il suo "breve credo".
Mary Godwin Shelley, una ragazza non ancora ventenne, duecento anni fa diede alle stampe un romanzo destinato a diventare una delle opere letterarie più singolari della Modernità: Frankenstein, il cui sottotitolo, Il moderno Prometeo, faceva intravedere la grande portata del romanzo, gli echi delle grandi opere che lo avevano influenzato, le suggestioni delle scoperte nel campo della fisica e della chimica e quella componente gotico-romantica che solo in un animo sensibile e appassionato poteva sintetizzare la pienezza del sublime. Mary visse in un periodo di grandi rivolgimenti, storici, sociali e soprattutto scientifici. Un periodo dove già iniziava un dibattito etico derivato dalle nuove straordinarie scoperte che avevano suscitato molte domande sui confini tra la vita e la morte e il potere su di essi degli scienziati.Mary scelse di raccontare questi dubbi e queste angosce in un romanzo che diverrà il capostipite del genere fantastico-gotico, nonché della narrativa di fantascienza.A duecento anni dalla pubblicazione il romanzo della Shelley continua a interpellare le coscienze, ad affascinare i lettori, a ispirare il cinema, la musica, la letteratura.
"Siamo in guerra. È il Jihad, la guerra santa islamica, scatenata dal terrorismo islamico dei tagliagole, che ci sottomettono con la paura di essere decapitati, e dei taglialingue, che ci conquistano imponendoci la legittimazione dell'islam. È la Terza guerra mondiale, che vede partecipi la Finanza speculativa globalizzata, l'Eurocrazia, lo Stato-Mafia e la Chiesa relativista; che distrugge l'economia reale e impoverisce i popoli, spoglia gli Stati della sovranità e pone fine alla democrazia sostanziale, scardina la certezza di chi siamo e ci trasforma nel meticciato etnico e culturale. È ora di prendere atto della realtà della guerra in atto, essere consapevoli che, o si combatte per vincere, o la subiremo e saremo sottomessi all'islam."
"Non è possibile parlare del lavoro senza considerarlo in rapporto con le grandi domande di senso che si agitano nel cuore dell'uomo. Le risposte a queste domande caratterizzano il nostro stile di vita e, in particolare, il nostro modo di lavorare." In un mondo in cui l'ambizione e la competitività sembrano assurgere a valori supremi, e il lavoro è spesso considerato soltanto un mezzo per arricchirsi e fare carriera, la voce di Pippo Corigliano esce prepotentemente dal coro, suggerendo una chiave di lettura tanto inconsueta quanto profonda dell'attività professionale, un aspetto fondamentale nell'esistenza di ogni uomo: la vita ordinaria come scenario di una vita santa e il lavoro quotidiano come strada verso l'unione con Dio. Esiste dunque un legame inscindibile tra le sfere della spiritualità e dell'agire pratico, un nesso che diventa evidente anche nell'atteggiamento con cui ciascuno di noi affronta le incombenze di ogni giorno: la capacità di svolgere con impegno e allegria i compiti che ci spettano, di ascoltare gli altri, di essere attenti ai loro bisogni dipende, sostiene Corigliano ispirandosi all'insegnamento di san Josemaría Escrivá, da ciò che abbiamo nel cuore e dalla consapevolezza che, con il nostro lavoro, stiamo collaborando alla grandiosa opera di Dio. Prenderne coscienza, coltivare la propria spiritualità, corroborarla con la preghiera e far sì che traspaia da ogni gesto è il primo, indispensabile passo verso quella "santità laica" di cui il mondo lamenta sempre più la mancanza.
Dopo le sue dimissioni dalla carica di presidente dell'Unione Sovietica, Michail Gorbacëv ha rinunciato a intervenire direttamente nella politica russa, ma non ha trascorso un solo giorno lontano dalla vita pubblica. Con la sua Fondazione di studi, ha continuato a riflettere sulle questioni internazionali con articoli, interviste e conferenze, rispondendo alle sollecitazioni che riceve da numerosi Paesi. A trent'anni dall'avvio della perestrojka, analizza, in questo libro, lo sviluppo e le conseguenze di quel grande esperimento che cambiò per sempre la geografia europea: la dissoluzione dell'URSS, la transizione post comunista, il default, l'ascesa di Putin. Gli argomenti del "nuovo pensiero" sono esaminati negli scambi di idee con i maggiori leader del nostro tempo e nel confronto con le inquietudini del mondo globalizzato, dalla situazione ucraina alla gestione del potere da parte di Putin, dal terrorismo alla questione ambientale. Accanto alle considerazioni politiche non mancano i ricordi personali, dove compaiono la figura del padre, le esperienze infantili e l'amore per la moglie Raisa. Una grande lezione da uno statista che ha inciso profondamente sul processo storico del Novecento e che continua a ricordarci che "la Storia non è un destino", ma il frutto delle nostre scelte.
Bergoglio lo sa. Alcune volte ne ha parlato in privato. Altre volte lo ha lasciato intendere in pubblico. Dentro e fuori la Chiesa ci sono ostacoli, resistenze, lotte. I serpenti si annidano negli ambienti curiali come nei centri di potere internazionali. Sugli oppositori interni già si scrivono pagine di cronaca e interi tomi, ma è anche la trincea esterna al perimetro del Vaticano a essere foriera di pericoli imprevedibili. Francesco non lo ha mai negato. Alla vigilia del viaggio in America Latina ha parlato senza ipocrisia: "Quante forze, lungo la storia, hanno cercato e cercano di annientare la Chiesa!". In un'inchiesta giornalistica rischiosa Nello Scavo ha cercato i nemici del papa "venuto dalla fine del mondo". Alcuni li ha incontrati di persona, anche a loro insaputa. In qualche sacrestia, lungo le rotte dei profughi scacciati, in un paradiso fiscale o nell'inferno di una bidonville. Molti continuano a nascondersi. Indossano il copricapo da vescovo o il turbante da mujaheddin, le cravatte alla moda di certi banchieri d'assalto o le camicie di lino di petrolieri famelici. Altri, infine, portano gli scarponi sporchi di fango dei trafficanti di uomini e di armi. Mercenari della maldicenza e capi di stato che razzolano male. "Se subissi un attentato", ha confidato il papa mentre si recava nelle Filippine, "chiedo solo la grazia che non mi faccia male. Non sono coraggioso. Ho paura del dolore fisico, ma ho il difetto di avere una bella dose di incoscienza."
I corpi intermedi possono e devono contribuire al rinnovamento dell'Italia e dell'Europa. Indirizzare l'azione delle istituzioni sulle priorità che stanno in cima alle preoccupazioni dei cittadini e dalla cui risposta dipende lo stato di salute e il futuro della nostra democrazia, è ancora una loro prerogativa. A patto che sappiano rinnovarsi nel profondo. Quale sarà nell'immediato futuro il ruolo dei corpi sociali intermedi? Quello che si sapranno meritare, decidendo di affrontare con coraggio le questioni cruciali per i nostri territori, per il nostro popolo, per il nostro tempo e recuperando l'originaria vocazione di organismi di prossimità capaci di creare reti tra i cittadini e le istituzioni, tra la domanda e l'offerta politica, sociale ed economica.
Noi genitori amiamo i nostri bambini, ma non sempre il loro comportamento. E talvolta neppure la nostra reazione al loro comportamento. Così ci sforziamo di trovare modi o strategie per far sì che facciano esattamente ciò che ci aspettiamo, o desideriamo o riteniamo più giusto per loro, spesso con risultati scarsi o nulli, o a costo di conflitti e sensi di colpa. E se il problema fosse che, per riuscire a disciplinare i nostri bambini, fossimo noi per primi a dover imparare autodisciplina e autocontrollo? A dover modificare il nostro comportamento nei loro confronti? È quanto sostiene la dottoressa Bailey, che, con il suo inusuale approccio all'educazione dei bambini fino all'età scolare, ha reso migliaia di famiglie più felici e più sane. Attraverso il racconto di aneddoti divertenti, numerosi esempi pratici, situazioni concrete e quotidiane, Bailey mostra quanto sia controproducente tentare di disciplinare un bambino attraverso la logica della punizione e della ricompensa o, al contrario, del permissivismo senza regole, proponendo l'alternativa di una "guida amorevole", che i genitori devono prima fare propria per poterla esercitare. Basato su oltre 25 anni di lavoro con bambini di tutte le età, "Facili da amare, difficili da educare" aiuta per primi noi genitori a diventare consapevoli di come ci comportiamo e quale linguaggio usiamo, poiché il modo in cui esercitiamo disciplina su noi stessi trova corrispondenza in come educhiamo i nostri bambini.