
Per molti anni visse in esilio a Roma un importante sovrano afghano, Amanullah, che aveva combattuto vittoriosamente contro i Britannici nel 1919 e che aveva cercato di avviare un coraggioso programma di riforme politiche e sociali per il proprio popolo. Fra il 1929 e gli anni della seconda guerra mondiale Roma divenne il luogo da cui Amanullah cercò di orchestrare svariati intrighi e macchinazioni per riconquistare il trono perduto. Questo libro, fondato su documentazione diplomatica in gran parte inedita, da una parte è un tentativo di comprendere come i diplomatici italiani di stanza a Kabul, fra i quali spicca Pietro Quaroni, percepissero e interpretassero la società afghana e i suoi problemi; dall'altra è una ricostruzione delle relazioni italo-afghane all'interno del quadro generale della politica italiana verso il Medio Oriente e l'Asia centrale negli anni fra le due guerre mondiali.
Il 23 ottobre del 1965, 450 soldati americani del primo battaglione del 7° Cavalleggeri vengono trasportati con gli elicotteri in un piccolo spiazzo nelle valli di Ya Drang. Sono immediatamente circondati da 2000 militari nordvietnamiti. Tre giorni dopo, a poco più di due miglia di distanza, il battaglione che avrebbe potuto giungere in loro soccorso viene letteralmente fatto a pezzi. Il luogotenente Hal Moore ha un solo ordine: resistere. E un solo obiettivo: mantenere la promessa di riportare a casa tutti i suoi uomini, vivi o morti.
Per noi europei comprendere la religiosità degli Stati Uniti - nazione "sotto la guida di Dio" tanto quanto Stato laico aperto a molteplici religioni - è spesso tutt'altro che facile. Laurence Moore ci viene in aiuto con un'analisi del persistente intreccio tra religione e modelli politico-culturali nella società americana dai tempi dei Padri fondatori al presidente Bush. Lo studio esamina le modalità con cui il principio costituzionale della separazione tra Stato e chiesa, l'assenza di un'istituzione religiosa ufficiale e il fluttuante confine tra sacro e profano hanno plasmato la religiosità americana facendo degli Stati Uniti un caso unico tra le democrazie occidentali.
L'Europa non è nata nel primo millennio dell'era cristiana, come di solito si crede, ma nel secondo. Gli europei hanno accarezzato l'idea di essere eredi delle civiltà classiche del mondo mediterraneo e pensato che la loro fosse il prodotto della fusione della cultura umanistica di Grecia e Roma, con le intuizioni spirituali e le forze morali della tradizione religiosa giudaico-cristiana. Quest'idea è un prodotto dell'XI e XII secolo, quando l'Europa nord-occidentale conquistò per la prima volta una centralità continentale. Tuttavia, dal blocco di materiali sociali, istituzionali e intellettuali che l'eredità greco-romana fornì all'Europa, la civiltà di quei secoli prese solo ciò che gli interessava per la propria costruzione.
Siamo ormai a tre generazioni di distanza dalla guerra partigiana del 1943-45, e certi eventi di quegli anni hanno perso in parte la loro carica emozionale. In questi decenni è stato compiuto (e ancora si compie) un imprescindibile lavoro di ricerca storica, che ha documentato con cura le battaglie e le vite dei protagonisti di allora, e ha analizzato nel dettaglio gli elenchi degli assassinati e dei torturati, e l'orribile computo dei drammi umani, spesso descritto con linguaggio asettico nei documenti della burocrazia. Oggi è importante che, per non dimenticare, si levi su quelle vicende anche una voce autoriale, in grado di legare i fatti storici in un filo narrativo coinvolgente e cristallino. È ciò che fa Caroline Moorehead in questo libro, un'opera completa, capace di ricreare l'atmosfera di paura e di dolore, ma anche in grado di rendere la spinta ideale provata da molte donne coraggiose, determinate ad agire e rischiare per il bene della loro comunità. Pagina dopo pagina, leggiamo senza fiato la storia delle quattro protagoniste - Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra, Frida Malan e Silvia Pons -, partigiane emblematiche di un intero movimento di donne altruiste, forti e motivate, che animarono azioni di ribellione collettiva, sfidando la guerra, la paura e i pregiudizi. In questo racconto, attento e delicato, troviamo testimonianze che riescono a commuovere e a ispirare, e restano impresse a lungo, grazie alla penna felice dell'autrice. Attraverso lo sguardo e l'esempio di queste protagoniste in lotta contro il nazifascismo, "La casa in montagna" ci restituisce una memoria unica, che oggi troppi vorrebbero dimenticare.
Sugli attentati orditi contro Hitler esistono altri libri, da quello di Indro Montanelli, apparso nel 1949, a quello di Guido Knopp, pubblicato nel 2004. Ma quello di Roger Moorhouse presenta molte caratteristiche originali. È anzitutto una storia del nazismo e del suo leader, scandita dalle bombe, dai pugnali, dai colpi di pistola e dai minuziosi o fantasiosi complotti con cui un pugno di uomini e di donne cercarono di eliminare lo "spirito del male". È in secondo luogo un ritratto biografico del "bersaglio" e delle sue ossessioni. Pochi uomini furono così dominati dal sentimento del pericolo e dalla necessità di innalzare intorno alla propria persona un baluardo di protezione. Ma pochi furono altrettanto convinti della propria invulnerabilità. Fra gli uomini pubblici del suo tempo, Hitler fu uno dei primi che si servì per i suoi spostamenti di vetture blindate, di aerei gelosamente sorvegliati sino al momento della partenza, e di corpi speciali, composti da fedeli pronti a sacrificarsi per la sua sicurezza. Ma Hitler preferiva le vetture scoperte e dava prova, in molte circostanze, di una irresponsabile audacia. In terzo luogo il libro di Moorhouse è un saggio sulla razionalità e sulla follia dell'assassinio politico. Dallo svizzero Maurice Bavaud, "sicario di Dio", a Claus von Stauffenberg, ufficiale della Wehrmacht e gentiluomo prussiano, "Uccidere Hitler" è una galleria di "assassini" animati da motivazioni diverse.
Settembre 1978. Il "Corriere della Sera" pubblica in prima pagina la lettera anonima di un cinquantenne che minaccia il suicidio perché la sua giovane amante, dopo anni di vita clandestina, ha deciso di lasciarlo per un matrimonio regolare. Per l'Italia di allora è una bomba: il privato per la prima volta irrompe sulla scena pubblica. Le tirature schizzano, il "Corriere" è bombardato di critiche, ma anche di consensi. Il "caso" dell'amore in prima pagina è il segno che il paese sta cambiando: dopo un anno tragico, gli italiani che sognavano la rivoluzione si accontentano di essere felici o, più modestamente, di divertirsi, di andare a ballare la sera. Il consumismo, nemico giurato del '68, sta per stravincere la partita. Nella tradizione del giornalismo investigativo di razza, e attraverso decine di testimonianze di giornalisti, intellettuali e artisti, Paolo Morando racconta un'epoca, rievoca storie e protagonisti, svela intrecci e retroscena mai venuti alla luce. E dimostra, documenti inediti alla mano, come la felice intuizione del "Corriere", allora già inquinato dalla P2, sia stata tutt'altro che casuale.
Una piccola storia ignobile della giustizia italiana, subito cancellata e rimossa. La prova generale della strategia della tensione. A cinquant’anni dai fatti, un libro-inchiesta, degno erede dei lavori di Corrado Stajano e di Camilla Cederna, rivela le verità nascoste di uno dei momenti chiave della storia repubblicana.
Milano, 25 aprile 1969: due ordigni scoppiano alla Fiera campionaria e all’Ufficio cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni della Stazione centrale, provocando una ventina di feriti. È il primo atto della campagna di attentati che pochi mesi dopo porterà a Piazza Fontana. L’Ufficio politico della questura, fin dalle prime ore, punta verso gli anarchici. A condurre le indagini sono il commissario Luigi Calabresi e i suoi uomini, gli stessi che si troveranno nel suo ufficio la notte della morte di Giuseppe Pinelli, nome che nell’inchiesta spunterà di continuo, come quello di Pietro Valpreda, che già qui si profila come futuro capro espiatorio. Nel giro di pochi giorni vengono arrestati tre giovani (e altrettanti nelle settimane successive) e una coppia di noti anarchici milanesi, amici dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, che pure verrà rinviato a giudizio assieme alla moglie. Due anni dopo, con un colpo di scena dietro l’altro, il processo chiarirà le dimensioni della macchinazione anti-anarchica innescata da quegli attentati. Una vicenda determinante per comprendere fino in fondo i misteri di Piazza Fontana. Un racconto serrato di una pagina nera per la giustizia italiana, da allora totalmente rimossa dalla memoria, che assume nuova luce grazie alla scoperta di documenti fin qui inediti.
Tenente dell'esercito del Regno, capo partigiano in Val d'Ossola, braccio destro all'Eni di Enrico Mattei, di cui divenne successore. E poi la scalata a Montedison. Fino al colpo di scena del 1977: le dimissioni da presidente del colosso chimico e l'espatrio in Svizzera, con un immenso patrimonio personale. Un improvviso abbandono della scena pubblica di cui era stato a lungo uno dei principali protagonisti. In mezzo, una miriade di polemiche giornalistiche, scandali e inchieste, da cui uscì miracolosamente indenne. Una coltre di sospetti alimentati dalla sua leggendaria riservatezza: le sue interviste si contano sulle dita di una mano, rarissime le foto, inesistenti i filmati in cui compare. La leggenda nera, che da sempre lo avvolge, dopo la sua morte nel 2004 si è arricchita a dismisura, con Cefis messo in correlazione con le morti di Mattei, del giornalista Mauro De Mauro e di Pier Paolo Pasolini che, nell'incompiuto Petrolio, scriveva proprio di lui. E poi la P2, di cui è stato indicato come il fondatore. Questo libro, grazie a una documentazione inedita (compreso un clamoroso retroscena sulla morte di Mattei), è un profilo autentico e senza sconti. Perché raccontare Eugenio Cefis oggi, nel 2021 in cui ricorre il centenario della sua nascita, significa raccontare l'Italia come mai è stato fatto prima.
È una storia lunga duecento anni quella dell'ordine templare: inizia nel XII secolo all'indomani della prima crociata, quando nasce l'Oriente latino e si comincia ad avvertire l'esigenza di proteggere i pellegrini lungo gli itinerari della fede. In pochi decenni una piccola comunità di devoti cavalieri diviene un ordine monastico-militare capace di presidiare la Terrasanta e di ramificarsi in Europa attraverso una capillare rete di commende. La sua gloria, sempre più invisa, scema mentre l'Oriente latino perde pezzi fino a scomparire; all'inizio del XIV secolo i templari sono vittime collaterali dello scontro fra papa Clemente V e il re di Francia Filippo IV. Con la soppressione dell'ordine nel 1312 e il rogo dell'ultimo maestro due anni più tardi, al termine di una stagione di processi e accuse infamanti, si conclude la storia dei templari e inizia la saga del templarismo.
La costruzione di un'elite dirigente, i Giustizieri, e l'analisi delle competenze dell'istituto di giustizierato, addetto al controllo delle periferie e delle province del Regno in età angioina, costituiscono il grande tema delle biografie di un gruppo di ufficiali dalle caratteristiche piuttosto omogenee. Scelte, modalità d'impiego e comportamenti di questo personale amministrativo sono analizzati negli aspetti storiografici e geografici. La lunga durata di questa istituzione nelle relazioni economico-politiche con i paesi dell'area mediterranea propone nel libro interpretazioni innovative sul mantenimento del potere. Una complessa ricerca che illumina percorsi difficili della storia.