
"In che modo, e a quali patti, le riflessioni di Antonio Gramsci sul processo storico di costituzione dello Stato italiano possono ancora essere lette e studiale come un libro di storia utile al nostro presente? Com'è possibile che un insieme di note sparse e disegnali, scritte ottantanni fa dalla cella di una prigione fascista da parte di un dirigente politico comunista, rappresentino tuttora uno dei contributi più vivi e originali al discorso pubblico sul nostro Risorgimento?"
Marc Cooper viveva in Cile all'epoca del golpe militare che ha sovvertito il governo di Salvador Allende, per il quale lavorava come traduttore. A venticinque anni dagli avvenimenti che lo hanno costretto alla fuga, Cooper torna in Cile, descrive un paese che è solo in apparenza democratico, osserva con uno sguardo memore del passato una società che ha subito fortissimi traumi, ancora non rimarginati. "Io e Pinochet" racconta i momenti decisivi del governo di Allende, il terrore del golpe, la delusione di una pseudodemocrazia fino all'arresto di Pinochet.
Il libro è un oggetto amato ma ambivalente: il risultato che produce è soggetto talvolta al caso, spesso alla stoltezza dell'uomo che lo maneggia.
Sapienti di tutte le epoche si sono (insospettabilmente) espressi contro il libro e contro il lettore e hanno manifestato la propria frustrazione per l'eventuale e irrimediabile fraintendimento dei contenuti (per non parlare dell'affidabilità degli storici!).
Questo volume, dissacrante e francamente spassoso, ripercorre con leggerezza la storia della trasmissione scritta della conoscenza, affiancando nozioni filologicamente impeccabili riflessioni facete e curiosità poco note. Per esempio, sapevate che gli scribi egizi ("quel popolo dal girovita così sottile") usavano un inchiostro apposito per le parolacce? Il testo, accompagnato dalle illustrazioni di Marco De Angelis, piacerà senz'altro tutti i bibliofili, gli scrittori per professione e per diletto, gli insegnanti e i comuni lettori forti.
Settembre 1945. Berlino porta su di sé le ferite di una rovinosa guerra perduta. Il fitto mistero avvolge le circostanze della scomparsa di Hitler, che secondo alcuni sarebbe ancora in vita. A far chiudere sugli ultimi drammatici giorni è chiamato Hugh Trevor-Roper, funzionario dei servizi segreti. Egli raccoglie deposizioni e memorie dei protagonisti e dei testimoni sopravvissuti ricostruendo il crollo dell'impero tedesco. Minuto per minuto nel Bunker della Cancelleria di Berlino, in un crescendo di follie e di irrealtà, rivivono gli ultimi desideri del potere, gli atti di rivalsa, i tradimenti di Goring, Goebbels, Speer e Borman.
Nella primavera del 1961 Hannah Arendt viene inviata dal settimanale «New Yorker» a seguire il processo ad Adolf Eichmann, il gerarca nazista rifugiato nel 1945 in Argentina, rapito dal Mossad nel 1960, processato per genocidio l'anno successivo e condannato a morte per impiccagione nel 1962. In quella circostanza Arendt diviene amica di Leni Yahil, storica di origine tedesca e studiosa della Shoah. Inizia così una corrispondenza che alterna questioni personali, filosofiche e politiche. Nel 1963, dopo la pubblicazione degli articoli sul processo Eichmann, riuniti poi nel volume «La banalità del male», il rapporto tra le due donne si interrompe bruscamente. Nella più controversa delle sue opere, Arendt sostiene che il male perpetrato da Eichmann sia da attribuire a una completa inconsapevolezza sul significato delle proprie azioni e solleva il tema della responsabilità dei capi delle comunità ebraiche nell'aver agevolato la politica di sterminio nazista. Il tentativo di Yahil di far rivivere la corrispondenza con Hannah Arendt otto anni più tardi è destinato a fallire. L'amicizia tra le due donne non riesce a reggere la polemica suscitata dal processo e dal libro.
Un "divertissement", un guizzo anarchico dell'intelligenza. È così che si possono definire queste pagine nelle quali Cipolla abbandona gli austeri panni dello studioso e, giocando sul filo del paradosso e dell'assurdo, costruisce due brevi saggi: il primo, una ilare parodia della storia economica e sociale del Medioevo; il secondo, una sorta di scherzosa teoria generale della stupidità umana.
Strasburgo, 10 agosto 1944. All'Hotel Maison Rouge si danno convegno, all'insaputa di Hitler, i vertici politici, industriali e finanziari della Germania nazista con l'obiettivo di mettere a punto le strategie per salvare uomini e capitali prima della disfatta ormai certa. Da qui l'autore muove l'indagine nelle pieghe più oscure degli ultimi cinquant'anni. Un viaggio che ripercorre le fughe rocambolesche in Sud America di criminali nazisti del calibro di Mengele e Eichmann (e forse dello stesso Hitler); che ricostruisce la trama di connivenze che hanno indotto i russi e gli americani a riciclare l'imponente apparato spionistico del Reich; che indaga sulle complicità di capi di stato come Stroessner e Peron (la cui moglie Evita era probabilmente una spia tedesca); e che approda all'oggi, al sottobosco intricato dei movimenti neonazisti. Attraverso una smisurata mole di documenti e dati e dando voce ai sopravvissuti e ai loro discendenti, Dolcetta compone le tessere di un mosaico inquietante, dove i "vecchi signori" hanno nutrito nuove generazioni di adepti, aggrappati a un credo mai morto, oggi più vitale e minaccioso che mai.