A 150 anni dall'unità, l'Italia vive la sua parte, di una grave crisi mondiale. Alla fine del 2011 il governo Berlusconi si dimette, per il Paese si chiude un ciclo ventennale iniziato nel 1991, con la fine della Prima Repubblica. Sarebbe stata una buona occasione per un bilancio, per capire come, attraverso una serie di difficoltà, l'Italia era passata dal regno di Vittorio Emanuele II al regime del signore di Arcore. Non più dantesca signora di provincia, ma una dei "pigs" d'Europa, incompiuta e in crisi.
L'11 aprile 1961 il teatro di Beit Ha'am, a Gerusalemme, era gremito. Più di settecento persone riempivano la sala per il processo intentato ad Adolf Eichmann, accusato di essere il principale ufficiale operativo della "soluzione finale". I giornali di tutto il mondo riportavano notizie sull'evento. Le reti televisive americane mandavano in onda trasmissioni speciali. Non si trattava del primo processo per crimini di guerra nazisti. Eppure c'erano più giornalisti a Gerusalemme di quanti ne fossero andati a Norimberga. Per quale motivo questo processo era diverso da quello condotto dai tribunali di Norimberga, dove erano state processate figure molto più in vista della gerarchia nazista? Mentre il mondo continua a confrontarsi con la realtà del genocidio nazista e a riflettere sul destino di coloro che sono sopravvissuti, il processo Eichmann è divenuto una pietra di paragone per i giudizi successivi, un'impalcatura legale, morale e giudiziaria per confrontarsi con il male nella sua forma più incomprensibile. Deborah E. Lipstadt riesce a raccontarlo contemperando un'avvincente capacità narrativa con una sicura prospettiva storiografica. Lipstadt svincola il processo Eichmann dalla polarizzante presenza di Hannah Arendt, senza ignorarla, ma recuperando alcuni aspetti essenziali della vicenda: da un lato il risveglio, tardivo, della consapevolezza mondiale nei confronti dell'ampiezza della Shoah; dall'altra l'essere un momento nodale della storia di Israele.
"Tutti sanno che la miccia che fece esplodere il primo conflitto mondiale fu l'attentato di Gavrilo Princip, in una mattina simile a tante altre, a Sarajevo nel giugno 1914. Nessuno conosce però la storia di questo ragazzo, invasato e determinato, che in nome dell'indipendenza serba decise di uccidere l'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austro-ungarico, e sua moglie. Questo libro di David James Smith racconta l'incredibile e inimmaginabile storia della vita di Princip con delicatezza unita a rigore scientifico sorretti da un folgorante passo narrativo che a tratti sconfina in quello proprio del thriller. L'autore si muove con leggerezza nell'ambito del grande reportage senza rinunciare a soffermarsi sui particolari inediti più minuti, ricostruisce il contesto familiare e sociale di provenienza di Princip, i tratti salienti del suo carattere, le sue timidezze, gli amori, il modo in cui fu usato e abusato, fino a ricordare ciò che hanno pagato i suoi familiari e i suoi amici, per la sola colpa di essergli parenti o di averlo conosciuto. La vicenda dell'uomo che con due spari ha generato la più grande carneficina della storia umana." (Roberto Saviano)
Le discussioni sul metodo storico toccano oggi temi non limitati ai soli addetti ai lavori. La riduzione della storiografia a retorica, alimentata dallo scetticismo postmoderno, si è incontrata con le posizioni politiche dei movimenti basati su identità etniche o di genere. Chi ha rivendicato la parzialità della conoscenza storica lo ha fatto richiamandosi all'analisi della conoscenza in termini di potere proposta da Foucault, oppure all'idea che la versione del passato destinata a prevalere sia quella retoricamente più efficace. Entrambe le prospettive derivano da Nietzsche: più precisamente, sostiene Carlo Ginzburg, dalla lettura, elaborata negli anni settanta, di un inedito giovanile di Nietzsche in cui la nozione di verità era ricondotta a una dimensione retorica. Alla retorica di Nietzsche, riecheggiata dai suoi epigoni odierni, Ginzburg contrappone un'altra retorica, quella fondata da Aristotele e trasmessa da Quintiliano a Lorenzo Valla. Al centro di questa tradizione c'è il nesso tra retorica e prova, qui illustrato attraverso l'analisi di una pagina poco nota e di una pagina famosa: la denuncia del colonialismo europeo che un gesuita francese del Settecento attribuì al capo di una rivolta indigena, e lo spazio bianco dell'educazione sentimentale in cui Proust vide il culmine dell'intera opera di Flaubert.
Nel 2003, con "Il rischio americano", Sergio Romano affermava, nella nuova fase politica internazionale iniziata dopo gli attentati dell'11 settembre, che gli Stati Uniti, unica superpotenza mondiale, avevano agito con arroganza anche perché l'Europa era stata assente o insignificante. Poco più di dieci anni dopo, in un contesto di continua fibrillazione acuita dalla perdurante crisi economica apertasi nel 2007/2008, la domanda di fondo è sempre la stessa: cosa vuol fare l'Europa da grande? Se il declino degli Stati Uniti come impero mondiale sembra evidente, non altrettanto chiaro è il modo in cui gli americani sapranno attraversare questa fase della loro storia. La condizione imperiale è una droga da cui non è facile disintossicarsi. La parabola del declino americano sarà tanto meno rischiosa quanto più sarà accompagnata dalle scelte ragionevoli di Cina, Russia, Brasile, Iran e di altri paesi. Ma la responsabilità maggiore è dell'Unione europea, che non può assecondare l'America in ciò che rimane della sua politica imperiale, e le sarà tanto più utile quanto più diverrà, in una realtà multipolare, una sorta di Svizzera continentale. Per gli americani che ancora credono nella vocazione imperiale del loro paese, un'Europa divisa è il migliore degli alleati possibili. E l'unità europea si farà soltanto a dispetto dell'America: per garantire un ruolo all'Europa in un mondo in cui lo spazio creato dal declino americano verrebbe riempito da potenze extraeuropee.
"Dobbiamo molto al libro. La vita intellettuale degli uomini ha avuto nel libro il suo utensile più versatile e insieme il suo emblema più glorioso. La vita emotiva, interiore, degli uomini ha trovato nei libri quella comprensione, quel colloquio, quell'intima rispondenza a sé che non sempre gli altri uomini sono stati in grado di offrire. Un simile riconoscimento che confina con la riconoscenza non ci autorizza però né a perseverare nelle illusioni né ad avvolgere noi stessi e il libro in una nebbiosa retorica. Al contrario, possiamo usarlo - lui, il libro - per fare quello che gli è sempre riuscito meglio. E cioè indagare, ricercare, discernere e, alla fine, capire, conoscere. E preservare, salvare. Questo, infatti, è stato il suo ufficio, la sua fortuna e la sua gloria".
Pensato come riflessione critica sul ruolo che le donne hanno avuto nel processo di costruzione dell'Italia unita come soggetti attivi e come proiezioni dell'immaginario collettivo, il volume è costruito secondo una sequenza di "generazioni brevi", affrontate ciascuna attraverso un suo tratto caratterizzante, affiancando un quadro generale al profilo di una o più figure che ne hanno impersonato la specificità: Giannina Milli, Erminia Fuà Fusinato, Matilde Serao, Maria Montessori, Margherita Sarfatti, Nilde Iotti, Tina Anselmi, Carla Lonzi. Una articolazione per blocchi ventennali - le "generazioni brevi" appunto - permette di rappresentare al meglio alcune scansioni di fondo della presenza delle donne in quanto soggetti ed emblemi del processo di nazionalizzazione: processo che, soprattutto sul fronte femminile, ha stentato a diventare di massa e che risulta fortemente segnato dalla tensione tra affermazione dei diritti (individuali e collettivi) e pratiche di controllo volte a modellare pensieri, progetti di vita, comportamenti delle donne e, con esse e attraverso di esse, di tutto il paese. Nell'ultima parte, attraverso un ventaglio di riflessioni, il volume dà voce alle contraddizioni in atto nel nuovo secolo, che valorizzano la soggettività delle giovani ma ne imbrigliano la proiezione sul futuro.
Tra la metà del XVI e la fine del XVIII secolo, quando furono espulsi da tutte le colonie spagnole e portoghesi delle Americhe, i Gesuiti posero le basi di un sistema culturale ed economico autosufficiente, fondato sulla religione e sulla convivenza tra indigeni ed europei. Attorno alle chiese e alle scuole delle missioni, la vita e il lavoro si svolgevano secondo un regime quasi collettivista, mentre la Compagnia di Gesù era ormai un pericoloso concorrente per gli affari dei latifondisti. Per questo e per la ferma opposizione allo schiavismo, dopo due secoli di lotte con le autorità laiche e le gerarchie cattoliche, le missioni vennero attaccate e distrutte una dopo l'altra, i Gesuiti espulsi, i nativi uccisi o ridotti in schiavitù. Robert Cunninghame Graham - attivista politico, scrittore e avventuriero - racconta la storia delle missioni gesuitiche in Paraguay servendosi dei numerosi e discordanti documenti dell'epoca. La sua cronaca è precisa, ma non nasconde la passione per un'epopea che anticipa per molti versi le idee del cristianesimo sociale del Novecento, per un'utopia - nobile nonostante i limiti posti dal proselitismo cristiano - cancellata quando era sul punto di realizzarsi.
La Grande guerra continua a occupare un posto di primissimo piano tanto dal punto di vista della storiografia quanto da quello della memoria collettiva. Essa fu la prima manifestazione sistematica della combinazione tra tecnologia e produzione di morte, la prima espressione di una mobilitazione totale delle masse, fu, in breve, la prima rivelazione compiuta e folgorante della modernità, della sua natura, dei suoi dilemmi e dei suoi rischi. L'ambizione di questa enciclopedia della prima guerra mondiale è di fondere sensibilità e interessi propri della storiografia tradizionale più attenta all'oggettività dei processi, alle dimensioni diplomatiche, politiche, militari, ma anche economiche e sociali dell'evento, con i nuovi orizzonti aperti da una storia che si suole definire culturale e che riporta in primo piano le dimensioni della soggettività, dell'esperienza vissuta, dell'immaginario e della memoria anche grazie all'uso di fonti mai prima esplorate.
Il volume indaga le reti delle donne seguaci di Girolamo Savonarola, numerose nelle due generazioni successive alla morte del predicatore e leader politico. Nel tentativo di rimanere fedeli agli insegnamenti del loro capo, le seguaci di Savonarola dovettero spesso fare i conti con superiori ostili all'interno degli ordini religiosi cui appartenevano, furono esposte a pressioni politiche locali e all'ostilità nei confronti del protagonismo femminile, ben radicata nelle gerarchie cattoliche. In questo senso, "Le donne di Savonarola" offre una ricostruzione della presenza femminile in uno dei più importanti e controversi movimenti religiosi europei della prima età moderna. Prefazione di Gabriella Zarri.
Apertura ai comunisti? Possibile ingresso del Partito comunista italiano nella maggioranza di governo? Instaurazione di una Repubblica conciliare? Sul finire degli anni Sessanta del Novecento questi interrogativi animarono e in alcuni momenti dominarono il dibattito politico nel nostro paese. Della discussione che si sviluppò intorno alla possibilità di un nuovo corso nei rapporti con i comunisti i protagonisti principali furono indubbiamente Aldo Moro e la Democrazia cristiana. Sulla base di una vasta documentazione, italiana e statunitense, il volume ricostruisce la politica di Moro e della DC verso il PCI tra il 1967 e il 1969, fornendo un quadro analitico anche delle reazioni degli altri partiti, dei commenti della stampa e dell'atteggiamento degli Stati Uniti di fronte alle posizioni espresse dai democristiani e, più in generale, alla "questione comunista".