
Il volume propone un’attenta e articolata analisi delle posizioni che la rivista «Studium» assunse negli anni in cui Aldo Moro ne fu direttore, dal 1945 al 1948. Tale momento della vicenda politica ed intellettuale del giovane Moro, sinora poco esplorato, coincise con anni cruciali nella storia italiana, segnati dalla conclusione della guerra mondiale, dalla Costituente, dall’edificazione del nuovo Stato repubblicano. Animando un vivace dibattito tra intellettuali di grande prestigio, la rivista contribuì alla elaborazione e alla diffusione di una cultura democratica e cristiana e rappresentò un qualificato punto di riferimento anche all’interno della DC.
Il dialogo con la cultura e la modernità oggetto del presente studio fece emergere alcune tra le più originali proposte del cattolicesimo politico italiano del secondo dopoguerra.
Paolo Acanfora è dottore di ricerca in storia moderna e contemporanea. Ha svolto attività di docenza in università italiane e straniere e pubblicato numerosi studi su riviste specializzate nazionali ed internazionali. Nel 2010 è stato borsista presso la Fondazione Giulio Pastore. Attualmente collabora con l’Istituto Luigi Sturzo e con l’Accademia di Studi Storici Aldo Moro
In "11 settembre", pubblicato poco dopo la tragedia, Noam Chomsky ha analizzato gli attacchi al World Trade Center facendo piazza pulita del groviglio di opportunismo politico, patriottismo a buon mercato e conformismo che ha soffocato il dibattito negli Stati Uniti. Chomsky ha proposto una visione complessa, nella quale l'11 settembre si accompagna all'evoluzione della politica estera statunitense. Una politica spesso aggressiva: dall'America Latina al Medio Oriente, dal Pakistan all'Afghanistan. Una politica che ha risposto alla violenza con la violenza, incurante delle conseguenze. Oggi, come dieci anni fa, "11 settembre" ricorda a tutti noi che l'informazione e la trasparenza sono gli strumenti più validi per prevenire conflitti futuri. Aggiornato dopo l'assassinio di Osama Bin Laden.
"Un uomo, e un uomo da solo, portò l'Italia in guerra", disse Winston Churchill. In Mussolini e i suoi generali, John Gooch illustra da una nuova prospettiva come la catastrofe che sconvolse l'Italia nella Seconda guerra mondiale non fu causata dalla dissennatezza di un uomo, ma fu il risultato di un fallimento collettivo, maturato agli alti livelli di comando. Attingendo a documenti poco noti provenienti dagli archivi delle forze armate italiane, Gooch rivela nel dettaglio, e nella loro interezza, i piani dell'esercito, della marina e dell'aeronautica, analizzando lo stretto legame tra la politica militare fascista e gli affari esteri del regime tra il 1922 e il 1940. Esaminando contraddizioni irrisolte e bizzarre "ispirazioni" politiche, Gooch delinea un quadro unico per ricchezza di fonti e indispensabile sia per la comprensione del periodo interbellico, sia per la responsabilità delle scelte, spesso frutto di irrazionalità e incompetenza, che indubbiamente Mussolini ebbe, ma che i suoi generali in parte condivisero.
Il complesso rapporto tra la monarchia e il baronaggio ha sempre condizionato la vita politica siciliana, e da esso ne discende tutta la storia costituzionale isolana. A supporto di questa ipotesi un Appel des Siciliens del 1817 rappresenta un vero e proprio manifesto del malcontento della classe dirigente e intellettuale siciliana nei confronti della monarchia borbonica alla luce degli accordi che scaturirono dal Congresso di Vienna. La perduta individualità della Sicilia, divenuta provincia napoletana, era mal digerita dal ceto nobiliare che, attraverso l'Appel, rivendicava le antiche origini della storia costituzionale isolana, risalenti al XII secolo allorché i baroni sedevano già in parlamento. Da questo incipit costituzionale bisogna, dunque, partire per spiegare le vicissitudini politiche, istituzionali e sociali dell'isola. Il tratto saliente che contraddistingue l'intera ipotesi interpretativa del documento preso in esame è che la classe baronale ha rappresentato l'elemento insostituibile della politica isolana, nonostante i continui cambiamenti di corona avvicendatisi nel corso dei secoli.
Quali linee hanno caratterizzato il dibattito degli studi di storia antica dall'età neoclassica alle guerre mondiali? Quale posto hanno occupato grandi storici antichi come Tucidide e Tacito, biografi come Plutarco e Svetonio, nell'Italia e nell'Europa tra Ottocento e Novecento? Sono questi alcuni dei temi di uno dei saggi di Piero Treves, storico del mondo greco-romano e della cultura classica in Italia, qui riproposti.
È successo l'impensabile. L'esercito francese è stato spazzato via dalla "guerra lampo" e i nazisti hanno occupato Parigi. Una città vivace e spregiudicata, porto sicuro per chi fuggiva dalla Germania di Hitler, piomba in un incubo. È un momento cruciale per la cultura europea: come reagire a questa tragica situazione? Dan Franck racconta come in un grande film l'epopea degli scrittori, degli artisti, dei filosofi, degli uomini di spettacolo che hanno vissuto in Francia dal 1940 alla Liberazione. È un cast straordinario. Prima di tutto gli esuli e i fuggiaschi, come gli ebrei Walter Benjamin e Franz Werfel, diretti verso il Sud alla disperata ricerca della salvezza. Poi Jean-Paul Sartre, che inventa al Café de Flore l'esistenzialismo; accanto a lui Simone de Beauvoir, una delle più grandi figure del pensiero femminile di tutti i tempi. Poi Albert Camus, prima amico e poi rivale di Sartre; André Malraux e la bella Josette Clotis, che morirà sotto un treno; l'aviatore Antoine de Saint-Exupéry, autore del "Piccolo principe", il cui aereo scomparirà in una missione di guerra. E ancora Louis Aragon, Pablo Picasso, André Breton, Marguerite Duras, Jean Prévost (che muore da partigiano), Robert Desnos, Jean Gabin e Jean Renoir, Samuel Beckett e Marc Bloch... C'è anche chi segue Hitler fino all'ultimo, come Celine o Drieu La Rochelle, che si suicida alla Liberazione. Tra i partigiani e i nazisti, la "zona grigia": compreso Jean Cocteau, che cerca di salvare dal carcere Jean Genet...
Le raffigurazioni del giglio e della spada rappresentano i simboli dei due poteri attribuiti alla sovranità: quello di punire e quello di perdonare. La grazia, il potere di condonare in tutto o in parte una pena, è, nei lunghi secoli dell'età moderna, uno dei segni distintivi della sovranità. Il potere di grazia non si esaurisce però con la fine dell'antico regime ma permane, in modi e in forme diversi, anche all'interno di molti ordinamenti costituzionali e giuridici dell'Europa contemporanea. I saggi contenuti in questo volume si propongono come una riflessione storica, giuridica, teologica e politica, sui temi del perdono, della grazia, della giustizia, partendo dall'oggi per risalire alle radici. Muovendo dai problemi generali e dai lessici, si passa a indagare le modalità di conseguimento del perdono e della grazia, le procedure, i linguaggi, i rituali, i protagonisti e i mediatori. Alla concessione della grazia sono connessi anche processi di contrattazione. La richiesta di grazia, in tal modo, costituisce una modalità di azione della quale possono usufruire le comunità, le famiglie, i singoli imputati. Da ultimo sono affrontati i problemi della riconciliazione e del perdono in chiave più propriamente politica, nell'Italia dal secondo dopoguerra a oggi.
"Per Winckelmann la classicità comporta un'assenza di psicologia. Tutta la sua teoria, che sarà troppo a lungo accusata di freddezza, tende a vedere nell'arte non l'espressione dell'individuo, ma la ricerca dell'assoluto. L'arte aspira all'ideale, e l'ideale è l'oggettività dal punto di vista dell'eterno. Quella di Winckelmann non è un'arte senza vita, come sosterranno i romantici, ma un'arte senza artisti. [...] Ad una storia dell'arte come catena di biografie, quale era stata condotta da Plinio a Vasari, Winckelmann sostituisce per la prima volta una storia dell'arte come sequenza di opere. E le opere sono indizi non tanto della personalità del loro autore, quanto del mistero senza nome della bellezza, e come indizi vanno considerate. Nasce di qui l'attenzione implacabile ai particolari, la necessità di una visione diretta. L'occhio di Winckelmann è quello del cartografo, che non si chiede chi ha creato le montagne o le acque, ma ne indaga le apparenze, le manifestazioni. All'arte come intimismo, come diario privato dell'artista oppone l'arte come suprema impersonalità. Perché è solo oltrepassando la propria soggettività che ci si avvicina al divino. Allo stesso modo, anche osservare l'opera significa eludere se stessi. Dunque non si tratta di sentirsi rappresentati, ma al contrario di liberarsi di sé: vivere qualche attimo tra Delo e i boschi sacri della Licia, nel sollievo di un pensiero universale". (Dalla postfazione di Elena Pontiggia)