
Ogni re che vuole dimostrarsi mio pari vada dove io sono andato»: con queste parole Sargon il Grande più di quattromila anni fa conquistava le città della Mesopotamia e uni cava il mondo in un unico territorio che andava dai monti dell’Anatolia al Golfo Persico. Da quel momento la storia dell’umanità è stata segnata dall’ascesa e dalla caduta dei grandi imperi, che hanno impresso la loro impronta su cambiamenti epocali, rivoluzioni, guerre e trattati di pace.
Paul Strathern ne ripercorre le vicende dalla dinastia di Akkad al dominio globale degli Stati Uniti, raccontando l’Impero romano, le conquiste dei mongoli, la Cina della dinastia Yuan, i califfati arabi, l’impero marittimo del Regno Unito. Attraverso i secoli l’organizzazione degli imperi si è modificata di pari passo con la concezione del potere, evolvendo da un puro e semplice dominio territoriale, alimentato dalle conquiste militari, alla capacità di in uenzare le politiche degli stati vicini, no ad arrivare a potenze economiche in grado di spostare gli equilibri su scala mondiale.
Ogni incarnazione della forma impero descritta da Strathern è stata accompagnata da valori etici, politici e religiosi peculiari, di volta in volta presentati alle masse come i migliori e i più desiderabili, ma connotati anche dalla violenza e dallo sfruttamento dei popoli conquistati. Storia del mondo in dieci imperi attraversa quattro millenni di trionfi e sconfitte, dai campi di battaglia europei ai porti dell’Oriente, dalle steppe dell’Asia agli altipiani dell’America del Sud, e ripercorre la nostra storia grazie ai grandi imperi in cui si rispecchiano, nel bene e nel male, le vicende di tutta l’umanità.
L’Ottocento è il secolo dell’Europa. Il secolo in cui il Vecchio continente ha dominato il resto del mondo come mai prima e mai dopo. Il secolo di rivoluzioni e repressioni, ma anche di appassionate lotte per l’uguaglianza e per i diritti, della nascita dell’industria, di uno straordinario fermento scientifico e culturale. Il secolo che ci ha reso ciò che siamo.
Maestoso. Il diario di un secolo turbolento e confuso scritto con chiarezza e passo narrativo. I temi sociali, politici e culturali si intrecciano in un grande dipinto di straordinario fascino e dettaglio. Siamo di fronte a un esempio eccelso di storia di un continente attraverso i suoi paesi.
“The Times”
Il secolo che va dalla battaglia di Waterloo allo scoppio della Prima guerra mondiale è stato una fase decisiva per la storia del mondo. In questi cento anni l’Europa ha allargato il proprio dominio a tutto il pianeta e ha tracciato un solco al cui interno ancora ci muoviamo: dalla nascita della civiltà industriale alla volontà di controllo sulla natura, dalle lotte dei lavoratori a quelle delle donne, dalle sfide degli artisti alle accademie sino alle rivolte dei servi contro i padroni. Questo affresco affascinante ci raccontal’Europa del XIX secolo, intrecciando storia politica, economica e culturale, a partire dai rapporti di forza interni ed esterni al continente. Particolare attenzione è dedicata alla ricostruzione della dimensione umana di questa storia, per cui ogni capitolo si apre con la vita di una persona, ognuna di un paese europeo diverso.
«Verso l’inizio degli anni Trenta dell’Ottocento, lo scalpellino Jakob Walter si mise a scrivere le sue memorie. Era stato un soldato semplice nella Grande Armée dell’imperatore Napoleone Bonaparte, arrivando fino a Mosca. Dell’unica occasione in cui vide Napoleone scrive: “Osservava passare il suo esercito, che era in condizioni disastrose. Impossibile immaginare cosa provasse. Il suo aspetto esteriore sembrava indifferente riguardo al miserabile stato dei suoi soldati; solo l’ambizione poteva fare effetto sul suo cuore.”».
Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.
Nella primavera del 2011 il mondo arabo è stato investito da una serie di proteste radicali che chiedevano un reale cambiamento dei regimi politici al governo. Dopo decenni di dittature militari, di corruzione generalizzata, malversazioni, inefficienza amministrativa e sperpero delle risorse nazionali, per un breve spazio di tempo è sembrato che finalmente la democrazia stesse per affermarsi anche in Medio Oriente. Il sogno si è infranto quasi subito nella tragedia: la sanguinosissima guerra civile in Siria, i conflitti tribali e petroliferi in Libia che hanno smembrato quella parvenza di Stato che era la Jamahiriyya di Gheddafi, le guerre religiose che nella penisola arabica hanno ridotto alla fame lo Yemen. Tunisia a parte, ovunque la richiesta di democrazia è stata disattesa, ovunque i problemi economici e demografici sono rimasti irrisolti, ovunque si è preferito utilizzare la forza per affrontare le tensioni tra Stato e società civile. Ripercorrere la storia di questa stagione è fondamentale per comprenderne fino in fondo le ragioni, per analizzare le responsabilità e per prevedere le conseguenze che essa avrà anche sulla nostra parte di mondo. Una lettura indispensabile per chiunque voglia approfondire le contraddizioni e i conflitti del nostro tempo, soprattutto in un paese come l’Italia che dal legame con il mondo arabo viene direttamente coinvolto.
Spesso definiti come ‘l’epoca della espansione dell’Europa nel mondo’, i secoli della cosiddetta età moderna, dalla fine del Quattrocento alla fine dell’Ottocento, sono stati raccontati come un processo di progressiva, inarrestabile estensione del modello di civiltà europea alle altre parti del pianeta. Oggi, di fronte a rinnovati e non meno sconvolgenti processi di globalizzazione, la ricostruzione storica di quei secoli non può che farsi in maniera profondamente diversa. L’età moderna non è la marcia trionfale dell’Europa, dei suoi Stati, della sue economia, dei suoi valori, ma è il tempo di nascita dello spazio-mondo, attraverso la creazione di una serie di connessioni – politiche, economiche, culturali – che ora assumono una capillarità e una costanza di funzionamento mai possedute in precedenza. È in questi secoli che ciò che accade nei Caraibi o negli stretti delle Molucche rimbalza rapidamente a Londra o a Lisbona, ciò che a Istanbul decide il Sultano piega e spiega il Mediterraneo, così come quello che a Delhi progetta il grande imperatore Moghul si irraggia in uno spazio che va dalla Persia alle coste islamizzate dell’Africa orientale. Una storia che guarda alle connessioni non dimentica né gli spazi più tradizionali, né gli avvenimenti che vi si svolsero, comprendendo, ovviamente, in essi anche quelli dello spazio europeo. Ma le connessioni di una storia globale non seguono la geografia dei continenti e i confini delle nazioni. Li ridiscutono e li rimescolano, cercando di individuare attori e contesti che si fanno protagonisti delle differenti fasi storiche. E, sorprendentemente, questa ricerca, anche per secoli apparentemente lontani, mette allo scoperto geopolitiche che oggi ritroviamo attuali: la storia-mondo, dunque, come storia di lunga durata.
Venezia, che conserva ancor oggi un'evidente impronta bizantina, nacque bizantina nel VI secolo e tale rimase nell'alto Medioevo almeno fino al IX secolo. Poi il legame con Costantinopoli si fece via via più lento, ma all'interno di questo si scrisse la vocazione commerciale di Venezia. L'autore traccia la storia del rapporto millenario che nel corso del Medioevo ha unito la città lagunare all'impero bizantino fino alla caduta di questo, nel 1453. Dalla fondazione di Venezia sotto la pressione dell'espansione longobarda alla dipendenza da Bisanzio, all'indipendenza entro la sfera dell'impero all'aperta ostilità che condusse Venezia a partecipare, nella quarta crociata, alla conquista di Costantinopoli.
Le Storie Filippiche rappresentano uno dei perduti Graal della letteratura di Roma antica: una storia universale scritta in latino. Loro autore è un uomo di origine gallica, Pompeo Troppo: proprio mentre Tito Livio componeva la sua monumentale Storia di Roma, scelse invece di narrare ke vicende dei popoli più lontani, nel tempo e nello spazio. Al centro doveva spiccare la formidabile ascesa e caduta del regno macedone, da qui il titolo. Sfortunatamente, però, le Storie Filippiche sono andate perdute: tutto quello che ci resta è un Florilegio, composto qualche secolo dopo da un certo Giustino. La perdita è quindi parzialmente sanata? No: Giustino, pur limitandosi ad un'operazione apparentemente innocua come la selezione di brani, in realtà modifica nel profondo gli equilibri e le prospettive dell'originale. Il suo Florilegio, quindi, più che raccontarci la storia del mondo, rappresenta il biglietto di accesso a una camera delle meraviglie, in cui da ogni scaffale fa capolino qualcosa di stravagante: regine malvagie, sovrani obesi, bambini prodigio, fughe rocambolesche, passioni e enigmi.
Il mito della Sicilia tollerante sotto la dominazione araba, l’inquisizione criminale, le crociate portate dai cristiani cattivi, il Medioevo delle streghe e dei roghi: miti che fanno parte di una “leggenda nera” ormai radicata e diffusa e di cui gli stessi cattolici parlano con imbarazzo, cercando addirittura di evitare l’argomento, quasi vergognandosene. Ma l’ignoranza della storia non serve a niente, anzi, è controproducente, tanto più che molto spesso le cose non sono come ci vengono raccontate. In questo libro Rino Cammilleri racconta le cose come stanno, o come sono sempre state, al di là della vulgata dominante, nella convinzione che i cattolici di oggi abbiano bisogno di essere nuovamente istruiti, nella storia come nella fede.
Auschwitz e Hiroshima indicheranno per sempre, nella storia multimillennaria del nostro piccolo pianeta, una svolta decisiva, di cui gli storici futuri misureranno tutte le conseguenze oggi incalcolabili.
Due nomi, quelli ora fatti, del 1945, che possono essere assunti a simbolo della nostra epoca. Il primo, rivelatosi al mondo con estrema difficoltà, tra molti travestimenti, ipocrisia, indifferenza, viltà, di individui, governi, popoli, istituzioni profane e sacre, e apparsi in tutta la loro tragica luce solo col crollo della potenza nazista in Europa; il secondo, percepito nel bagliore infernale di un attimo, nei cieli del Giappone.
Ma visti nel profondo dei tempi, essi sono accomunati daila ferocia o dal la follia autodistruttiva dell'umanità. Eppure dobbiamo constatare che, nonostante tutto questo, gli uomini continuano a ridere, piangere, trastullarsi, uccidersi, come prima, come sempre" (dalla Prefazione di Alessandro Galante Garrone).
L’alloggio segreto di Anna Frank e la casa di Etty Hillesum si trovano a poca distanza l’uno dall’altra, tra i canali di Amsterdam. È qui che si incrocia la storia di due donne straordinarie, destinate ai campi di concentramento dagli occupanti tedeschi, ma decise a vivere fino in fondo il tempo che è loro concesso.Sia Anna che Etty fissano su un diario la quotidianità della propria esistenza gravata dalla barbarie nazista, ma ancor più delineano il percorso delle loro anime, affinate ogni giorno dalla prova, dal dolore, dal rischio. Scavando nel pozzo delle risorse interiori, preservano uno spazio di libertà e dignità che nessuno può rubare, neppure il più crudele delle SS.Questo libro mette a confronto i diari di Anna ed Etty, seguendo una traiettoria antologica suddivisa per temi.
Patrizi di Bellegra. Presbiteri al servizio della Curia Romana dal XVIII al XX secolo
di Davide Bracale
Il volume attraversa tre secoli di storia attraverso l’operato dei presbiteri della famiglia Patrizi che da Bellegra, feudo dell’Abbazia di Subiaco, volsero a Roma e qui, secondo una radicata tradizione familiare, prestarono servizio presso la Curia Romana.
Don Lorenzo Patrizi, archivista del Sant’Uffizio, affrontò la sottrazione di tutti i documenti della Santa Sede durante l’invasione napoleonica di Roma. I documenti furono trasportati a Parigi assieme a Pio VII, ormai prigioniero di Napoleone. Don Lorenzo, dopo la disfatta di Waterloo, fu incaricato di riformare tutto l’Archivio del Sant’Uffizio, in condizioni disastrate, con i documenti che man mano tornavano da Parigi, ritrovati sia nei palazzi nobiliari che tra i pizzicagnoli della capitale francese. Ad oggi, l’impegno di questo presbitero e dei suoi successori ha permesso che l’Archivio del Sant’Uffizio con tutta la sua storia continui ad esistere.
Don Giuseppe Patrizi, docente di diritto canonico all’Archiginnasio della Sapienza, all’epoca università papale, era il ciambellano del card. Angelo Mai, cui Leopardi intitolò il celebre canto “Ad Angelo Mai” quale ringraziamento delle sue scoperte filologiche.
Mons. Pietro Patrizi, ultimo prelato della famiglia vissuto nell’epoca dello Stato Pontificio, era avvocato della Curia Roma e officiale della Congregazione del Concilio. Dopo la breccia di Porta Pia del 1870 egli si pose in strenua difesa di Pio IX e con coraggio per dieci anni tentò di difendere il Beneficio della Madonna della Pace di Bellegra, per centocinquant’anni gestito dai Patrizi con notevoli frutti in favore dell’Abbazia di Subiaco e dell’Apostolica Sede; tuttavia egli dovette cedere alla liquidazione dell’asse ecclesiastico e arrendersi alla caduta dello Stato Pontificio.
L’ultimo esponente della famiglia al servizio della Sede Apostolica fu Mons. Nazareno Patrizi. Incardinato nella diocesi di Roma, insegnava nella scuola operaia di Testa Spaccata e l’estate partiva per le missioni nelle chiese della campagna romana. Canonico dei Ss. Celso e Giuliano ed avvocato rotale, era stato incaricato da Pio X di interessarsi alla questione della legge delle guarentigie dalla prospettiva della Sede Apostolica e secondo quanto determinava il diritto pubblico. Impiegato nel servizio diplomatico pontificio prima come segretario di ablegazione e poi quale incaricato d’affari dei vescovi argentini, da Benedetto XV fu indicato per una complessa nunziatura in America Latina. Pio XII, infine, gli conferì il titolo di Prelato Domestico, quale premio per il suo impegno pastorale e di curia. Con Mons. Nazareno Patrizi tramontò la tradizione di presbiteri della famiglia Patrizi, ma era ormai fissato nella storia il loro secolare operato.
Per la Giornata della Memoria la Domenica de Il Sole 24 ORE propone ai suoi lettori la raccolta di articoli della rubrica Giudaica scritti da Giulio Busi, un itinerario critico costruito attraverso episodi del presente e del passato che raccontano in retrospettiva un momento della storia da non dimenticare, oggi più attuale che mai, attraverso la narrazione intensa e puntuale del massimo ebraista italiano.