
Il contesto generale del discorso di Dalarun è costituito dal medioevo occidentale. A partire da tale contesto si propone la domanda capitale: come e perché governare diviene sinonimo di servire. Alcuni prelievi circoscritti da un ciclo di lezioni di Michel Foucault, pubblicato postumo nel 2004, suggeriscono l'andamento di questo libro. Si tratta in particolare della distinzione tra sovranità e governo. Sovranità infatti implica dominio. Governo comporta un'arte di governare gli uomini che li avvolge e li coinvolge ma non li domina. Ed è qui che Dalarun coglie un'analogia con le elaborazioni che l'idea e la pratica di governo avevano conosciuto nell'ambito degli Ordini religiosi medievali. È un libro prezioso, prezioso perché offre un esempio spinto all'estremo di scomposizione di alcuni testi medievali per darne una lettura e un'interpretazione le più fondate ed esaurienti possibili (e che si tratti di testi in fondo "minori" - alcuni passi riguardanti la vita di Chiara, il biglietto di Francesco a frate Leone - accentua la preziosità dell'impresa). È un libro infine fitto di pagine illuminanti ma anche non privo di affermazioni che non mancheranno di suscitare discussioni.
Hag 'Amin al-Husayni fu l'assoluto protagonista della nascita del moderno fondamentalismo islamico e della lotta armata ('intifadah) contro gli ebrei condotta oggi da numerose organizzazioni terroristiche islamiche. Personalità insieme affascinante e spaventosa, oratore incendiario, rampollo di una delle più notabili famiglie arabe della Palestina (ma dal curioso aspetto "occidentale": aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri), al-Husayni fu un visionario crudele che in nome del nazionalismo arabo e dell'antisemitismo strinse un'alleanza tattica con il nazismo in forza della quale 100.000 musulmani combatterono come volontari nelle divisioni tedesche. Tra i più accesi sostenitori della Soluzione Finale, si macchiò direttamente di atti feroci quale il sabotaggio dei negoziati tra i nazisti e gli Alleati per la liberazione di prigionieri tedeschi in cambio della fuga verso la Palestina di 4000 bambini ebrei destinati alle camere a gas. Dopo la guerra, scampato a Norimberga, al-Husayni si divise tra l'Egitto, dove rinsaldò i rapporti con il fondatore dei Fratelli musulmani, e Beirut, dove prese sotto la propria ala protettrice un giovane che diventerà uno dei protagonisti della politica mediorientale: Yäsir 'Arafat. Sulla base di una documentazione vasta e rigorosa e di numerosi documenti inediti, Dahn e Rothmann offrono il ritratto definitivo del "Führer del mondo arabo", e forniscono un importante contributo alla comprensione del fondamentalismo islamico.
La sera del 31 ottobre 1926 a Bologna, nel pieno delle celebrazioni della rivoluzione fascista, venne sparato a Mussolini. Un ragazzo, identificato come l'attentatore, viene massacrato: è Anteo Zamboni, terzogenito sedicenne di un tipografo già anarchico e ora fascista e amico del leader del fascismo bolognese Leandro Arpinati. L'attentato fa scattare la reazione dei fascisti da strada e fornisce l'esca per la promulgazione delle leggi eccezionali che sanciscono l'instaurazione della dittatura. Ma Anteo è un tirannicida, una pedina di un gioco più grande di lui, o addirittura la vittima casuale di una violenza di piazza? Il volume racconta le molte e contradditorie facce di questo ennesimo mistero italiano.
Trentacinque brevi colloqui immaginati con gli affetti di quattro generazioni. Un album-romanzo sfogliato partendo da un oggetto, un luogo, una frase, un episodio, una foto, un ricordo. Per render conto di come una famiglia ha affrontato la sua pubblica storia, così che anche questa possa essere riletta con qualche sfumatura in più. E per raccontare come, grazie e dentro a questa fitta rete di affetti, alcuni valori di fondo si sono trasmessi attraverso gli sconvolgimenti sociali e politici di un secolo intero. Dalle generazioni dell'ultimo Ottocento fino a quelle del Duemila. Da chi conobbe entrambe le guerre a chi venne educato sotto il fascismo e scelse la Resistenza. Da chi divenne adulto con il Sessantotto a chi fece la prima comunione il giorno dopo l'assassinio di Falcone. Perché, pur nei grandi cambiamenti e al di là dei conflitti tra padri e figli, alla fine la famiglia trasmette i suoi valori e fa scegliere come camminare con gli altri. E insegna a stare in quella che con troppa deferenza chiamiamo la storia.
Le moderne dittature del XX secolo hanno dato grande impulso a nuove forme di comunicazione politica, che prevedevano il coinvolgimento delle masse, divenute, dopo la Prima guerra mondiale, un problema, ma anche un'opportunità per allestire nuove forme di governo che facessero appello a parole d'ordine forti e suggestive. Le dittature si sono servite di tutti gli strumenti disponibili e hanno attinto in particolare a quelli più moderni: il cinema e la radio. Si conoscono poco i precisi meccanismi filmici e registici di così forte impatto emotivo ancora oggi. La monografia offre nuove chiavi di analisi del rapporto fra politica delle immagini e dittatura, prendendo in esame i cinegiornali e le modalità con le quali questo strumento comunicativo ha proposto al pubblico la figura del dittatore. L'autrice ha esaminato fotogramma per fotogramma centinaia di cinegiornali italiani e tedeschi, dopo avere selezionato alcune fasi temporali delimitate particolarmente significative: la fase di ascesa dei due regimi, quella del consolidamento totalitario e il primo triennio della guerra.
Tre generazioni di una antica famiglia veneta, poi trasferitasi a Roma, hanno a diverso titolo lavorato al servizio della Santa Sede, potendo così avere rapporti di vicinanza, talora di familiarità, con otto pontefici. Il libro narra da una prospettiva inusuale tali rapporti, dando modo di arricchire la conoscenza dei diversi Papi anche in aspetti meno conosciuti della loro personalità. Ma tutta l'opera è tenuta insieme da un fil rouge che si dipana dalle aperture di Leone XIII, che introduce la Chiesa nella modernità e le cui indicazioni magisteriali costituiscono, in sostanza, ragione e spirito di un impegno di quattro generazioni di fedeli laici nell'animazione cristiana dell'ordine temporale. Prefazione Card. Pietro Parolin.
Grazie alla scoperta delle rovine di Ninive e Ur, nel XIX secolo, e alla nascita dell'assiriologia, la nostra capacità di comprendere la civiltà mesopotamica è radicalmente mutata: se le fonti greche ed ebraiche si limitavano a tramandare una costellazione di personaggi leggendari quali Semiramide, Sardanapalo, Nino e Nabucodonosor descritti come tiranni feroci, conquistatori spietati e inclini all'eccesso , appare ora evidente che la cultura mesopotamica è stata davvero, nelle parole di Stephanie Dalley, la culla "della nostra civiltà urbana fondata sulla scrittura". Intervenendo in un dibattito ancora aperto, la Dalley analizza scrupolosamente gli innumerevoli lasciti architettonici, linguistici, religiosi e culturali assiro-babilonesi, e ci rivela il fondamentale impatto della civiltà mesopotamica sul mondo antico (mediterraneo e orientale) sino alla diffusione dell'Islam. Basti pensare alle analogie tra testi mesopotamici e brani biblici, spiegabili, secondo la Dalley, sulla scorta delle scuole scribali: "Quando gli ebrei crearono quel prodotto unico e irripetibile della loro cultura che è la Bibbia, nonché le loro caratteristiche istituzioni, essi si basarono sulle venerande tradizioni esportate dai loro vicini d'Oriente, più antichi, più ricchi e più potenti". Con un saggio di David Pingree.
Esattamente 150 anni fa, le truppe indiane della Compagnia delle Indie si ribellarono al dominio inglese, alzarono il vessillo del jihad prendendo il nome di mujahiddin, uccisero gran parte dei cristiani e degli europei di Delhi e acclamarono come capo il riluttante Bahadur Shah Zafar II, l'ultimo discendente della dinastia musulmana dei Moghul. Zafar, ottantenne, era un mistico e un poeta, e sapeva che la rivolta sarebbe finita nel sangue: l'assedio inglese di Delhi e le successive esecuzioni sommarie provocarono decine di migliaia di morti, tra cui 14 dei 16 figli maschi di Zafar, e la rovina della capitale. In questa straordinaria ricostruzione, Dalrymple utilizza per la prima volta una messe di documenti "dalla parte degli sconfitti "e racconta con passione l'ultimo rinascimento indiano e il suo cruento epilogo.
Tra le storie più affascinanti di sempre merita senza dubbio un posto quella del Koh-i-Nur, il diamante dal valore stimato «in due giorni e mezzo di cibo per il mondo intero», la gemma portentosa contesa nel corso dei secoli da un numero impressionante di re, conquistatori, principi, razziatori, ladri e imperatori, le cui morti truculente ne alimentarono la fama di pietra maledetta: accecati, avvelenati, torturati, bruciati nell'olio bollente, 'incoronati' con il piombo fuso o uccisi dai familiari. Nel riscrivere questa storia, William Dalrymple e Anita Anand la sottraggono alle brume del mito e la ricostruiscono meticolosamente a partire dalle fonti originali (persiane, afghane, urdu, in parte tradotte per la prima volta). E mostrandoci, tra l'altro, come la 'maledizione' non abbia nulla di soprannaturale, ma sia la concreta manifestazione della cupidigia e della furia omicida che questo gioiello inestimabile ha suscitato, storicamente, in tutti coloro che lo hanno bramato. E quando il Koh-i-Nur trovò in Inghilterra «la sua dimora definitiva», lo seguì il suo ultimo proprietario indiano, Duleep Singh, che nacque sovrano del più potente regno dell'India e morì, abbandonato da tutti, in un hotel di Parigi, mentre la gemma che un tempo aveva fieramente indossato faceva bella mostra di sé sulla corona della regina Vittoria.
Questo libro tenta di esaminare "la realtà di Canne" affrontata dai singoli soldati che vi parteciparono, senza perdere di vista "il quadro generale" della battaglia nel suo complesso. Comincia, di conseguenza, a prendere in esame la battaglia sulla base dei criteri convenzionali come il significato strategico, la grande tattica, la topografia e le forze in campo. Fatto questo, compie una digressione per studiare gli eserciti contrapposti, quello romano e quello cartaginese, compito complicato ma necessario, allo scopo di comprendere come essi si batterono a Can ne e perché lo fecero. Grazie ad un quadro ragionevolmente completo delle forze contrapposte, diventa possibile mettere a fuoco in modo specifico l'azione stessa, prima studiando la parte svolta dai comandanti contrapposti, allo scopo di capire fino a che punto ed in quale modo essi abbiano influenzato l'esito dello scontro. Dopo di che, il "modello Keegan" de "Il volto della battaglia", può venire usato per analizzare la battaglia, nel tentativo di individuare l'esperienza dei singoli combattenti a Canne.
Questo libro tenta di esaminare "la realtà di Canne" affrontata dai singoli soldati che vi parteciparono, senza perdere di vista "il quadro generale" della battaglia nel suo complesso. Comincia, di conseguenza, a prendere in esame la battaglia sulla base dei criteri convenzionali come il significato strategico, la grande tattica, la topografia e le forze in campo. Fatto questo, compie una digressione per studiare gli eserciti contrapposti, quello romano e quello cartaginese, compito complicato ma necessario, allo scopo di comprendere come essi si batterono a Can ne e perché lo fecero. Grazie ad un quadro ragionevolmente completo delle forze contrapposte, diventa possibile mettere a fuoco in modo specifico l'azione stessa, prima studiando la parte svolta dai comandanti contrapposti, allo scopo di capire fino a che punto ed in quale modo essi abbiano influenzato l'esito dello scontro. Dopo di che, il "modello Keegan" de "Il volto della battaglia", può venire usato per analizzare la battaglia, nel tentativo di individuare l'esperienza dei singoli combattenti a Canne.