
È il 10 gennaio del 49 a.C.: il proconsole Caio Giulio Cesare attraversa un piccolo corso d'acqua che segna il confine tra il territorio romano e le Gallie, confine che nessuno può varcare in armi senza essere considerato nemico dell'Urbe. Si mette così in moto una catena di eventi che porterà cinque anni dopo alla morte del proconsole, divenuto nel frattempo l'uomo più potente del mondo. Dopo aver scatenato la guerra civile varcando il Rubicone, Cesare riuscirà a distruggere un sistema di governo vecchio di oltre cinquecento anni: un instabile compromesso tra l'avversione dei romani per le forme politiche che attribuivano tutto il potere a un uomo solo e un modello democratico che tenesse conto della competitività tra i cittadini.
Un papa in fuga, un ministro ucciso, una rivoluzione. Dopo secoli di anonimato, tra il 1846, anno dell'elezione di Pio IX, e l'estate del 1849, quando le truppe francesi vinsero la resistenza dei volontari repubblicani, Roma tornò a essere il gran teatro del mondo. Un palcoscenico su cui recitavano, oltre al papa, eroi risorgimentali come Mameli, Mazzini e Garibaldi, oltre a una nutrita schiera di comprimari, tra cui Farini, Bixio e Rosmini. Nei pochi mesi di vita della Repubblica, Roma conobbe un periodo di disciplinato fermento tra i rocamboleschi anni precedenti e la confusione che contribuì alla sua caduta. Rimasta senza papa - una realtà quasi impensabile gettò per la prima volta le basi di istituzioni laiche, emancipate dal potere temporale della Chiesa. L'autore interroga i documenti per ricostruire l'ascesa e il declino del sogno repubblicano, scavando negli stati d'animo dei protagonisti, nei loro dilemmi, nelle loro scelte e nella quotidianità di un popolo reattivo alle tensioni del proprio tempo.
Un secolo e mezzo prima che Occupy riempisse le strade e le piazze del mondo, la città moderna era già fucina di idee rivoluzionarie, e fu dallo spazio urbano che soffiarono i primi venti del cambiamento sociale e politico. Da sempre le città sono teatri che mettono in scena il pensiero utopico, ma anche centri di accumulazione capitalistica, e quindi spazi di conflitto contro quei pochi che, controllando l'accesso alle risorse comuni, determinano la qualità della vita di molti. L'urbanizzazione ha giocato un ruolo primario nell'assorbimento del surplus di capitale, alimentando processi di "distruzione creatrice" che hanno sottratto alle masse il diritto di costruire e ricostruire le proprie città. Questo conflitto latente è esploso periodicamente in grandi rivolte popolari, come nella Comune di Parigi del 1871, a seguito della riconfigurazione urbanistica voluta da Napoleone III e realizzata da Haussmann, quando i cittadini espropriati si sollevarono per imporre il governo rivoluzionario sulla capitale. O come nel 1968, con i grandi movimenti sociali urbani che agitarono Chicago e Berlino, Praga e Città del Messico, o ancora, nell'estate 2011, con i riots che hanno bruciato le periferie di Londra e con l'ondata di indignazione contro il potere finanziario che ha scosso America ed Europa. "Città ribelli" ripercorre la storia delle città come centri propulsori della lotta di classe e dei movimenti di riappropriazione dei diritti collettivi.
Creare artificialmente la vita - un'utopia che ha sempre alimentato l'immaginazione umana - è divenuta una concreta realtà a partire dal Settecento, quando la scienza ha cominciato a investigare il meccanismo della generazione. In questo libro Emmanuel Betta ricostruisce la storia della riproduzione artificiale dell'uomo, dai primi esperimenti dell'abate Spallanzani alla messa a punto di soluzioni efficaci tra Otto e Novecento, fino agli sviluppi più recenti dell'ingegneria genetica, con particolare attenzione alla realtà italiana che ha avuto un ruolo importante in questa vicenda.
C'è stato un tempo in cui statisti illustri - quali Churchill e De Gasperi - e intellettuali di primissimo piano - quali Croce, Arendt, Bobbio, Thomas Mann, Kojève, Laski - hanno guardato con rispetto, simpatia e persino con ammirazione a Stalin e al paese da lui guidato. Con lo scoppio della Guerra fredda prima e soprattutto col Rapporto Chruscev poi, Stalin diviene invece un "mostro", paragonabile forse solo a Hitler. Darebbe prova di sprovvedutezza chi volesse individuare in questa svolta il momento della rivelazione definitiva e ultima dell'identità del leader sovietico, sorvolando disinvoltamente sui conflitti e gli interessi alle origini della svolta. Il contrasto radicale tra le diverse immagini di Stalin dovrebbe spingere lo storico non già ad assolutizzarne una, bensì a problematizzarle tutte. Ed è quanto fa Losurdo in questo volume, analizzando le tragedie del Novecento con una comparatistica a tutto campo e decostruendo e contestualizzando molte delle accuse mosse a Stalin. Con un saggio di Luciano Canfora.
Il volume racconta la storia dell’omosessualità nell’Occidente cristiano dalla tarda antichità al Settecento. Utilizzando quale punto di osservazione le fonti criminali, vi si ricostruisce una storia sociale e culturale delle trasgressioni sessuali e di genere, incentrandosi, al di là del mondo delle élites, sulla vita e l’esperienza quotidiana di donne e uomini comuni. Questa narrazione si intreccia con gli sviluppi del controllo istituzionale e i suoi rapporti di conflitto e mediazione con una base sociale non sempre docile ad accoglierne i dettami. Alla luce del percorso di ricerca dell’autore e dell’apporto di nuove correnti storiografiche, come la storia delle emozioni, il libro focalizza alcuni snodi critici del dibattito storiografico, sui quali propone di gettare una nuova luce. Ne risulta ridimensionato il ruolo giocato dai rapporti pederastici nelle manifestazioni dell’omosessualità premoderna; omosessualità maschile e femminile sono presentate in una narrazione intrecciata; il tema del desiderio è letto nelle sue complesse relazioni con l’infrazione delle norme di genere; infine, la dimensione globale e i rapporti con le culture extraeuropee giocano un ruolo centrale nella ricostruzione storica. Tutto questo in una prosa piana e leggibile, che mira a rendere l’opera fruibile anche per un lettore non specialistico.
Patrimonio d'arte, di storia e di cultura, Venezia è una città il cui splendore è l'espressione di un grande passato. Alvise Zorzi interpreta il destino del "piccolo popolo" di pescatori, tessitori e marinai che cercarono sulle isole anfibie un luogo di sopravvivenza e seppero poi trasformare un territorio di sabbie e canneti in una sfavillante città di palazzi, chiese, teatri e piazze. E il ritratto che delinea della sua città, a partire dal 25 marzo 421, data leggendaria della fondazione, fino al 17 ottobre 1797, giorno in cui il trattato di Campoformio sancì la fine della Serenissima, è un documento in cui si rintracciano i fatti noti o sconosciuti, i trionfi, le sconfitte, l'apoteosi e la decandenza.
Teatri anatomici stipati di studenti e curiosi, il tavolo operatorio incrostato del sangue di interventi passati, il lezzo inconfondibile di carne putrefatta: nel XIX secolo assistere a un'operazione chirurgica non era cosa per deboli di stomaco. "L'arte del macello" rievoca un periodo della storia della medicina in cui anche una ferita lieve poteva portare a una morte orribile. I chirurghi, elogiati per la forza bruta e la velocità di esecuzione, raramente si lavavano le mani, il camice o ripulivano gli strumenti. Ancor più delle patologie dei pazienti, a essere mortali erano le infezioni postoperatorie, che i medici non sapevano sconfiggere. In un tempo in cui la chirurgia non avrebbe potuto essere più pericolosa, un giovane chirurgo quacchero di nome Joseph Lister osò sfidare i contemporanei affermando che i germi erano la causa di ogni infezione e che potevano essere trattati con un antisettico. E così facendo cambiò per sempre la storia della medicina, portandoci dritti nel mondo moderno.
Apparso a Parigi nel 1935, questo libro è stato tra i primi che abbia detto alcune essenziali verità su Stalin. E le ha dette così presto, e con tale nettezza, che la sua presenza ha accompagnato come un'ombra gli ultimi vent'anni di vita del capo sovietico. Le ha dette, inoltre, per bocca di uno storico che era stato segretario della Terza Internazionale, uno dei fondatori del Partito Comunista Francese e infine amico e compagno di Simone Weil nelle lotte del sindacalismo rivoluzionario in Francia.
Meno di cento chilometri in linea d'aria separavano le colline del Kent dalle Fiandre, e i corni della caccia alla volpe avevano un suono sinistro, contro il rombo dei bombardamenti a tappeto intorno a Ypres, o sulla Somme. Durante un attacco dell'artiglieria tedesca, il 20 luglio 1916, Robert Graves fu ferito così gravemente da comparire, in un primo momento, sulla lista dei caduti con onore, beninteso che il "Times" pubblicava ogni giorno. In realtà Graves tornò su un treno ospedale alla stazione di Wimbledon, e qualche tempo dopo si riprese dalle ferite, per quanto atroci: ma la notte sentiva esplodere granate intorno al letto, scambiava i passanti per amici perduti al fronte, e se sentiva partire una macchina, o sbattere una porta, si gettava a terra. E così, a poco a poco, quei cento chilometri scarsi fra il tè del pomeriggio e i cadaveri lasciati a decomporsi nella terra di nessuno diventarono, per Graves come per gli altri scampati al massacro, un abisso capace di inghiottire per sempre, in un orrore senza nome, il mondo di ieri. Che nel 1929, prima di lasciare un'Inghilterra in cui non avrebbe potuto più vivere, Graves ricostruì per un'ultima volta in questo libro il più nitido, struggente e indimenticabile atto di commiato che le trincee d'Europa abbiano costretto un poeta a scrivere. Con una nota di Ottavio Fatica.

