
Da secoli la fortezza silenziosa della Chiesa cattolica è la presenza delle donne: sono loro che principalmente trasmettono la fede alle nuove generazioni e sono sempre loro che con generosità portano a compimento numerosi ministeri ecclesiali. Eppure all'orizzonte appaiono i primi segni di rottura di questa intesa. Protagoniste di un tale cambiamento di rotta sono soprattutto donne che hanno tra i 20 e i 40 anni: vanno di meno a Messa, scelgono di meno il matrimonio religioso, pochissime ancora seguono una vocazione religiosa, e più in generale esprimono una certa diffidenza verso la capacità educativa degli uomini di religione. Prima che sia troppo tardi, è questa l'ora di provare a rinegoziare i termini di una nuova alleanza tra la Chiesa e le donne.
È forse venuto il momento di accogliere Sturzo di ritorno dall'esilio, evidenziando il presupposto fondamentale della sua straordinaria esperienza: l'identità sacerdotale su cui si è innestato un ministero intrecciato di vita, di cultura e di arte, di azione cattolica e di attività amministrative, di lotte politiche e religiose, lungo l'asse della retta intenzione di servire Dio e di non lavorare per sé, ma per gli altri e per Dio (cfr. LNS, p. 104). A più di cinquant'anni dalla sua morte, quest'opera intende riproporre, questa volta con il solo metodo del rigore scientifico, dal teologico al sociologico, dal filosofico allo storico, dall'economico al politico, i capisaldi del ricco pensiero del sacerdote di Caltagirone. Lungi dal rappresentare un compendio dogmatico o ideologico, il "Lessico sturziano" si propone di offrire a una nuova generazione di studiosi e cultori, una prima forma di storicizzazione del pensiero di don Luigi Sturzo. Si dirà: con i limiti stessi della storicizzazione! E per fortuna! Perché è così che sarà possibile rilanciare la ricerca su don Luigi Sturzo, ben al di là di ogni approccio ideologico, unitamente all'intera storia del movimento democratico cristiano europeo.
Nonostante se ne parli sempre di più, i laici mantengono un ruolo marginale all'interno dell'ordinamento della Chiesa cattolica, che si identifica pienamente con i chierici. La partecipazione dei laici alla vita della Chiesa è una partecipazione tutt'al più vicaria ma mai piena e consapevole come invece avrebbe voluto lo stesso Concilio Vaticano II. Eppure la forma di Chiesa che conosciamo e che sembra così difficile da riformare (pensiamo solo al grande dibattito interrotto su un maggiore coinvolgimento e partecipazione delle donne) non è l'unica forma che sia mai esistita. In questo erudito quanto agile saggio, don Ubaldo Cortoni, monaco camaldolese e storico della Chiesa, dimostra come, attraverso lo studio attento delle fonti storiche e attraverso una rivalutazione priva di pregiudizi degli stessi movimenti ereticali, sia possibile rinvenire nel passato della Chiesa alcune soluzioni a problemi che sembrano invece nuovi e inattesi: dal rapporto tra laici e clero, al ministero delle donne, dalla pluralità della riflessione teologica alla compresenza di forme liturgiche diverse.
René Girard ha senz'altro il merito, in un'era segnata dal nichilismo, di aver riportato il dibattito sociologico e filosofico sul terreno, concreto, della realtà. Una realtà che rimane pur sempre aperta e suscettibile di interpretazioni, mai risolta nella sua essenza ma che, tuttavia, non è priva di fatti. Quella indicata dal pensatore francese sembra, dunque, rappresentare una terza via; distante e dalle posizioni di certa ermeneutica filosofica di matrice nietzschiana e heideggeriana, persa nelle ambagi della deriva delle interpretazioni, e dalle rigide posizioni dei positivisti, ancora convinti che esistano soltanto i fatti. In realtà, come afferma Girard, "esistono sia i fatti sia le interpretazioni". Il realismo girardiano ci riconduce all'immanenza della realtà, alla luce "dell'ateismo pratico" dei Vangeli, con un vigoroso richiamo all'etica e con uno sguardo illuminante sulla società contemporanea, le sue crisi e le sue derive di senso. Questo studio oltre ad offrire al lettore una sintesi efficace delle teorie di Girard mette in evidenza, non senza ambizione, alcune sue possibili aporie, in dialogo con alcuni dei massimi studiosi contemporanei di scienze sociali e con uno sguardo privilegiato al pensiero complesso di Edgar Morin.
"'Homo sum: nihil humani a me alienum puto', 'sono uomo: nulla di ciò che è umano lo considero a me estraneo'. Poniamo questa considerazione in apertura ideale al saggio che mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, ha voluto dedicare a un soggetto capitale da sempre, divenuto particolarmente urgente e fin rovente ai nostri giorni: la questione antropologica. La cultura moderna ha smitizzato la grandezza della creatura umana, ma ne è rimasta pur sempre affascinata, a partire da Cartesio che, nel Cogito ergo sum, ha posto nel pensiero l'identità trascendente della persona. Vorremmo ribadire solo un paio di componenti radicali. La prima è quella della libertà. Il secondo lineamento significativo è che la creatura umana è un essere posto in relazione: non è una cellula isolata, ma è una persona che comunica, che ama, che ha incontri." (dalla prefazione del card. Gianfranco Ravasi)
L'autore di questo volume ha voluto tentare di tracciare il profilo di una figura così ricca di sfumature: a tratti misteriose, a tratti sorprendenti. Proveniente da una terra drammaticamente lacerata, eppur al tempo stesso straordinariamente fecondata, dall'incrociarsi e dallo scontrarsi di culture e tradizioni diverse, Gioacchino da Fiore si rivelerà agli occhi del lettore quale inquieto "monaco errante", capace di attraversare regioni remote, ottenendo sempre udienza e fiducia da parte dei papi, dei monarchi e degli imperatori del tempo. Una voce profetica, che sfidando le ortodossie teologiche del tempo, eppur mai tradendo l'ortodossia vera del depositum fidei, può essere riscoperto e rivalutato oggi, nel tempo in cui la clamorosa sconfitta della sua profezia più grande può forse insegnarci a guardare con occhi diversi la crisi ormai secolare che ha segnato la fine (o il fallimento) della modernità.
Per circa due secoli, un intero filone di ricerche intellettuali, sia sincere sia propagandistiche, ha cercato di convincerci degli errori, delle colpe e infine dell'insignificanza del cristianesimo. Oggi queste ricerche hanno esaurito la loro spinta iniziale: l'ateismo è morto di morte naturale. È morto perché non è riuscito, nonostante l'abbondante tempo a disposizione, a portare a compimento il programma di ricerca che si era assegnato. L'ateismo è morto, insomma, perché non ha saputo proporre una visione filosofica alternativa di un qualche valore e che offra un senso all'esistenza umana. È probabile che, nella sua caduta, l'ateismo trascinerà con sé anche il nichilismo, altro triste prodotto della cultura europea degli ultimi secoli. Nel silenzio dell'ateismo contemporaneo, la voce del cristianesimo torna a farsi sentire e diventa di nuovo la grande impresa intellettuale della nostra epoca.
L'indizione di un Giubileo sul tema della misericordia induce a riprendere il grande tema del soffio divino sulle acque del creato di cui nel primo versetto della Genesi. Lo spirito scende sulle acque turbolente della terra ora con forza, ora come una carezza e giunge fino agli estremi della decadenza del creato chiamati tohu e bohu, cioè tenebre e desolazione; fra le pieghe del male estremo, in cui sono le acque stagnanti del creato, si nasconde però ancora un fremito di vita sul quale soffia lo spirito divino per un tempo che noi consideriamo con l'incerto vocabolo di eterno fino a ricondurre tutto verso l'armonia della misericordia creatrice.
Nessuno, ma proprio nessuno di noi, cittadini dell'Occidente avanzato, accetta più di considerarsi o di venire considerato "vecchio". A qualsiasi età qualcuno muoia, muore giovane. Anzi: troppo giovane. E tutto ciò perché la vecchiaia nel nostro tempo è scomparsa, ostracizzata, resa oscena, diventata non più degna di venire a parola, praticamente espulsa dal ciclo naturale dell'esistenza umana. Siamo messi così di fronte all'effetto più conturbante che l'odierno fenomeno della longevità di massa ha sull'immaginario diffuso: grazie ad essa, non si pensa di avere oggi una vita semplicemente più lunga dei nostri antenati, il cui ultimo tratto si chiama appunto vecchiaia, naturalmente proiettato sull'evento della morte. Si ritiene piuttosto di avere a propria disposizione più vite, più esistenze, più possibilità, più occasioni, in cui ricominciare sempre daccapo e grazie alle quali potersi sentire sempre giovani e disponibili a nuovi cambiamenti e progetti, eterni tirocinanti nel laboratorio dell'esistenza. In ogni caso mai adulti o vecchi o semplicemente mortali. Ed è per questo che si muore sempre troppo giovani ed alla realtà della morte viene tolto quel valore di questione ultima e decisiva per la qualità della vita stessa. Questo libro interroga in profondità tali cambiamenti, la loro ripercussione nell'ambito delle relazioni educative e sociali, ed infine il loro effetto sulla pratica della fede, mai immune da ciò che tocca l'umano che è comune.
La ricerca condivisa e approfondita nel Congresso "Liturgia ed evangelizzazione", pur con una notevole diversità di approcci e di prospettive, ha contribuito in maniera significativa a far comprendere che la bellezza che evangelizza nella liturgia non è "cosmetica", frutto di sofisticati artifici, né una bellezza "estetizzante", espressione di uno spirito aristocratico che mira a distaccarsi dalla massa, o solo "un fattore decorativo dell'azione liturgica" (Sacramentum caritatis, 35), e neppure una bellezza edonistica e spettacolare, che garantisce nell'immediato emozioni a basso prezzo. Nel "nucleo fondamentale" della fede, che si celebra nella liturgia, "ciò che risplende è la bellezza dell'amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto" (Evangelii gaudium, 36). Si tratta della bellezza che è possibile riconoscere nel volto del fanciullo, come nel volto dell'anziano, una bellezza sempre "in relazione": chi sa ravvisarla abbraccia e riconosce tutta la persona, non si arresta neppure di fronte al volto sfigurato del Crocifisso e dei suoi fratelli e sorelle che si incontrano nella storia. Il Congresso, promosso dalla Segreteria Generale della Conferenza Episcopale Italiana e organizzato in collaborazione con la Pontificia Università Gregoriana (Roma 25-27 febbraio 2015), ha inteso accogliere l'invito di Papa Francesco a riscoprire la bellezza evangelizzante della liturgia.
Assumendo la persona come fine ultimo di qualsivoglia processo politico, economico e culturale, cogliendo la centralità ontologica, epistemologica e morale della persona, ricorrendo direttamente ai testi del Magistero sociale della Chiesa, gli autori intendono evidenziare il perché siano proprio i valori che gli uomini adottano e testimoniano nella propria vita a decretare il successo o il fallimento delle imprese. Per usare un'espressione cara al prof. Marco Vitale, nella prospettiva cristiana dell'imprenditorialità, l'uomo giunge al crocevia dello sviluppo portando con sé certamente capitali finanziari e know-how ma, ancor prima, ciò che gli è stato donato (anch'essi capitali): virtù, abilità, fantasia, sensibilità, intelligenza. La raccolta curata da Abela e da Capizzi ha il merito di mostrare come la virtù imprenditoriale rappresenta sempre più la leva essenziale per il successo in campo economico. Essa, tuttavia, affinché possa innescare il circolo virtuoso dello sviluppo economico, generando fiducia e inclusione sociale, richiede uomini d'affari sempre più consapevoli e responsabili, capaci di interrogarsi continuamente sul senso del proprio vivere, nonché, sulle conseguenze dirette e indirette del proprio agire. In questa prospettiva, i nostri autori, ricorrendo a brani significativi del Magistero sociale della Chiesa, ci mostrano come, nella prospettiva cristiana, lo sviluppo non sia riducibile alla mera crescita economica e il mercato al freddo gioco della domanda.
L'economia esige morale, esige nomos. Lo stesso papa Francesco nella Lettera Enciclica Laudato Sì' sostiene: «La crisi finanziaria del 2007-2008 era l'occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell'attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c'è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo» (n. 189). A partire dall'opera del teologo canadese, il gesuita B.J.F. Lonergan, il volume intende sviluppare una riflessione sul senso ed il valore dell'economia e della finanza, che torni a coinvolgere, o quanto meno ad interpellare l'istanza teologica, soprattutto allo scopo di valutare la relazione che intercorre tra l'economia e la teologia, con particolare riguardo alla teologia morale sociale.